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Hezbollah spara e aspetta che la pressione internazionale su Israele faccia il resto

Fabiana Magrì

La scadenza indicata da Washington per l’inizio di una tregua è superata. L’establishment israeliano della difesa si prepara per ogni scenario sui diversi fronti: "Siamo consapevoli che potrebbe essere un mese di jihad"

Tel Aviv. Tutto può accadere, durante il mese sacro del Ramadan. La scadenza indicata da Washington per l’inizio di una tregua che consenta la liberazione dei 134 ostaggi israeliani sequestrati a Gaza da 157 giorni è superata ma il presidente degli Stati Uniti Joe Biden non si arrende. “Penso che sia sempre possibile”, insiste. Anche i mediatori egiziani e qatarini sono impegnati nel tenere in vita i negoziati tra Israele e Hamas. L’establishment israeliano della difesa si prepara intanto per ogni scenario sui diversi fronti. Il capo della Kirya, il ministro Yoav Gallant, ha aggiunto al tradizionale messaggio di auguri per i fedeli musulmani un avvertimento per i nemici. “Siamo consapevoli che potrebbe essere un mese di jihad – ha detto ieri –  A chi pensa di provarci diciamo: siamo pronti, non commettere errori”. 

“Se c’è una decisione iraniana di infiammare tutte le arene, allora accadrà. Sia che si tratti della Cisgiordania, o delle città miste arabo ebraiche all’interno di Israele, o di Gaza o del nord. Ed è decisamente preoccupante“. Lo teme Sarit Zehavi, esperta di medio oriente, di Iran, Libano e Siria e di Hezbollah, studiosa di terrorismo e controterrorismo. Zehavi vive a nove chilometri dal confine tra Israele e Libano, appena quattro oltre la zona cuscinetto stabilita dall’esercito israeliano per l’evacuazione dei 660 mila residenti delle 43 comunità che si trovano entro cinque chilometri dalla frontiera. Da qui dirige l’Alma Center, il centro di ricerca che lei stessa ha fondato per analizzare le sfide alla sicurezza di Israele sulla linea settentrionale. La settimana scorsa, l’esercito ha effettuato un’esercitazione di fornitura logistica, uno degli aspetti dei preparativi per una potenziale offensiva di terra in Libano. Le truppe  – ha spiegato il portavoce militare – hanno simulato “il carico e lo scarico di attrezzature dagli aerei dell’aeronautica e il trasporto di attrezzature utilizzando veicoli a terra” e il rifornimento di acqua, carburante e munizioni per le forze di manovra impegnate in prima linea in eventuali combattimenti.

Da tempo Israele ribadisce l’avvertimento che non può più tollerare le provocazioni di Hezbollah lungo il suo confine settentrionale, specialmente dopo l’invasione di Hamas del 7 ottobre nel sud del paese. L’intensità degli attacchi e contrattacchi lungo il fronte nord rimane elevata. Ogni giorno. “Negli ultimi mesi – racconta Zehavi, che è stata ufficiale di Tsahal per 15 anni, inizialmente come analista poi nel Comando nord – non si tratta più soltanto di missili anticarro o a breve distanza. Lanciano anche razzi alla portata dell’Iron Dome ma quando si tratta di raffiche, come quelle recenti sul Monte Meron, l’efficacia della protezione è parziale”. La soluzione diplomatica, e l’analista sostiene che sia la via preferibile per la leadership israeliana, è ferma alle dichiarazioni di Hezbollah che si rifiutano di trattare finché non sarà cessato il fuoco a Gaza.

“Noi che viviamo qui – spiega Zehavi – siamo favorevoli a un accordo purché non ci riporti indietro nel tempo al 6 ottobre”. La sensazione, lungo quel confine, è che Hezbollah fosse assolutamente pronto a invadere la Galilea. “Per qualche ragione di cui nessuno di noi è a conoscenza e che possiamo solo stimare – sostiene l’ex ufficiale –  alla fine non l’ha fatto”. Ma l’ideologia esiste e le minacce di un’invasione sono esplicite. All’Alma Center le stanno monitorando nei media digitali in arabo. Da qui nasce lo scetticismo di Zehavi sulle proposte di soluzioni avanzate finora dall’Occidente che parlano di ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani come stabilito dalla risoluzione 1701 dell’Onu, del 2006.

“Ritiro di chi?”, si chiede l’esperta. “Hezbollah è una forza locale. Nel sud del Libano ci vivono, hanno le loro case. Non le abbandoneranno. Dovremmo piuttosto parlare di disarmo. E fissare una scadenza per consentire alla nostra gente di tornare a casa. E assicurarci che esista un meccanismo di controllo più efficace dell’Unifil che non entra nei territori privati ​​o dell’esercito libanese che collabora con Hezbollah”. Zehavi osserva con preoccupazione il calo della motivazione, nella comunità internazionale, a sostenere la lotta di Israele contro Hamas. Le recenti pressioni degli Stati Uniti  per inibire le operazioni militari di Israele a Gaza ne sono un esempio. E l’analista ritiene che interferiscano anche sul fronte settentrionale. “E’ un messaggio controproducente che inviamo a Hezbollah e all’Iran. Se non saremo in grado di finire ciò che abbiamo iniziato nella Striscia, la sofferenza degli abitanti di Gaza continuerà e non ci sarà un nuovo futuro nemmeno per loro. Se non portiamo a termine il lavoro, Hezbollah sarà portato a credere che, alla fine, puoi massacrare gli israeliani e uscirne indenne”.

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