I silenzi operosi tra Israele e Biden su Rafah

Micol Flammini

Gli Stati Uniti vogliono conoscere i piani di Gerusalemme. L’operazione nella città rifugio serve a disarmare Hamas, non è una linea rossa, ma dalla Casa Bianca dicono: ecco le alternative

A Rafah non si entra in punta di piedi. A Rafah si entra per distruggere i quattro battaglioni di Hamas che rimangono nella Striscia di Gaza, nascosti nella città meridionale che dall’inizio della guerra si è trasformata in affamata città rifugio. Non sono i battaglioni più forti dei terroristi, ma in questi mesi, i miliziani sopravvissuti agli scontri con l’esercito israeliano nella Striscia hanno raggiunto la città per unirsi ai  compagni, quindi i battaglioni si sono gonfiati di numero e si nascondono sotto le infrastrutture civili di quello che per loro è il posto più sicuro perché colmo di persone. Più la guerra avanza, più Israele è in grado di recuperare informazioni di intelligence quindi anche di essere più preciso ed è proprio questo che gli americani chiedono a Tsahal: precisione. L’operazione a Rafah non è esclusa neppure da Joe Biden che ha invitato una delegazione israeliana ad andare a Washington per analizzare insieme dei piani alternativi. Gli Stati Uniti vogliono vedere come Israele è in grado di entrare nella città rifugio. L’obiettivo è disarmare Hamas mentre i colloqui vanno avanti a Doha e sono sempre impigliati alle decisioni di Yahya Sinwar, il leader del gruppo rimasto nella Striscia che ha sempre l’ultima parola sulle proposte che escono dai negoziati. Secondo la stampa israeliana, alcuni funzionari americani hanno detto che esiste un altro modo per disarmare i terroristi ed è agire sulla fonte primaria: il contrabbando che arriva  dal lato egiziano attraverso il corridoio di Filadelfia, che negli ultimi quindici anni ha armato e riarmato Hamas. L’operazione non è imminente, è ragionata e spesso usata anche per fare pressione suoi terroristi, che a loro volta sanno che se Israele irrompesse a Rafah la situazione umanitaria peggiorerebbe, tutti gli occhi sarebbero sulle azioni dell’esercito israeliano nel contesto di un’opinione pubblica che ha imparato a odiare Gerusalemme. Quindi Hamas cerca di attirare i soldati a Rafah, tra i civili, mentre rende i negoziati a Doha lunghissimi, intervallati da continui ostacoli. Israele non ha mai pensato alla sua comunicazione e alla sua immagine internazionale, parte dal fatto che comunque sarebbe odiato,  ma è anche questo che gli Stati Uniti vogliono evitare. Joe Biden sta invitando gli israeliani per prevenire il disastro, vuole sapere cosa accadrà a Rafah, si preoccupa di Gaza e anche dello stato ebraico. Biden e il premier israeliano Benjamin Netanyahu non sono mai andati d’accordo, non si piacciono, ma la questione tra Stati Uniti e Israele non è politica, va oltre, per questo il presidente americano non ha cessato il suo sostegno allo stato ebraico e il suo segretario di stato, Antony Blinken, ha iniziato  il   sesto giro per il medio oriente in cerca di una soluzione. In cambio però gli Stati Uniti vogliono qualcosa di serio, chiedono a Israele un impegno contro il caos nella Striscia che è mortale, vogliono che vengano aperti più varchi via terra a nord e che si consenta l’accesso a più camion carichi di aiuti. Ieri il Wall Street Journal ha pubblicato un’esclusiva molto rilevante: un piano israeliano per il dopoguerra a Gaza esiste. Gerusalemme vuole fare affidamento su politici e uomini d’affari palestinesi non coinvolti con Hamas, ai quali verrebbe affidata anche la gestione degli aiuti. Oggi il segretario della Cia Bill Burns arriverà a Doha per parlare con il capo del Mossad, David Barnea, il capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel,  e con il primo ministro del Qatar, Mohammed al Thani. I litigi tra Israele e Stati Uniti piacciono molto a Hamas, ma dietro ai silenzi al quinto  mese di guerra si parla più di collaborazione che di linee rosse.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.