Una manifestazione in piazza Maidan, Kyiv, per l’anniversario della rivoluzione ucraina (Lapresse/Marco Alpozzi) 

Ritrovare il futuro al Maidan

Marci Shore

Nella piazza di Kyiv dieci anni fa è diventata grande una generazione di ucraini il cui desiderio più grande è l’Europa. Tra le tende della rivoluzione e la guerra iniziata allora che non è mai finita

Il presente è sfuggente nella sua puntualità. Non ha una durata. Per Jean-Paul Sartre, il presente doveva essere inteso come un confine, il confine tra il regno della fatticità – ciò che è già accaduto e semplicemente è – e il regno della trascendenza, un’apertura per andare oltre ciò che è stato. La rivoluzione illumina questo confine: è il momento della scelta.


Nel 2004 il team del candidato alla presidenza dell’Ucraina Viktor Yanukovych, un oligarca alleato del Cremlino, organizzò dei brogli elettorali e avvelenò l’avversario di Yanukovych, Viktor Yushchenko, con la diossina. Le grandi proteste sulla piazza centrale di Kyiv, il Maidan, costrinsero a organizzare una seconda elezione: questa volta Yushchenko vinse in modo decisivo. A Kyiv l’umore era festoso. Sembrava che Yanukovych non potesse mai tornare. Tuttavia, Yushchenko si rivelò una profonda delusione. E Yanukovych si appoggiò alle agenzie di consulenza americana per i gangster che hanno ambizioni presidenziali. Istruito dal suo consulente di Washington, Yanukovych riemerse nel 2010 per vincere le elezioni presidenziali, questa volta legittimamente.


In seguito, Yanukovych diede al suo consulente di Washington – il cui nome era Paul Manafort – un regalo per ringraziarlo: un vasetto di caviale nero del valore di oltre trentamila dollari.


Il premio di consolazione che Yanukovych agitava davanti a un’intellighenzia liberale che lo detestava era una prospettiva lontana di integrazione con l’Unione europea. Per i giovani in particolare, “l’Europa” era l’oggetto del più grande desiderio. A novembre del 2013 l’Ucraina avrebbe dovuto firmare un tanto atteso accordo di associazione con l’Unione europea. All’ultimo momento, il 21 novembre 2013, Yanukovych si rifiutò di firmarlo.


La delusione fu particolarmente devastante per gli studenti, che sentivano come se il loro futuro fosse svanito: l’Europa per loro era chiusa. Quella sera, un giornalista ucraino trentaduenne di nome Mustafa Nayyem scrisse in russo sulla sua pagina Facebook: “Forza, prendiamoci sul serio. Chi è pronto ad andare al Maidan entro mezzanotte stanotte? I ‘mi piace’ non contano”. 


Quella notte gli ucraini – principalmente studenti – si riversarono nel Maidan, e ci rimasero. Si presero per mano e gridarono: “L’Ucraina è Europa!”. Alle 4 del mattino del 30 novembre 2013, Yanukovych inviò la sua polizia anti sommossa al Maidan per picchiare gli studenti. La violenza contro i manifestanti pacifici fu uno shock. Sembrò che Yanukovych, contasse su questo shock per convincere i genitori a far uscire i loro figli dalla piazza. Fu allora che accadde qualcosa di notevole: invece di chiedere ai figli di tornare a casa, i genitori si unirono a loro. Fu un superamento storico della ribellione edipica. A quel punto c’era quasi un milione di persone per le strade di Kyiv, e gridavano: “Non vi permetteremo di picchiare i nostri figli!”.


Uno di quei ragazzi picchiati era Roman Ratushnyy, che aveva sedici anni. “Tua madre doveva essere molto preoccupata”, gli dissi. “Ma ti ha lasciato tornare?”.  “Mia madre”, mi rispose lui, “stava preparando cocktail Molotov in via Hrushevskogo”.


Il Maidan divenne non solo un luogo di protesta, ma anche una polis parallela. C’erano le cucine che funzionavano sempre. I musicisti si esibivano, gli artisti dipingevano, i medici curavano i feriti. C’era una biblioteca, una Università aperta, un pianoforte comune. I manifestanti montavano le tende, accendevano i fuochi e cucinavano zuppe in calderoni di ferro. I volontari spazzavano via la neve e il ghiaccio. Un’organizzazione Lgbt trasformò la sua linea diretta in una linea di emergenza per il Maidan.


I confini che normalmente esistevano tra le persone si dissolsero, diventò molto facile parlare con gli estranei. “C’erano persone molto diverse”, mi disse uno studente di nome Misha, “ucraini, russi, ebrei, polacchi, tatari, armeni con azeri, georgiani, ucrainofoni, russofoni”.  C’era la sensazione che non solo le divisioni etniche, ma anche le divisioni socioeconomiche fossero state superate. Il Maidan era un “laboratorio del contratto sociale”, come lo descrisse uno scrittore, “l’unione di esperti informatici venuti da Dnipropetrovsk con un pastore Hutsul, un matematico di Odessa, un imprenditore di Kyiv, un traduttore da Leopoli e un contadino tataro della Crimea”.


Lo storico Yaroslav Hrytsak descrisse il Maidan come un’arca di Noè – prese “due di ogni specie”. C’erano persone di tutti gli orientamenti politici, dalla sinistra radicale alla destra radicale. Per il regista Oleksiy Radynski, l’inquietudine dell'Europa nel guardare l’Ucraina assomigliava alla smorfia di Calibano nel vedere il riflesso del proprio volto nello specchio.


Il 16 gennaio il governo di Yanukovych approvò le “leggi della dittatura”, revocando i diritti di libertà di parola e di riunione. Tutti al Maidan furono dichiarati criminali. La polizia anti sommossa di Yanukovych usò gas lacrimogeni, pallottole di gomma, granate stordenti e cannoni ad acqua a temperature sottozero. I manifestanti iniziarono a scomparire. Il corpo di un attivista fu trovato mutilato e ibernato nei boschi. Coloro che tornavano erano spesso sfigurati, con qualcosa che mancava, per esempio una parte dell’orecchio.


Hannah Arendt ha descritto il “carattere di sorprendente inatteso... intrinseco a tutti i nuovi inizi”. Quando gli ucraini andarono al Maidan il 21 novembre, nessuno si aspettava di morire lì. Ma alla fine di gennaio, dopo che i primi manifestanti erano stati uccisi a colpi di arma da fuoco dalla polizia, si avvertì una trasformazione esistenziale. La qualità della temporalità stessa cambiò: la gente perse il senso del tempo, del giorno e della notte. A Kyiv nessuno dormiva più. Il Maidan viveva in quello che Walter Benjamin chiamava il Jetztzeit, l’adesso. Una moltitudine di persone aveva preso una decisione: erano disposte a morire lì, se necessario. Questo fu il momento, come credeva il curatore d’arte Vasyl Cherepanyn, in cui nacque la società ucraina come esiste oggi.


Nel febbraio del 2014 la protesta del Maidan culminò in un massacro da parte dei cecchini che lasciò cento manifestanti morti. Yanukovych fuggì in Russia. Il Cremlino annesse illegalmente la Crimea e inviò “turisti russi” oltre il confine per istigare una guerra nell’Ucraina orientale, dove un gruppo variegato di separatisti sostenuti dal Cremlino sosteneva di proteggere i russofoni dai nazisti ucraini portati al potere dal colpo di stato fascista orchestrato dagli americani nella capitale. Quella guerra non è finita.


Durante l’inverno del 2013-2014 i giornalisti russi chiedevano continuamente a coloro che erano al Maidan chi li avesse organizzati, che aiuto avevano ricevuto dagli americani. “Semplicemente non riuscivano a capire”, disse una giovane donna, “che ci siamo organizzati da soli”. La propaganda del Cremlino, la convinzione che l’intelligence americana o qualche altra forza mondiale avesse la regia tradiva non soltanto le intenzioni malevole, ma anche l’incapacità di credere che potessero esserci individui che pensano e agiscono per conto proprio.


Otto anni dopo, nella primavera del 2022, i soldati russi che occupavano Kherson non potevano credere che le persone del luogo che erano scese in piazza a protestare non fossero controllate da “qualche mastermind là fuori”. “Non erano in grado di considerare la possibilità”, disse ai giornalisti una donna di Kherson, “che le persone che si preoccupano della libertà, della democrazia e dell’autodeterminazione si stessero auto organizzando”. 


Roman Ratushnyy apparteneva alla generazione che era diventata grande al Maidan, con la sua eredità: considerarsi soggetti, non oggetti della storia. Diventò un attivista per le questioni ambientali e contro la corruzione. Quando la Russia ha lanciato l’invasione su vasta scala, si è unito all’esercito. Nel giugno del 2022 Roman è stato ucciso al fronte.


Oggi gli ucraini non parlano di “dopo la guerra”, parlano di “dopo la vittoria” – pislya peremohy. “Peremoha”  – ha detto il regista teatrale polacco Krzysztof Czyzewski – dovrebbe diventare parte di un nuovo vocabolario universale. Il prefisso pere indica un attraversamento e moha significa “io posso”. “Peremoha”, vittoria, esprime letteralmente un andare oltre ciò che si è in grado di fare.


Quando i colleghi della scrittrice ucraina Kateryna Mishchenko parlavano della guerra, parlavano di imperialismo russo, di stalinismo e colonizzazione. “Per me – ha scritto Kateryna – questa guerra ha un punto di riferimento abbastanza chiaro: il Maidan. Forse vale la pena tornare in questo luogo per trovare il futuro”.
Per Sartre, vivere nella mauvaise foi significava proiettare la fatticità nel futuro e quindi negare la possibilità – e la responsabilità – di andare oltre ciò che è. La lezione del Maidan è che possiamo andare oltre ciò che siamo stati fino ad ora. Possiamo – anche se quella luce che illumina il confine che è il presente brilla solo in rari momenti, vacilla, e poi sembra svanire.



Marci Shore è professoressa di Storia dell’Europa orientale all’Università di Yale. Nel 2018 ha pubblicato “The Ukrainian Night: An Intimate History of Revolution”.
Questo testo è stato pubblicato nel fine settimana sul quotidiano tedesco Die Tageszeitung. 

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