TRa Russia e America

La scatola di vetro di Evan Gershkovich

Micol Flammini

E' trascorso un anno dall'arresto del giornalista americano con l'accusa di spionaggio, che oggi vuol dire tutto e niente, ma suona come una minaccia: Mosca si è chiusa al mondo e sopra ai russi. La detenzione a Lefortovo e le ipotesi di scambio 

Evan Gershkovich un anno fa  era a Ekaterinburg, se ne stava  seduto attorno al tavolo di un ristorante, pensando a tutto, fuorché alla possibilità che quel 29 marzo i servizi di sicurezza russi lo avrebbero potuto arrestare. Il giornalista del Wall Street Journal era andato nell’oblast di Sverdlovsk, stava lavorando sui mutamenti della Russia stravolta dalla guerra, sui centri di reclutamento, sul rapporto con le milizie Wagner e sulla nuova industria bellica, così ipertrofica da tenere in piedi tutto il paese. Evan era scomparso all’improvviso, il suo telefono era spento e nessuno sapeva più nulla di lui. L’ultimo ad averlo visto era stato il suo autista che non sapeva che dopo aver mangiato, Evan era stato arrestato con l’accusa di spionaggio, che oggi in Russia vuol dire tutto e vuol dire niente, è un’accusa vaga che ha il suono esatto  di   una minaccia. 


Dopo l’arresto a Ekaterinburg, Evan Gershkovich è stato riportato a Mosca e nessuno, se non il suo avvocato, lo ha più visto fuori dalla scatola di vetro in cui in Russia si mettono gli imputati in tribunale. Dietro quel vetro sono passati dissidenti, giornalisti, imprenditori, politici, poeti, fisici: è diventato il perimetro della Russia libera, ed è molto angusto. Gershkovich è stato poi rinchiuso nella prigione di Lefortovo, un carcere di massima sicurezza, gestito dall’Fsb, su cui girano molti miti – per esempio sulla presenza del fantasma di Lavrenti Berija – e altrettante realtà: è un posto pensato per fare in modo che l’isolamento sia totale e snervante. Le celle sono piccole, illuminate a giorno per ventiquattr’ore, nessuno può entrare, se non gli avvocati, i secondini seguono pratiche antiche per spaventare e spezzare la resistenza dei detenuti. Lefortovo esiste dai tempi degli zar, è rimasta immutata dal periodo sovietico come la maggior parte delle prigioni russe, se non per una piccola aggiunta: una cappella. Oggi nel carcere vengono mandati coloro che sono ritenuti dei traditori, come le spie, come Evan Gershkovich, che trascorre le sue giornate leggendo romanzi e scrivendo lettere, ai genitori ne manda una a settimana: fa battute, ha speranza, è forte di spirito, dicono loro che lasciarono l’Unione sovietica alla fine degli anni Settanta. 


Quando un anno fa, il giornalista venne arrestato, non c’era bisogno che il Cremlino spiegasse le sue intenzioni. Eppure, Dmitri Peskov che di solito tace sugli arresti politici, ci aveva tenuto a dire che Gershkovich era stato fermato in flagranza di reato, quindi le prove erano sufficienti per incriminarlo per spionaggio. Da quel momento la Russia si è fatta più stretta, più chiusa. L’arresto non è stato soltanto il segnale di quanto ormai la giustizia russa sia aleatoria, lo aveva dimostrato con le condanne agli oppositori, ma è stato soprattutto  il modo più brutale con cui il Cremlino ha deciso di dire  che non aveva più intenzione di far raccontare la Russia, che non soltanto ormai considera chiuse le sue relazioni con l’occidente, ma che i paesi che non stanno alle sue regole non devono vedere, non devono sapere. La propaganda russa ottunde le menti di chi trascorre le ore davanti alla televisione, gli altri non sono autorizzati a conoscere. Non devono circolare versioni alternative al Cremlino e chi lo fa con un regolare visto giornalistico non deve comunque sentirsi al sicuro. E’ la Russia che si chiude al mondo e sopra le teste dei suoi cittadini, perché anche un giornalista americano, che conosce la Russia e il russo, è una minaccia alla propaganda di Mosca. Il calcolo è semplice e antico: quanto più un paese è impenetrabile, tanto meno il suo regime è facile da sconfiggere. L’ultima volta che in Russia era stato arrestato un giornalista americano era il 1986, Gershkovich non era neppure nato. Nicholas Daniloff dello U.S. News & World Report trascorse a Lefortovo venti giorni con la stessa accusa di Evan, poi fu liberato in uno scambio con Gennadi Zakharov, un fisico che lavorava presso le Nazioni Unite, arrestato a New York. Un giornalista americano incriminato per spionaggio nelle mani del regime è prezioso, alza il prezzo di qualsiasi scambio. 


Mentre aspetta nella sua cella del carcere moscovita, il nome di Evan viene fuori a ogni trattativa tra Stati Uniti e Russia, anche quella più chiacchierata e che in realtà era soltanto agli albori per liberare  Alexei Navalny. Era vero che si parlava di un accordo che permettesse di portare via dalla Russia  Navalny, Gershkovich e l’ex marine americano Paul Whelan, in prigione dal  2018, in cambio di Vadim Krasikov,  arrestato in Germania per un omicidio nel pieno centro di Berlino. E’ vero che il presidente americano Joe Biden e il cancelliere tedesco Olaf Scholz si sono incontrati per parlare dello scambio. Ma Navalny è morto e il giornalista del Wall Street Journal come l’ex marine rimangono detenuti. Più trascorre il tempo, più Evan in prigione è il simbolo di quello che la Russia vuole essere ai nostri occhi. Intrattabile, pericolosa, chiusa, e sta dicendo ai suoi cittadini: se volete vedere il mondo cercatelo in quella scatola di vetro, è piccolo, vero?

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.