I problemi dell'unione e quelli del divorzio, 22 anni della Cina nel Wto
L’11 dicembre 2001, notizia oscurata dalla tragedia delle Torri gemelle, Pechino entrava nell'Organizzazione mondiale del commercio. Se consideriamo gli stravolgimenti economici, politici e sociali che hanno innervato i due decenni trascorsi da allora, forse è quella la vera data iconica che segna l’inizio del nuovo secolo
Chimerica. Con questo termine lo storico dell’economia Niall Ferguson fotografava nel 2006 la relazione simbiotica tra Stati Uniti e Cina. Il neologismo evocava una specie di moderno ircocervo economico per metà debitore e per metà creditore, due economie separate dall’Oceano Pacifico e unite da reciproci vantaggi.
Gli americani riempivano le case di oggetti prodotti in Cina, pagavano con dollari che i cinesi usavano per comprare i titoli del debito americano, la Federal reserve poteva mantenere bassi i tassi e facilitare il credito con cui i consumatori americani continuavano a comprare oggetti fabbricati in Cina, pagando in dollari… una scala di Escher che non poteva durare e infatti non è durata. Nessuno parla più di simbiosi e tantomeno di Chimerica, le relazioni commerciali che hanno fatto prosperare le due metà dell’ircocervo si sono trasformate in un aspro confronto muscolare. L’embrione di Chimerica venne impiantato 22 anni fa, l’11 dicembre 2001, quando la Cina venne accolta a pieno titolo nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. La notizia non ebbe la risonanza che avrebbe meritato, in quei giorni al centro dell’attenzione c’erano le eco della tragedia di poche settimane prima, l’11 settembre aveva appena aperto un nuovo terribile capitolo della storia. Ma se consideriamo gli stravolgimenti economici, politici e sociali che hanno innervato i due decenni trascorsi da quell’11 dicembre, forse è quella la vera data iconica che segna l’inizio del nuovo secolo.
L’ingresso di Pechino nel Wto concludeva la lunga marcia iniziata da Deng Xiao Ping nel 1978 e, nello stesso tempo, costituiva il primo passo di una nuova storia che avrebbe sconvolto il mondo. Per accedere al commercio internazionale Pechino dovette aprire il paese alle società straniere, eliminare oltre 7mila tariffe, quote contingentate alle importazioni e altre barriere, ma il pay-off è stato estremamente generoso: l’ammontare degli investimenti diretti nel paese raddoppiò, le esportazioni esplosero. Walmart, il gigante americano della distribuzione a basso costo, nella prima fase dopo l’accordo importava dalla Cina merce per quindici miliardi di dollari, dieci anni dopo quel valore era passato a poco meno di cinquanta miliardi di dollari.
Non solo economia, l’ingresso della Cina nel Wto fu anche una convinta scommessa politica. “Se credete in un futuro di più grande apertura e libertà per il popolo della Cina… se credete in un futuro di più grande prosperità per il popolo americano, voi dovrete certamente essere a favore di questo accordo” diceva Bill Clinton per convincere il Congresso a sostenerlo. Il convincimento diffuso era che maggiori libertà economiche avrebbero portato a maggiori libertà civili e aun lento approdo a forme di governo democratiche. La fine della storia di Fukuyama era ancora una prospettiva, il compimento ultimo del progresso sociale sarebbe stato l’ordinamento democratico e un sistema economico di libero mercato diffusi. Quella scommessa è stata persa: la presenza del governo cinese nella vita dei cittadini e delle aziende si è fatta molto più pervasiva, il ciclopico outlet manifatturiero del mondo è diventato un formidabile avversario strategico, l’enorme surplus commerciale ha dotato la Cina di un potere economico che è stato trasformato in strumento politico. Pechino si oppone all’ordine mondiale americano e si candida alla leadership dei paesi del sud del mondo, le diadi democrazia-oligarchia, mercato-dirigismo, stato-individuo rischiano di diventare le nuove faglie che divideranno pericolosamente il pianeta.
In questo ampio disegno globale si iscrive l’uscita dell’Italia dagli accordi della Via della Seta, l’iniziativa di Pechino nata con lo scopo di estendere l’influenza economica e soprattutto politica della Cina con imponenti investimenti in infrastrutture. Con la nota consegnata al governo cinese nei giorni scorsi l’Italia si affranca da un’iniziativa marcatamente politica cercando di mantenere, naturalmente, le buone relazioni commerciali.
È lo stesso atteggiamento degli altri paesi occidentali, Stati Uniti in testa. Nell’incontro a San Francisco Joe Biden e Xi Jinping hanno fatto buon viso a cattivo gioco, le ragioni di dissenso e di contrasto restano ma la diplomazia muscolare è stata smussata, sono state tenute in considerazione le ragioni degli interessi di entrambi i paesi. Per le società americane la Cina rappresenta un mercato dalle potenzialità enormi, la deglobalizzazione è più facile a dirsi che a farsi, è complicato trovare altrove le competenze acquisite in quarant’anni di manifattura, tantomeno replicare le economie di scala degli impianti cinesi. Dal canto suo, Xi Jinping ha l’ambizione di riportare il paese allo status imperiale che ebbe tra il XVI e l’inizio del XIX secolo, un disegno per il quale lo sviluppo economico è indispensabile. Il sentiero di espansione però si è interrotto, nel 2022 la quota della Cina nell’economia mondiale si è leggermente ridotta e quest’anno si ridurrà ancora di più, scendendo al 17 per cento. Nei colloqui con Biden il presidente cinese ha dato prova di pragmatismo e moderazione, ha visto l’enorme fuoriuscita di capitali esteri dal paese, vede come le prospettive di crescita siano più favorevoli ad altri paesi emergenti, India, Indonesia, Brasile, Messico, sa che la Cina ha ancora bisogno degli Stati Uniti e dei partner commerciali occidentali per alimentare le sue ambizioni.
La dissoluzione di Chimerica forse non è ancora alle viste, le due maggiori economie del mondo sono destinate a rimanere reciprocamente dipendenti: il disaccoppiamento economico appartiene alla retorica politica, ma non è una strada percorribile e neppure desiderabile.
Carlo Benetti è Market Specialist GAM Italia
I conservatori inglesi