Negli Stati Uniti

I video del 6 gennaio e la “museruola” di Trump, candidato-imputato

Paola Peduzzi

Nei prossimi mesi il Congresso americano pubblicherà 44 mila ore di clip dell'assalto al Campidoglio, grazie al mandato trumpiano del nuovo speaker. L'ex presidente non ne aveva bisogno, perché il negazionismo di quel giorno è già al centro della sua campagna elettorale

Mike Johnson, speaker conservatore del Congresso americano, ha annunciato che nei prossimi mesi saranno pubblicati i video dell’assalto al Congresso stesso, il 6 gennaio del 2021: sono 44 mila ore di video, soltanto un restante 5 per cento non sarà mai reso pubblico per ragioni di sicurezza, per ora sono disponibili circa 70 ore. 

Johnson ha mantenuto una promessa che aveva fatto in passato – e per questo l’ex presidente Donald Trump lo ha grandemente elogiato e ringraziato – e soprattutto ha dato seguito alle richieste di molti trumpiani che già durante la campagna elettorale delle elezioni di metà mandato di un anno fa chiedevano di mostrare quei video che avrebbero dimostrato che il 6 gennaio, al Campidoglio, non c’è stata alcuna insurrezione. Secondo i trumpiani, l’ormai defunta commissione congressuale sul 6 gennaio aveva strumentalizzato l’assalto per guadagnare punti elettorali – e l’operazione era anche riuscita visto che alle elezioni di metà mandato del 2022 i trumpiani hanno sostanzialmente perso. Ma c’era allora, tra alcuni, anche un istinto a guardare avanti invece che indietro, probabilmente motivato dal fatto che in effetti, il 6 gennaio, qualcosa di estremamente pericoloso al Congresso era davvero successo.

 

Ora la strategia è di nuovo cambiata e Johnson ubbidisce al suo mandato trumpiano dando la possibilità di aprire un’indagine sugli ex indagatori. Il senatore dello Utah Mike Lee, la deputata della Georgia Marjorie Taylor Green e il deputato del Texas Troy Nehls, tutti repubblicani, hanno chiesto di aprire un’inchiesta sulla commissione che non esiste più mostrando le prove del complotto ordito dai democratici: le immagini degli assalitori che passeggiano come turisti dentro al Congresso. Lee e Green, come sempre, hanno fatto un passo ulteriore promuovendo una teoria del complotto che sostiene che uno degli assalitori del 6 gennaio fosse un agente federale sotto copertura che mostra in un video il suo badge – in realtà questo signore è Kevin Lyons, che ha rubato una foto nell’ufficio dell’ex speaker democratica Nancy Pelosi e che è già stato condannato. Liz Cheney, che è repubblicana anche lei ma non è trumpiana e infatti ha pagato l’assenza di lealtà in termini di carriera dentro al partito al Congresso, era vicepresidente della commissione sul 6 gennaio e ha pubblicato una compilation di immagini in cui si vedono i “pacifici” turisti senza permesso che assaltano la polizia del Congresso. Quel giorno furono assaliti circa 140 tra agenti e guardie, in seguito ne sono morti sei. Al momento circa milleduecento imputati sparsi in tutta l’America sono stati condannati per aver partecipato all’attacco del 6 gennaio, secondo i dati del dipartimento della Giustizia. 

 

Donald Trump non aveva bisogno dell’aiuto di Johnson né delle immagini pubbliche: il negazionismo del 6 gennaio è già al centro della sua campagna elettorale – nei suoi discorsi, gli imputati sono diventati “gli ostaggi” del deep state governato da Joe Biden – che avendo rubato le elezioni del 2020 è un impostore. Il ruolo di Trump il 6 gennaio del 2021 è anche al centro di uno dei suoi tanti processi e il conflitto tra la candidatura dell’ex presidente e il suo status di imputato è già in pieno corso. Un esempio: lunedì gli avvocati di Trump hanno sostenuto davanti alla giudice Tanya Chutkan,  che presiede il processo in cui l’ex presidente è accusato di aver sovvertito il risultato elettorale del 2020, che le ordinanze restrittive imposte al loro cliente non sono legali. “La Corte suprema non ha mai permesso allo stato di impedire ai candidati di comunicare informazioni rilevanti durante un’elezione. Nessuna corte ha mai imposto ordinanze restrittive ai discorsi politici di un candidato a pubblici uffici, men che meno a un candidato rilevante per la presidenza degli Stati Uniti, fino a ora”. Il senso è: Trump si candida alla presidenza, quindi non può subire ordinanze restrittive. La giudice Chutkan ha sottolineato che si tratta di un imputato in un processo penale: “E’ accusato di quattro reati, è sotto la supervisione del sistema giuridico penale, non ha il diritto di dire e fare esattamente quello che vuole. Nessun altro imputato potrebbe farlo e quindi non lo permetterò in questo processo”. Il senso è: nessuno ti ha obbligato a candidarti, quindi le ordinanze restrittive si applicano a te come a ogni altro imputato.  Sembra una questione tecnica, scrive Politico, ma non lo è: Trump ha avuto finora grandi riscontri nel fare appello ai suoi elettori, sostenendo di essere una vittima del deep state dei democratici. Ora utilizza il suo essere candidato per difendersi in tribunale: non potete mettermi la museruola, sto correndo per la presidenza.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi