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I Navalny in Cina esistono

Giulia Pompili

Dal professor Li, a Milano, a Liu Xiaobo passando per Ren Zhiqiang. Non li vediamo perché Pechino li fa sparire prima di zittirli per sempre

Il professor Li, come ha deciso di farsi chiamare nascondendo, seppur solo formalmente, la sua identità, vive a Milano. È lì che durante la politica “Zero Covid” imposta dal Partito comunista cinese ai suoi cittadini, per controllo autoritario più che per motivi scientifici, ha iniziato a diffondere notizie sui suoi profili social, e in particolare su X, l’ex Twitter, a proposito delle proteste, censuratissime in patria, contro l’autoritarismo della leadership in Cina. Nel giro di poche settimane più di un milione di utenti ha iniziato a seguirlo. Ma quell’attenzione mediatica, come ha raccontato lo stesso Li durante un’intervista al Foglio a giugno dell’anno scorso, ha avuto la conseguenza di aver attirato anche le sistematiche intimidazioni di altri cittadini cinesi e delle autorità cinesi. Non solo contro di lui, contro i suoi familiari e la rete dei suoi conoscenti: domenica scorsa sul suo profilo X @whyyoutouzhele ha scritto che “attualmente il ministero della Sicurezza” di Pechino “sta controllando i miei 1,6 milioni di follower e le persone che commentano i miei post, uno per uno”, e ha pubblicato i messaggi privati che aveva ricevuto da parte di persone che erano state interrogate solo per essere follower del suo account. Duecentomila persone hanno già smesso di seguirlo per paura. 

Quella del professor Li è la storia più vicina a noi, anche geograficamente, di un dissidente cinese che non finisce sulle prime pagine dei giornali, che non ha un volto e una voce riconoscibile in occidente, ma che svolge un ruolo fondamentale non solo nella diaspora cinese ma anche tra i cinesi dentro ai confini della Repubblica popolare: informa, diffonde notizie senza censura. 

C’è un motivo se i dissidenti cinesi famosi e riconoscibili in occidente sono sempre meno, e se non conosciamo neanche un oppositore politico del Partito comunista cinese. “Non esiste un equivalente cinese di Navalny perché in Cina non c’è un partito di opposizione e quindi non c’è un leader dell’opposizione”, ha scritto ieri sul New York Times Li Yuan. L’ultimo ad aver attirato l’attenzione mediatica internazionale è stato il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, morto mentre era ancora tecnicamente agli arresti nel 2017, ma anche  Chen Guangcheng, arrestato per le sue battaglie contro il Partito e riuscito a scappare all’ambasciata americana di Pechino nel 2012, e poi c’è Ren Zhiqiang, imprenditore che criticò duramente il Partito comunista cinese e la gestione della pandemia fino al 2020, quando scomparve, e poi fu condannato a diciotto anni di reclusione. A differenza della Russia, in Cina nessun oppositore politico può parlare con l’esterno, nessuno può diffondere il proprio messaggio, la propria idea di Cina alternativa, perché il Partito e le autorità minacciano, intimidiscono familiari, parenti e conoscenti, anche all’estero – e naturalmente spaventano i governi dei paesi che ospitano certe voci con lo spauracchio della coercizione economica.

Secondo la ong Dui Hua attualmente sarebbero agli arresti in Cina 7,371 oppositori politici. Esistono, anche se non li vediamo. La leadership di Pechino teme la parola più di ogni altra cosa, e l’effetto Navalny che ha costruito un’opposizione creativa a Putin negli anni, con il suo corpo e anche con l’ironia. “Lasciare la Cina non offre necessariamente la libertà dalle restrizioni del regime”, ha scritto l’altro ieri l’Economist. “Visto che la Cina non accetta la doppia cittadinanza, molti emigrati sono ora solo cittadini di un altro paese. Tuttavia, il Partito ha la capacità di influenzare anche coloro che non hanno più il passaporto cinese”. La leadership li lascia in pace fino a quando non si esprimono su fatti politici: “Da quando Xi Jinping è diventato leader della Cina nel 2012, la portata degli argomenti sensibili o tabù si è ampliata, sia all’estero che in patria. Vivere fuori dalla Cina è diventato più simile a vivere al suo interno”. 

Il terrore di esprimersi su argomenti sensibili e la conseguente autocensura è un problema gigantesco, che va di pari passo con l’ampliamento della legge sul segreto di stato: l’altro ieri la leadership di Pechino ha approvato per la prima volta dal 2010 la revisione della normativa, che amplia la portata del tipo di informazioni che possono essere considerate un rischio, e che comprendono adesso anche i “segreti di lavoro”. E così aumentano le persone che spariscono dopo essere state accusate di aver rivelato “segreti”, anche soltanto per aver lavorato per aziende estere (soprattutto americane). Uno stato di polizia e di paura che sta allontanando sempre di più anche gli investitori stranieri, che spesso preferiscono non portare con loro familiari e parenti in Cina.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.