le primarie americane

Il Super Tuesday incorona Trump e Biden

Giulio Silvano

L'ex presidente americano vince in 14 stati ma perde il Vermont, dove gli elettori repubblicani hanno scelto Nikki Haley: “Non c’è mai stato niente di così conclusivo”, ha detto a scrutinio in corso. Sul fronte dem il Potus va forte con oltre il 90 per cento in tutti gli stati

Los Angeles. Quindici stati e un territorio sono stati chiamati martedì a scegliere i candidati per il voto di novembre. Parliamo di milioni di elettori, di stati importanti come il Texas (29 milioni di abitanti) e della California (39 milioni) dove si selezionano a tutti i livelli della politica i candidati che si scontreranno a novembre. È il Super Tuesday.

Per i democratici nelle primarie presidenziali non c’è show, nonostante qualcuno ci abbia provato a sfidare Joe Biden. Nonostante i gruppetti nati per sfidarlo sulla questione Israele, il Potus va forte con oltre il 90 percento in tutti gli stati. Nel grande circo repubblicano dopo l’addio di Ron DeSantis, Mike Pence, Tim Scott e altri che si sono piegati allo strapotere trumpiano, salendo sul carro o ritirandosi nell’ombra, il SuperTuesday è stato uno scontro a due, Donald J Trump contro Nikki Haley. Trump ha vinto. Non che fosse una sorpresa. Fino a ora Haley aveva ottenuto la maggioranza dei delegati solo a Washington DC, in quella che l’AltRight chiama the swamp, la palude, per i populisti di destra è il villaggio dei burattinai corrotti. Ora ha vinto anche il piccolo Vermont, su nel nord est, terra di aceri e BnB e college intellettuali. Ma questo rende Trump l’unico principale frontrunner ad aver perso uno stato alle primarie. Sul fronte dem, se queste primarie sono state un referendum su Biden, il risultato è positivo.

Per Trump quella del SuperMartedì è senza dubbio una vittoria. “Non c’è mai stato niente di così conclusivo”, ha detto a scrutinio in corso. Vuole smettere di spendere soldi contro Haley per concentrarsi nella lotta con Biden, considerato che deve molti soldi allo stato (un giudice a fine febbraio lo ha costretto a pagare quasi mezzo miliardo di dollari). Nonostante i grandi numeri, soprattutto nel midwest – in Oklahoma ha vinto con oltre l’80 percento – non è detto che l’elettorato di Haley lo scelga poi alle elezioni generali in autunno. I numeri di Haley non sono bassissimi dappertutto, e questo vuol dire che c’è una fetta dei conservatori che vorrebbe rimettere il GoP sulla retta via, che vorrebbe abbandonare la deriva anti-politica. Secondo i sondaggi molti di questi conservatori-moderati non sarebbero pronti a votare The Donald se venisse riconosciuto colpevole da uno dei vari giudici, si parla di 3 repubblicani su 10. Su Trump pesano al momento 91 capi di accusa, tra qui quello dell’insurrezione per i fatti del 6 gennaio. Trump è arrivato al voto ringalluzzito dopo la sentenza della Corte Suprema che gli permette di candidarsi senza freni, nonostante alcuni stati abbiano provato a bloccarlo in quanto potenziale insurrezionista.

Non serviva il SuperTuesday per capire che il partito di Reagan e di Lincoln (e dei Bush e delle Liz Cheney e dei Mitt Romney) è nelle mani di Trump, che apprezza gli autocrati asiatici ed esteuropei, che insulta i giudici che lo processano. I numeri lo riconfermano forte negli stati del sud, in Texas e in Alabama, negli stati di confine – la crisi dei migranti è il tema caldo del momento – e negli stati meno scolarizzati. Niente di nuovo, insomma. Il suo elettorato è sempre quello. Ma Nikki Haley qualche voto, e in certi stati più di qualche voto, l’ha preso: oltre il 35 percento in Massachusetts e in Virginia, 34 in Colorado, 26 in Maine, 28 in Minnesota e 23 North Carolina. Ci si chiede se da qui a novembre Trump riuscirà a ricucire il partito e prendersi anche quei voti, o se questi finiranno a Biden, o dispersi.

Trump ha aspettato questa parziale incoronazione a Mar-A-Lago, la sua Versailles della Florida, ma si sono tenuti watch party in tutto il paese. In quello dei repubblicani ispanici di Los Angeles, dove si aspettano i risultati fino a tarda sera, ci sono voci discordanti. Alcuni hanno votato Haley e non hanno paura di dirlo. Ma nessuno osa parlare davvero male di Trump, soprattutto dopo che ha minacciato i donatori della sua rivale, dicendo che “verranno banditi per sempre dal mondo MAGA”. Tra preghiere, pizze, alette di pollo, si parla già di novembre. E del fatto che la comunità ispanica si sente tradita dai democratici – “non ci importa del governo, a noi ci importa della famiglia”, dice al Foglio un candidato al Congresso ex sindacalista democratico, attaccando i dem che permettono il “lavaggio del cervello sulle questioni gender nelle scuole”. Sulle macchine nel parcheggio hanno scritto sui vetri “Dio, patria, famiglia” e sventolano le bandiere Blue Lives Matter, in difesa dei poliziotti. Andando in giro per i seggi della California, al di fuori dei circoli affiliati al GoP, si incontrano pochi trumpiani – è uno stato blu – ma chi vota repubblicano non mette in dubbio l’eccezionalità dell’ex presidente. Qui Haley ha preso poco sopra il 20 percento. Al seggio di Beverly Hills un uomo in tuta di ciniglia Sergio Tacchini verde, occhiali da sole, catenine cattoliche sul petto nudo, dice al Foglio che “Biden è peggio di Mussolini, è un comunista. E anche Nikki Haley è una dipendente statale, anche lei è in combutta con loro”. Un’agente immobiliare con gli yoga pants e la catenina con la stella di Davide al collo dice: “Voto Trump perché è l’unica possibilità per il cambiamento”. Nel feudo trumpiano di Huntington Beach, nell’Orange County, si vedono festeggiare con largo anticipo dei supporter con cappellini e bandiere e sembra di essere in Alabama, non fosse per le palme e i Rolex. Huntington Beach, enclave bianca, ricca e repubblicana, da qualche mese è illegale sventolare la bandiera LGBTQ. Era conosciuta come “Surf city USA” – e nelle riunioni municipali c’è ancora una tavola da surf appesa sul muro dietro la sindaca – ma adesso è vista come il fortino MAGA nella progressista California del sud. Dove si è minoranza, gli estremisti sono più forti.