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Il ritratto

I cantieri di Delors che hanno fatto l'Europa, e i suoi “no”

Paola Peduzzi

La nostra indispensabile famiglia europea non esisterebbe senza il suo infaticabile padre costruttore

È morto a 98 anni Jacques Delors, “infaticabile artigiano dell’Europa”, come lo ha definito Emmanuel Macron, senza il quale la nostra indispensabile famiglia europea senza frontiere, con un mercato unico e con una moneta unica non esisterebbe. A capo della Commissione europea per dieci anni, dal 1985 al 1995, Delors è il padre costruttore di un progetto unico al mondo, due testi marcano quella che è conosciuta come l’età d’oro dell’Unione europea che ancora non si chiamava così: l’Atto unico firmato nel 1986, che aprì la strada al mercato unico, e il trattato di Maastricht del 1996, che creò l’unione monetaria.

L’integrazione europea che oggi gli egoismi sovranisti, miopi, vogliono smantellare a loro stesso svantaggio nacque grazie a Delors, che sapeva trattare con i leader degli stati membri difendendo la visione comunitaria come promessa di un futuro di pace e benessere, senza farsi fagocitare dagli interessi nazionali, ma anzi proiettando la comunità europea oltre i suoi limiti geografici e ideologici. Quando cadde il Muro di Berlino e gli equilibri europei furono scossi come mai prima di allora nel loro cuore franco-tedesco, Delors appoggiò senza paura e senza calcoli la riunificazione della Germania, strappò il consenso a François Mitterrand e convinse Helmut Kohl a fare quel passo inimmaginabile che fu l’abbandono del marco (che avvenne nel 1999). Funzionava così per Delors, una decisione storica dietro l’altra, un circolo virtuoso ispirato dall’apertura e dalla possibilità per gli europei di esistere e competere a livello globale. 


Delors diceva: “Non essere pessimista, non essere ottimista, sii un attivista”, ed è quello che ha cercato di essere, attivo, operoso, meticoloso, pieno di vita e di interessi – la musica, il basket, la sartoria, i sindacati, la sinistra, la religione, la moglie Marie – e anche di tormenti, il più grande è quello di aver detto di no alla candidatura all’Eliseo, in quell’intervista famosissima ad Anne Sinclair (allora star di TF1 che tre anni più tardi avrebbe sposato Dominique Strauss-Kahn), un’ora di conversazione sulla Francia e sul futuro terminata con: “Ho deciso di non candidarmi alla presidenza della Repubblica”. Anni dopo avrebbe detto che sì, ha avuto molti rimpianti, forse avrebbe dovuto dire di sì, ma il suo biografo Gabriel Melesi ha spiegato in “Jacques Delors: l’homme qui dit non” le origini di quei rifiuti  – non aveva voluto nemmeno diventare primo ministro – che hanno a che a fare con la modestia, il suo pensarsi sempre come un “vecchio cretino”, la timidezza, la mancanza, come avrebbe detto lui stesso, “di una qualità capitale per un uomo politico: credere in me stesso”.

Di fronte alla tracotanza di molti altri leader di allora e di oggi che si credono capaci di tutto, il carattere di Delors, illuminato dallo sguardo azzurro, resta l’ispirazione più grande, perché la sua non era una modestia vittimista, ma il frutto di un senso di responsabilità nobile, fatto di scelte che devono avere un destino finale, una ricomposizione finale, e non restare come appigli opportunistici a qualche potere. E’ questo pragmatismo visionario che ha fatto sì che il socialista Delors, all’inizio degli anni Ottanta, quando il franco sprofondava, decidesse che “è arrivato il momento dell’austerità”, sconvolgendo tutto il suo governo, iniziando a litigare e a discutere con il fervore di chi sente l’urgenza e la necessità del cambiamento, perché la modestia non è mancanza di passione, e nemmeno di ambizione. Erano gli anni del suo dolore più grande, la morte di suo figlio, ucciso da una leucemia a 29 anni, gli anni dei  rifiuti, delle  indecisioni che lo avrebbero portato in Europa con la volontà di creare un mondo nuovo: tutti i cantieri aperti da Delors, dal mercato unico, all’euro, alla libera circolazione delle merci  e delle persone all’Erasmus, sono diventati i pilastri dell’integrazione europea, “la competizione che stimola, la cooperazione che rinforza e la solidarietà che unisce”, l’essenza di quel che ci fa europeisti. 
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi