La famiglia Aloni Cunio 

I sette giorni di Moran

Nel giudaismo il tempo del dolore ha un limite, ma questa volta è diverso. I bambini in ostaggio

Cecilia Sala 

Le nonne dei bambini rapiti tra cotolette, camion giocattolo e una bozza di accordo con Hamas 

“Nel giudaismo esiste una tradizione: quando piangi, le persone si stringono attorno a te per sette giorni e poi basta. Perché hai bisogno di affetto, ma hai anche bisogno di conoscere il momento in cui devi scrollarti le lacrime e rialzarti subito in piedi”. Moran Aloni è la zia di tre bambini israeliani che Hamas nasconde dentro la Striscia di Gaza. Emilia, che ha cinque anni, e poi Yuly ed Emma, due gemelle di tre anni. “Coltivare l’ottimismo e fermare le lacrime consuma tantissime energie, e dopo due mesi e mezzo ogni cosa è più estenuante. Però finché crediamo siano vivi, la forza che questa idea ci dà la incanaliamo per tenerci in piedi, perché loro avranno bisogno di trovare una famiglia capace di sorridere appena torneranno”. La famiglia Aloni Cunio era arrivata in Israele dall’Argentina e aveva costruito la propria nuova vita a partire da un kibbutz. 

   

   

“I bambini non hanno mai voluto sentir parlare di bambole e unicorni per il loro compleanno, chiedevano sempre i camion giocattolo e questa credo sia la cosa più tipica della vita nel kibbutz che si possa immaginare: un oggetto che incarna lo spirito pratico con cui siamo stati cresciuti tutti”. Il sette ottobre la famiglia Aloni Cunio era riunita nel sud, i genitori di Emilia da Yavne, vicino a Tel Aviv, erano andati con la figlia a casa di Sharon e David, i genitori delle gemele, nel kibbutz di Nir Oz per passare insieme Shabbat. Oggi sono tutti a Gaza nella mani di Hamas. 

     

Moran non vuole parlare di contrattazioni e discussioni diplomatiche in corso, teme che troppe voci che si sovrappongono sulle decisioni da prendere, sui dilemmi che Israele deve sciogliere, non siano utili all’obiettivo. “Per curare il dolore facciamo altre cose: lavoriamo soprattutto, e poi andiamo a correre e dipingiamo. Le prime due settimane non facevamo altro che muoverci tra interviste, conversazioni su Zoom con gli altri parenti degli ostaggi, raduni e manifestazioni. Io ho persino preso un volo, insieme a una delegazione del ministero degli Esteri, per incontrare i rappresentanti delle Nazioni Unite. Poi ho capito che non era quello di cui avevamo bisogno, che da tutto questo uscivamo soltanto più storditi e confusi, che non ci sembrava mai di essere riusciti a fare abbastanza. Ho preso i miei genitori e li ho costretti a tornare alla loro routine, alle loro passeggiate, e io e mia figlia abbiamo fatto lo stesso. Ma lei assomiglia a sua cugina Emilia quando sorride, e ogni volta che mi sorride è uno strazio”. 

  

Secondo fonti del Washington Post, l’accordo per il rilascio di una parte degli ostaggi in cambio di pochi giorni senza bombardamenti a Gaza non è mai stato così vicino come ora. Il negoziato tra Israele e Hamas è mediato dal Qatar e garantito dagli Stati Uniti, che da giorni fanno pressione sul primo ministro Benjamin Netanyahu affinché sottoscriva il documento in sei punti, di modo che una parte degli ostaggi possa tornare libera e le bombe che uccidono anche i bambini a Gaza si fermino almeno per un po’; oppure che la responsabilità del protrarsi dei bombardamenti contro la Striscia ricada poi – se l’accordo non viene accettato dai palestinese – su Hamas. Il patto prevederebbe la liberazione di circa cinquanta ostaggi tra le duecentotrentotto persone che sono ancora vive sul totale di quelle rapite dai terroristi. La priorità l’avrebbero Emilia, Yuly, Emma e le loro mamme, cioè le donne e i bambini israeliani o con la doppia cittadinanza, che verrebbero divisi in gruppi da dieci rilasciati ogni ventiquattro ore se il cessate il fuoco durasse cinque giorni. Per tutto il tempo della pausa concordata, gli aerei e i droni israeliani continuerebbero a sorvolare la Striscia, ma soltanto per monitorare dall’alto che nessun miliziano di Hamas violi il cessate il fuoco sparando contro le truppe israeliane a terra oppure sposti le armi da un tunnel nel nord a uno nel sud per riorganizzarsi militarmente. 

  

  

In quei tunnel ci sono anche i nipoti di Varda Goldstein, che vivevano come lei nel kibbutz di Kfar Aza. Il sette ottobre la casa di Varda è bruciata. Suo figlio, Nadav, è stato ammazzato insieme alla sua nipotina, Yam, mentre correva per scappare. Il resto dei suoi nipoti sono stati presi in ostaggio da Hamas: Agam, che ha diciassette anni e vuole fare l’educatrice; Gal, undici anni, che la nonna portava allo stadio e che per il compleanno ha ricevuto i guantoni da portiere e Tal, che ne ha nove e aveva affisso un canestro al muro del bunker per passare il tempo allenandosi quando bisognava correre giù per proteggersi dai razzi. “Mi mancano da morire, mi manca vederli divorare le mie schnitzel (le cotolette) e giuro, prometto di preparare tutti i loro piatti preferiti appena torneranno a casa”. Varda non ha la fortuna di credere in dio e dice: “Non posso essere utile nemmeno pregando”.