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L'intervista

L'industria bellica europea è in salute, ma serve qualcosa in più

Mariarosaria Marchesano

L’Ue vuole i privati a bordo nel settore  della Difesa, ma il problema sono le norme sulla sostenibilità. Parla il banchiere d'affari Stephan Klecha

L’Unione europea sta mettendo a punto una strategia per supportare l’industria della Difesa, ma, anche in considerazione della resistenza di alcuni paesi a utilizzare risorse pubbliche comuni, è uno sforzo che dovrà essere coadiuvato da capitali privati che mai come adesso sono poco propensi a investire nel settore bellico in nome della sostenibilità sociale e ambientale. Insomma, il mantra del politicamente corretto potrebbe ostacolare l’emancipazione militare dell’Europa? “Temo di sì e rischiamo di trovarci di fronte allo stesso paradosso della transizione energetica quando i fondi d’investimento hanno cominciato a escludere dai propri acquisti le società che producono petrolio e carbone quando è chiaro che ne abbiamo ancora bisogno”, dice al Foglio Stephan Klecha, banchiere d’affari francese, fondatore e socio della Klecha&C, che da trent’anni segue a livello europeo lo sviluppo del settore It. Eppure, le società degli armamenti stanno attraversando un momento d’oro, come si vede dalla forte crescita dei valori sui mercati azionari: nell’ultimo anno l’italiana Leonardo ha guadagnato oltre il 90 per cento, la tedesca Rheinmetal l’80 per cento, la francese Safran il 46 per cento e sempre nello stesso periodo la paneuropea Airbus è salita del 30 per cento e la britannica Bae Systems del 50 per cento. E osservando l’andamento storico degli indici di Borsa del settore a livello mondiale si verifica facilmente che dall’invasione Russa dell’Ucraina in poi c’è stata un’inversione di tendenza tra Europa e Stati Uniti. 


Insomma, l’industria bellica del vecchio continente sembra scoppiare di salute. “Bisogna distinguere gli ambiti”, prosegue Klecha, “Quello che sta succedendo è che le grandi compagnie europee stanno beneficiando dei maggiori stanziamenti dei singoli stati per la spesa militare e delle aspettative per un maggiore impegno dell’Unione europea nella costruzione di una difesa comune, mentre le concorrenti americane stanno risentendo dello stallo politico sul debito pubblico che crea incertezza sui finanziamenti alla difesa. L’inversione di tendenza si spiega così, fermo restando che la spesa militare americana, in termini assoluti, è più di tre volte superiore a quella europea, dieci volte superiore a quella russa e più del doppio di quella cinese. Ma al di là di questo, penso che bisognerebbe preoccuparsi di più del fatto che se vogliamo davvero un’Europa meno dipendente dall’America per la propria difesa, occorre che si creino anche condizioni di mercato favorevoli”. E non ci sono, secondo lei? “Forse non tutti comprendono che le aziende del settore bellico sono come tutte le altre, cioè hanno bisogno di investimenti che ne sostengano lo sviluppo, soprattutto per l’innovazione e la ricerca nelle tecnologie militari, terreno sul quale si gioca la competizione tra stati e tra aree geografiche. Gli stati sono committenti di forniture e fino a oggi l’Europa si è rifornita molto Oltreoceano. Ora, la strategia della Commissione europea vorrebbe concentrare il 40 per cento degli acquisti da noi, ma questo presuppone un’adeguata crescita di tutto il comparto, che comprende realtà di medie e piccole dimensioni che dipendono dal sostegno bancario e finanziario. Molto spesso, queste imprese sono penalizzate perché non rientrano nei criteri di sostenibilità, quelli che tecnicamente si chiamano Esg”. 


In effetti, uno studio di Deutsche bank dimostra che il 21 per cento dei fondi d’investimento europei esclude il business degli armamenti da quelli che ritengono “investibili”, mentre negli Stati Uniti solo poco più dell’1 per cento della stessa tipologia di operatori si regola allo stesso modo. E’ una scelta che riflette un approccio ideologico molto diffuso soprattutto nei paesi nord europei e scandinavi, che, secondo Klecha, potrebbe portare alla perdita della capacità di alcuni operatori di fornire i propri servizi soprattutto considerando l’interdipendenza nelle catene di forniture. Eppure, uno studio del Parlamento europeo dimostra che la maggiore collaborazione dei paesi europei nella difesa potrebbe fare risparmiare tra 24,5 e 75,5 miliardi all’anno nella spesa militare, che a livello aggregato è di circa 245 miliardi (ultimo dato 2022). Dunque, la strada è tracciata, come dimostra anche il piano presentato dalla Commissione europea martedì. “Più che un piano, mi è parso uno statement politico, una presa di coscienza che qualcosa va fatto – conclude – È un importante passo in avanti ma l’obiettivo a cui, secondo me, bisognerebbe tendere è la creazione di una top list di fornitori europei su cui concentrare tutti e non solo una parte degli acquisti di armamenti e tecnologie. Solo così si costruirebbe una leadership militare dell’Europa in cui l’Italia avrebbe sicuramente un ruolo di primo piano”. In effetti, nella classifica dei primi 100 produttori di armi al mondo, stilata dallo Stockholm international peace research institute, un organismo indipendente, la prima azienda europea che figura (al tredicesimo posto) è Leonardo, che si piazza dopo i colossi americani, cinesi e russi, ma prima dei campioni francesi e tedeschi. Anche se il suo fiore all’occhiello è considerato ormai il Gcap, il programma per progettare un caccia di sesta generazione sviluppato in partnership con Gran Bretagna e Giappone. 
 

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