Dalla nostra inviata

Che fortuna danzare a Odessa!

Micol Flammini

Nata a Mosca, cresciuta lontana, la storia di Svetlana Antipova. Il saluto con il figlio in guerra, la lingua russa, il balletto senza Caikovskij e l’impossibilità di comunicare con gli zombie di là dal confine

Odessa, dalla nostra inviata. Odessa non ha rivali nel buon umore, i suoi abitanti ci tengono molto a sottolineare che, se si va alla ricerca dell’ucraino colto, dall’orecchio raffinato e imbattibilmente ottimista, allora questa città è il posto giusto. A Odessa si chiacchiera moltissimo e alle domande “come vanno le cose con la guerra?” o “sei andato  nel  rifugio quando la sirena si è messa a ululare?”, c’è la tendenza a rispondere: “La guerra? Ne parliamo dopo”. Prima bisogna parlare del viaggio fino a qui, di quello per uscire, dei monumenti impacchettati e del ballo. Soltanto dopo molte domande e numerosi aneddoti, si inizia a parlare di guerra, e se ne parla per ore. Svetlana Antipova è una ballerina, in città è conosciuta per aver messo su una delle più importanti scuole di ballo, una  “severa, vecchio stile”, sogghigna lei con sfacciato compiacimento. Svetlana può permettersi di tutto, il compiacimento, la sfacciataggine, anche di chiudere la porta in faccia ai suoi allievi perché ora è impegnata: deve raccontare. E’ nata a Mosca negli anni Quaranta, “sul passaporto ho scritto Mosca, ma per fortuna sono ucraina”. E’ russa di nascita, suo padre era un ufficiale dell’esercito, un mestiere con cui dentro all’Unione sovietica si viaggiava molto e così lei è stata un po’ ovunque, ma si è posata qui, a Odessa, dove ha vissuto, ha ballato, si è fatta una famiglia.

 

“Non posso stare senza lavorare, il mio mestiere è importantissimo, anche se adesso ho perso quasi la metà dei miei allievi. Sono andati via da quando è iniziata l’invasione”, ma da quel momento il suo lavoro si è fatto più intenso perché quella scuola “vecchio stile” è diventata necessaria. Anche se la notte prima i russi hanno bombardato e si è rimasti svegli fino alle cinque, non importa: il giorno dopo ci si mette sulle punte, con disciplina e dedizione, perché quelle lezioni non servono soltanto agli allievi di Antipova, ma anche agli spettatori, anche a quei bambini  rimasti senza genitori che a volte assistono agli spettacoli. “Nella vita sono tornata spesso in Russia per lavoro – racconta Antipova –  ma ogni volta   sentivo una sensazione strana. C’erano una durezza di fondo, una violenza pronta a scattare in qualsiasi momento che mi facevano sentire estranea. Ed estranea lo ero, perché crescendo a Odessa ero abituata ad altro”. Svetlana ha i capelli rosso fuoco, il viso segnato e un’ironia pronta a sgattaiolare fuori in ogni sua frase: “Ho dei parenti in Russia, al telefono cercavano di convincermi che non ci fosse nessuna guerra in Ucraina, che non dovevo preoccuparmi perché era soltanto un’operazione speciale.  Ma quante cose sanno lì  sull’Ucraina, più di noi!”. Le conversazioni sono durate per breve tempo. Svetlana parla molto di danza, instancabilmente, nel raccontare l’invasione scivola sopra alla morte di suo figlio: morto in guerra. “Non pensavo sarebbe voluto tornare a combattere, mi sono chiesta perché, non era più giovane. E poi è morto, vicino ad Avdiivka”. Non dice altro, non aggiunge, non serve, torna al suo argomento della salvezza: “Non potrei vivere senza lavorare”.  Svetlana è russa di nascita, parla russo, come tutti in questa scuola di danza, legge l’ucraino, lo capisce, ma non ha mai sentito la necessità di farlo diventare la sua prima lingua, come tanti altri della sua generazione, soprattutto a Odessa.  Fieramente ucraini, tenacemente russofoni.  

 

“Capisco bene l’intenzione di spingere le persone a parlare ucraino, ma io ormai sono vecchia, ho vissuto, sono arrivata fino a qui, per ora parlo russo e non c’è nessun problema. Odessa è una città così aperta, è un porto, ci siamo tutti”. Ci si entra tutti qui, sembra esserci posto per qualsiasi epoca storica, cultura, identità, bizzarria. Sarà il mare, sarà la danza, ma non sono poche le volte che Svetlana alza gli occhi al cielo e ripete: “Che fortuna”. Si riferisce al fatto che se suo padre, russo, non fosse mai stato trasferito a Odessa e magari fosse stato destinato a una città russa, lei sarebbe tutta un’altra Svetlana. Forse sempre ballerina, “mi sarei ritrovata circondata da zombie!”, esclama e ride, “zombie!”, ripete guardando la pianista che accompagna le lezioni di danza. Ancora: “Zombie!”, che risata fragorosa, sembra vederseli camminare davanti agli occhi i russi-zombie che credono all’operazione speciale, i parenti che neppure sanno che è una guerra vera e ha ucciso suo figlio. 

 

Finiscono le risate, si ricompone sulla sedia: “No, non potrei stare senza il lavoro. Anche se ormai è sempre più difficile mettere su un balletto”. L’emigrazione si è portata via i ballerini e Vladimir Putin si è preso la musica: “Mettiamo in scena moltissimo Peter Pan, con le musiche di Rossini, di Strauss, poi c’è Alice nel paese delle meraviglie. Il repertorio è diventato un po’ limitato senza alcuni autori russi, e capisco anche questo. Però – e ancora una volta ridacchia – io per il balletto ho ancora bisogno di Cajkovskij. Ridatemi Cajkovskij”. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.