Hamas ha fatto male i calcoli sul dopo. I documenti

Cecilia Sala

Un gruppo di terroristi si è staccato dagli altri, indaffarati a uccidere e a rapire, coprendo una distanza superiore al diametro di Roma e arrivando a metà strada tra Gaza e la Cisgiordania. Il piano di Hamas per il dopo non era suicida, era meticoloso e prevedeva di “purificare la storia” dagli ebrei. Ma i terroristi hanno frainteso i loro alleti e hanno sottovalutato gli americani come Putin 

Dopo cinque settimane e mezzo di guerra, dopo che i documenti  addosso ai terroristi autori del massacro  sono stati analizzati, dopo che decine di miliziani sono stati catturati e interrogati e dopo che i soldati israeliani hanno ispezionato le “sedi istituzionali” di Gaza City, è più chiaro cosa avesse in testa Hamas il 7 ottobre. E che il gruppo avesse sbagliato i  calcoli. Quella mattina il capo militare di Hamas a Gaza, Mohammed Deif, disse “il giorno è arrivato”, appellandosi al Libano, allo Yemen, alla Siria, a un pezzo di Iraq, ai palestinesi con la carta d’identità israeliana e a quelli della Cisgiordania. Il pogrom nel sud di Israele doveva provocare, nel giro di poco, una guerra sufficientemente grande da rendere impossibile per Israele difendersi o concentrare le proprie forze nella distruzione di Hamas. E gli Stati Uniti dovevano essere colti di sorpresa. 

Il Washington Post ha avuto accesso in esclusiva a una serie di documenti raccolti sul campo e ha scritto che “le prove, secondo funzionari dell’intelligence di quattro paesi sia occidentali sia mediorientali, rivelano che gli ideatori dell’attacco volevano sferrare un colpo  storico e contavano su una reazione spropositata israeliana”, che avrebbe dovuto funzionare per infiammare subito gli alleati di Hamas nella regione. La consapevolezza che Israele avrebbe cominciato a bombardare la Striscia con un’intensità senza precedenti non era considerato un limite ma un passaggio indispensabile per arrivare alla distruzione del nemico, una fase successiva della guerra che non si è realizzata e che il 7 ottobre Deif aveva auspicato come “il momento in cui la Storia apre le sue pagine più pure”. I combattenti di Hamas che a centinaia hanno sfondato le recinzioni di Gaza all’alba  avevano con sé provviste di cibo e munizioni sufficienti per resistere molti giorni. Un gruppo cospicuo si è staccato dagli altri, indaffarati a uccidere e a rapire, raggiungendo Ofakim, cioè avanzando di venticinque chilometri, coprendo una distanza superiore al diametro di Roma e arrivando a metà strada tra Gaza e la Cisgiordania. Loro  marciavano verso i palestinesi governati da Abu Mazen augurandosi che sarebbero insorti vedendoli arrivare, e a giudicare dalle provviste che si trascinavano dietro contavano di riuscire a proseguire verso la Cisgiordania. Quello di Hamas non era un piano suicida, ma studiato per oltre un anno e basato sulla consapevolezza che gli israeliani fossero molto deboli oltre il confine est della Striscia – come effettivamente erano, anche se meno deboli di quanto sperasse Hamas. I morti a Gaza dovevano servire come movente per portare i partner   a entrare in guerra. Contemporaneamente gli avanzamenti di Hamas sul terreno dovevano dimostrare alle milizie amiche che Israele era più fragile del previsto e battibile militarmente, a patto di restare tutti uniti. 

La segretezza che imponevano i preparativi del 7 ottobre ha, da un lato, permesso a Hamas di sferrare un attacco senza precedenti evitando fughe di notizie che avrebbero allertato lo Shin Bet; dall’altro lato ha reso i capi di Gaza talmente isolati da indurli in errore rispetto a quella che sarebbe stata la reazione del resto del mondo e   dei loro stessi alleati. Un analista che conosce molto bene Hamas come Michael Horowitz ha scritto che probabilmente neppure i leader del gruppo all’estero, come Ismail Haniyeh che vive in Qatar, conoscevano   il quando e il come  dell’attacco. Perché c’è una frattura tra le guide  di   Gaza (il capo Yahya Sinwar e la mente militare Deif)  e i vertici in esilio. I primi, che hanno vissuto in prigione e rischiano le bombe, considerano i secondi utili a reperire risorse ma corrotti e poco affidabili, perché subiscono  le pressioni delle autorità nei paesi che li ospitano e li proteggono. Se neppure Haniyeh conosceva il piano, è ancora meno credibile che lo conoscessero in Libano o  a Teheran. Se Sinwar e Deif avessero testato prima i propri alleati, forse avrebbero potuto fare previsioni più esatte sul dopo. Teheran oggi fa la faccia feroce ma parla con gli americani attraverso il Qatar mettendo in chiaro che non  ha intenzione di morire per Hamas. Hassan Nasrallah ha pronunciato quello che gli esperti hanno definito il discorso meno infuocato nella sua storia di oratore  nonostante questi bombardamenti su Gaza siano i più spietati di sempre. Quando lunedì  una delle teste di Hamas in Libano ha detto che “se Hamas sarà completamente distrutto, allora Hezbollah entrerà  in guerra”, l’intenzione era formulare una minaccia ma la lettura più diffusa è stata: è l’ammissione disperata, da parte di Hamas, che Hezbollah non abbia intenzione di salvarli.

Hamas non ha soltanto frainteso gli amici, ha sottovalutato l’occidente replicando l’errore di Vladimir Putin a febbraio del 2022. Per Horowitz, i terroristi difficilmente aveva previsto le portaerei di Joe Biden nel Mediterraneo. Gli Stati Uniti chiedono a Israele di proteggere i civili di Gaza e nel frattempo hanno dispiegato per Israele il massimo della deterrenza possibile.