Foto Epa, via Ansa

I calci di Donetsk

Gli Himars sulla parata russa e la foto della protesta filoucraina, 10 anni fa, mentre Yanukovich fuggiva

Micol Flammini

Nella regione di Donetsk i combattimenti in queste settimane sono più forti: è caduta la città di Avdiivka, Mosca cerca di avanzare approfittando della carenza di munizioni di Kyiv, il ministero della Difesa russo ha reclamato la conquista di un villaggio distrutto mentre gli ucraini hanno colpito a distanza, una sessantina di soldati russi

Odessa, dalla nostra inviata. C’è un Donetsk reale e uno immaginario, ma nella mappa mentale dell’Unione europea sono entrambi arrivati nel 2012, quando tra gli stadi predisposti a ospitare le partite degli europei di calcio spuntò uno stadio costruito da poco, la Donbas Arena, che divenne il punto di riferimento dello Shakhtar: squadra e stadio fanno capo a Rinat Akhmetov ricco imprenditore della zona, a cui sono legate anche le acciaierie Azovstal di Mariupol. Le acciaierie non sono più funzionanti, lo stadio è distrutto, lo Shakhtar non si allena più nella regione di Donetsk. Il solo nome Donetsk ormai suggerisce l’idea di una terra di depressione, industrializzazione pesante, miniere, contrabbando.

Anche per questo nel 2014 quello che accadeva per le sue strade pareva lontano, sfocato, grigio: la storia impervia di una terra di nessuno. Invece no, la regione di Donetsk è ucraina e scelse di esserlo e nel 2014 si colorò come tante altre città di bandiere non tanto europee, ma convintamente gialle e celesti. Non esisteva soltanto Kyiv con le sue proteste, tutta l’Ucraina lanciava segnali chiari, ma se la capitale, Odessa, Kharkiv o Leopoli parevano al centro del mondo, Donetsk è sempre rimasta lì come un punto comparso sulla mappa dei campionati europei per il puntiglio di un imprenditore sulfureo e ambizioso. La regione si trova nella parte sud-orientale dell’Ucraina, dove i combattimenti in queste settimane sono più forti: è caduta la città di Avdiivka, Mosca cerca di avanzare approfittando della carenza di munizioni di Kyiv, il ministero della Difesa russo ha reclamato la conquista di un villaggio distrutto mentre gli ucraini hanno colpito a distanza, con gli Himars, una sessantina di soldati russi che attendevano in campo aperto l’arrivo di un generale.

Se oggi è conosciuta per la guerra, dieci anni fa scontava anche un’altra colpa: era la patria del presidente Viktor Yanukovich, il Lukashenka meno imprevedibile e più servile dell’Ucraina. Donetsk è periferia e quando iniziarono quelle proteste colorate a sostegno di tutto ciò che stava accadendo nella nazione destarono poca attenzione. Anton Skyba è un giornalista ucraino e di quelle proteste ha fatto una foto: mostra una bandiera gialla e celeste chilometrica che si snoda sopra le teste dei manifestanti che si ritrovarono a Piazza Lenin, a Donetsk, maggiore città della regione che prende il suo nome. Di questa foto Skyba ha stampato molte copie perché vuole che la gente gli creda quando parla di quei giorni del 2014 che erano il preludio dell’inizio della guerra e che non erano grigi né smorti; per questo le regala, spiegando sempre che in strada c’erano diecimila persone e non c’erano ucraini prorussi. Poi le controproteste iniziarono e, dice Skyba, non avevano nulla di spontaneo. Iniziò la violenza e anche Anton è stato sequestrato, ammanettato e torturato: dice che chi lo ha fatto non era un filorusso, era russo.

Yanukovich scappò dall’Ucraina il 22 febbraio, accolse l’invito di Mosca e si allontanò da Kyiv, scomparve, si fece vedere in televisione mentre annunciava di voler rimanere in carica mentre era in atto un colpo di stato che definì “nazista”. Si allontanò dall’Ucraina a bordo di una macchina blindata, riuscì a far perdere le sue tracce e ricomparve una settimana dopo in Russia, a Rostov sul Don. Da quel momento vive come ospite di Mosca, con una dacia non lontana da quella di Putin, forse in attesa di un ritorno promesso in Ucraina. Le proteste di piazza Indipendenza si conclusero così, cominciarono però i piani di annessione da parte del Cremlino che partirono dalla Crimea ma si trasformarono in guerra tra le regioni di Donetsk e Luhansk. Secondo Skyba se tutti avevano chiaro il significato dell’occupazione della penisola, le due oblast orientali furono invece vittime di quel senso di foschia, di abbandono, di lontananza di una zona un po’ più dimenticata delle altre. Un posto dell’ambiguità che invece ambiguo non lo era affatto, sfilava per strada con una bandiera con i colori decisi e la foto che Skyba porta sempre con sé serve a questo: ricorda che non è vero che Donetsk si è fatta fare quel che il Cremlino voleva, non è vero che ha accolto la Russia e l’ha invitata, ha cercato di evitare che l’Ucraina venisse buttata via a calci di fucile. Pezzo per pezzo: istituzioni, giornalisti, scrittori, calciatori, imprenditori. Non c’è più nessuno per raccontare Donetsk. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.