Foto Ap, via LaPresse

Dalla nostra inviata

Tutto è iniziato in Crimea, tutto deve finire in Crimea

Micol Flammini

Sono trascorsi dieci anni dal primo grande sfregio di putin all’Ucraina, oggi Kyiv commemora la giornata più sanguinosa delle proteste, quando nel Mar Nero comparivano gli emissari del Cremlino per l’occupazione della penisola

Kyiv, dalla nostra inviata. Prima o poi gli ucraini inventeranno un codice interno per contare il tempo che passa, una linea temporale nazionale che magari diventerà anche un monumento e i cittadini guardandolo si chiederanno l’un l’altro: dove eri il 24 febbraio? E il 6 marzo? E il 23 novembre? E il 20 febbraio? E non sarà neppure necessario dire di che anno, ognuna di questa date ha scandito un prima e un dopo. Oggi, di dieci anni fa, a Kyiv si consumava la più caparbia tra le mattanze a piazza Indipendenza, al Maidan la Piazza delle piazze,  una piazza mentale, in cui tutti sono stati o almeno passati. Morirono cento persone, tra manifestanti e polizia, dopo quel 20 febbraio del 2014  l’Ucraina non sarebbe più stata la stessa. Non soltanto Kyiv, con il suo sangue di piazza, ma tutta la nazione. Lo stesso giorno, la Russia iniziò a mettere in pratica il suo piano per spogliare l’Ucraina e iniziò dalla penisola agognata, dalla Crimea che l’amante di Caterina II aveva ribattezzato la verruca sul naso della Russia: soldati senza insegne, che per non dire che erano russi si preferì chiamare “omini verdi”, entrarono nel territorio della Crimea e tutto cambiò. L’ultima volta che Alim Aliyev è stato nella penisola, dove ha trascorso la maggior parte della sua vita, era il gennaio del 2014.

 

Era andato per due festeggiamenti: il matrimonio di suo fratello e la nuova casa dei suoi genitori. Poi non l’ha più vista, oggi  telefona, si fa raccontare come è la situazione, ma il suo mondo si è ristretto:  ha la Crimea nel sangue ed è convinto che come tutto è iniziato   in Crimea  deve finire in Crimea. Aliyev è un giornalista, è tataro, quindi è parte di quella popolazione che ha subìto le deportazioni di Mosca dai tempi di Stalin, aveva trovato pace negli anni Ottanta, e si è ritrovata sotto il regime di Putin. Dal 2014 hanno lasciato la penisola circa 70 mila persone, più della metà erano tatari: “L’ultima grande ondata di emigrazione c’è stata nel settembre del 2022, quando l’esercito russo ha cercato di mandare in guerra i cittadini della Crimea, soprattutto i tatari: è un crimine di guerra”, precisa Aliyev, che nel 2014 si divideva tra la sua casa, Leopoli e Kyiv, dove spesso andava  anche lui nella Piazza delle piazze. “La rivoluzione della dignità non aveva neppure a che fare l’integrazione europea, prima di tutto era una questione di giustizia contro un regime e contro la sua cultura. Il giorno dopo il più grande attacco contro gli studenti, avevo capito chiaramente per cosa combattevamo: perché se fossimo stati fermi le cose sarebbero soltanto peggiorate”.

 

Quella piazza era composita e lo è ancora oggi, quando  non trascorre giorno senza un coro, un picchetto, una manifestazione, una commemorazione: “C’erano tutti, la sinistra, la destra, il centro, eravamo tutti lì per costruire un paese democratico che avesse come centro il rispetto dei diritti umani”. Se Kyiv è riuscita a diventare il laboratorio della democrazia ucraina, la Crimea è rimasta incastrata, bloccata, Putin l’ha presa, le ha messo addosso un ponte per collegarla direttamente con il territorio russo. Quel ponte è uno sfregio, sono delle manette e la Crimea che era il luogo di vacanza per elezione degli ucraini e anche dei russi, oggi è il posto  dell’oltraggio e dell’inganno. “Quando è iniziata l’occupazione avevo venticinque anni, faccio dei calcoli rapidi e mi appare subito chiaro che ho dedicato parte della mia vita a lottare per la Crimea. Il mio obiettivo personale è tornare a casa, poi però c’è l’obiettivo più grande: se non libereremo la penisola non saremo mai liberi dalla minaccia. Se l’Ucraina o la comunità internazionale accetteranno che Putin tenga la Crimea, sarà un segnale. Per il Cremlino vorrà dire che può ancora fare quello che vuole, che la violenza funziona e le leggi internazionali non hanno nessun effetto”. Fu quello l’errore di dieci anni fa: rimanere fermi fu uno sbaglio e il presidente russo lo interpretò come la garanzia di avere un mondo a disposizione, da montare e smontare, da torturare e a cui mentire. 

 

Alla linea temporale nazionale, quella che forse sarà il prossimo monumento nel puzzle della Piazza delle piazze, si aggiunge però la linea temporale di ogni ucraino. Questi dieci anni hanno sovrapposto la tragedia pubblica a quella privata, ognuno ricorda un giorno, un momento, un dettaglio: “Io – dice Alim – ricordo chiaramente il 26 febbraio, c’erano delle grandi manifestazioni davanti al Parlamento della Crimea. Da una parte c’erano i tatari e gli ucraini, dall’altra quelli che si dicevano pro russi, ed erano una minoranza. Quelle manifestazioni bloccarono alcune leggi a sostegno dei piani russi, la sentimmo come una vittoria, ma qualche ora dopo iniziò il processo di annessione, arrivarono gli omini verdi, occuparono i palazzi delle istituzioni”, nel frattempo, in tutta la penisola manifestanti a favore di Mosca davano inizio a manifestazioni che inneggiavano al Cremlino,  sembrava che dicessero: occupateci, occupateci, occupateci. Non serviva far trascorrere dieci anni per capire che guardavamo una scenografia scritta altrove, scritta senza troppa cura, sciatta, nella convinzione di Mosca che tanto si sarebbe potuta permettere qualsiasi affronto e sarebbe rimasta impunita. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.