L'ironia sprezzante di Navalny per denunciare il regime

Micol Flammini

Non serve parlare di valori per far cadere Putin, la corruzione funziona di più e fa arrabbiare i russi

Kyiv, dalla nostra inviata. Alexei Navalny è morto in una prigione russa, nella colonia penale numero 3 del circondario di Jamalo Nenec: stava passeggiando, si è accasciato, è morto. Sono state le autorità carcerarie russe ad annunciarlo in un comunicato diffuso ieri mattina e inviato anche al Cremlino. Navalny era in prigione dal 2021, era diventato il più famoso degli oppositori di Vladimir Putin, aveva costruito una squadra che girava attorno al suo nome, alla sua figura: i navalniani, che dopo il suo arresto sono sempre sembrati persi e spuntati. Sarebbe potuto finire lì il cammino del più famoso tra gli ultimi oppositori del Cremlino, troppo lontano dalla vita quotidiana dei russi per poter contare o disturbare il piano del putinismo di diventare eterno. Invece no, dopo il suo avvelenamento, le cure in Germania e il ritorno in Russia, Navalny aveva subìto una condanna dopo l’altra, con l’intenzione di non permettergli mai di uscire dal carcere, con l’intenzione di cancellarlo dalla storia della politica russa. Navalny ha sempre parlato molto, sempre ad alta voce, ha creato un’immagine modaiola e brandizzata dell’opposizione capace di disturbare anche soltanto a livello estetico la staticità bellicosa del regime russo. Lui, sua moglie Yulia, i suoi figli Daria e Zakhar, sono una famiglia da copertina, sempre disposta a posare per riviste di moda senza sembrare lontani da modelli o attori. Tutto il contrario di Putin, dalla sua faccia immobilizzata in una noia minacciosa, avvolto da un’atmosfera di ritorno al passato, di stasi impenetrabile come le porte pesanti del Cremlino. Navalny aveva capito l’importanza del marchio, con la sua fondazione anticorruzione aveva deciso di iniziare un cammino politico ibrido, incrociandolo con il giornalismo di inchiesta con lo scopo di far vedere ai russi che non c’era nulla di diverso tra il Cremlino di Putin e il caos degli anni Novanta, che la corruzione era rimasta la chiave per aprire le porte della politica. 

 


E anzi, Putin aveva portato il suo rapporto con la corruzione alle massime conseguenze ed era riuscito a creare una classe di suoi accoliti ben più rischiosa, ben più fedele degli oligarchi: i funzionari di stato, i burocrati delle agenzie russe, arricchiti con i soldi dello stato in cambio della fedeltà al capo. Tra Navalny e Putin la lotta non era tra sistemi, tra idee, era tra due figure, e il primo aveva capito come distruggere l’immagine del secondo. Il secondo, non sapendo come danneggiare l’immagine al primo, ha puntato a rinchiuderlo. Putin, l’uomo senza storia che Masha Gessen ha definito senza volto, voleva far credere ai russi che lui la Russia l’aveva sposata, che la sua vita erano il Cremlino e la grandezza della nazione, che si era allontanato dalle donne, dal cibo – sono pochissime le foto che mostrano Putin mangiare – che era diventato un asceta di uno stile di vita profondo russo localizzato in un’èra mai esistita tra lo zarismo e lo stalinismo. Navalny invece con le sue inchieste aveva mostrato le ville, le piscine in discoteca, gli ettari pubblici trasformati in parchi privati, i water dorati, le docce faraoniche, tutto il contrario di un uomo frugale. Aveva anche scalfito l’immagine di Putin da leader granitico domatore di orsi e lo aveva chiamato “il nonno nel bunker” quando durante la pandemia non usciva dai suoi rifugi e sottoponeva chiunque volesse avvicinarglisi a isolamenti sanitari. Putin era il nonno, vecchio, gonfio. Navalny era il brand, la paperella gialla che spuntava nelle proteste che hanno animato le ultime proposte, il merchandising con le magliette e le spille. Navalny non era l’unico oppositore né quello che era riuscito a mobilitare di più i russi, era però l’ultimo degli sprezzanti, che aveva inventato un telegiornale satirico che andava in onda su YouTube in cui scimmiottando i giornalisti della propaganda forniva una versione alternativa dei fatti: rideva e dava fastidio, usava l’ironia e dava sui nervi a Putin, proprio come i soldati ucraini che motteggiano l’esercito di Mosca e i suoi fallimenti. Lo stesso umorismo, le stesse risate, gli stessi graffi. 

 

Non è l’unico che è tornato in Russia a sfidare il regime nonostante la certezza di un arresto, non è l’unico a finire in una colonia penale. Nel migliore dei mondi possibili avremmo preferito Vladimir Kara Murza ad Alexei Navalny come capo del Cremlino. Anche Kara Murza è in un penitenziario, anche lui viene fatto sparire e tenuto in isolamento, ha un’idea di Russia che sa di coraggio e sa di futuro, ma era Navalny quello che aveva capito su cosa concentrare l’attenzione dei russi, li conosceva benissimo. Non era di valori, di democrazia, di stato di diritto che bisognava parlare a un popolo indottrinato e che aveva sopportato e trangugiato già troppe dosi di propaganda e di putinismo. Bisognava farli arrabbiare i russi, mostrargli il trucco e lo sfregio, usare la parola magica che ovunque fa indignare ma nei paesi usciti dagli anni post sovietici sa di tradimento, fa infuriare: corruzione. Funzionava dire e mostrare che una manica di privilegiati si era impossessata delle ricchezze del paese. Riportava agli anni Novanta, all’idea di caos, proprio a quel momento della storia da cui Putin diceva di voler proteggere i russi. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.