Militari americani di stanza in Afghanistan festeggiano il Ringraziamento nel 2002 (LaPresse) 

Storia di uno strano destino

Tutte le guerre che l'America non ha voluto. Israele, ultimo fronte

Stefano Cingolani

Una nazione nata sull’utopia illuminista: prima ha detto no ai conflitti del Vecchio continente, poi si è ritrovata a fare il poliziotto del mondo, dal Vietnam all’Afghanistan

Pericolosamente innocente: il disilluso giornalista britannico Thomas Fowler che si trascina in una Saigon ormai in mano a predatori in veste di liberatori, etichetta così il giovane Alden Pyle, laureato a pieni voti a Harvard, arrivato in preda a eroici furori, pieno di ideali e di sofisticate dottrine politiche. Una innocenza pericolosa è proprio quel che Graham Greene vede nell’America che s’appresta a compiere la sua missione di nuovo poliziotto del mondo. Siamo nel bar dell’hotel Continental mentre i francesi sono già destinati ad abbandonare il Vietnam e l’intera Indocina. A Fowler, il narratore amaro e distaccato, ormai interessa solo Phuong, la giovane vietnamita della quale è innamorato e non può sposare perché la moglie cattolica gli rifiuta il divorzio. Ma diventa lo strumento di una spietata provvidenza.

   

“Noi siamo i vecchi colonialisti ma abbiamo imparato a non giocare con i fiammiferi”, dice l’inglese disilluso in “The Quiet American” di Greene

  

Pyle, il “Quiet American”, l’americano tranquillo che dà il titolo a uno dei più lucidi romanzi dello scrittore inglese (pubblicato nel 1955), prevede che quell’intera fetta del lontano oriente finirà in mano ai comunisti sotto l’ombrello dell’Unione sovietica e si realizzerà l’effetto domino. Per questo, bisogna creare una Terza forza, in sostanza un regime amico che faccia da cuscinetto. L’emissario inviato con la Missione di aiuto economico che prevede anche ben altri aiuti a un gruppo di guerriglieri guidati dal corrotto generale Thé, è imbevuto di princìpi, valori, ambizione. Ma Thomas lo mette in guardia: “Noi siamo i vecchi colonialisti – gli dice – ma abbiamo imparato a non giocare con i fiammiferi. La tua Terza forza viene fuori da un libro. Il generale Thé è solo un bandito con poche migliaia di uomini, non è una democrazia nazionale”. Il giovane idealista non capisce, non può capirlo e va dritto verso la rovina. L’America, guerriera riluttante, quando mobilita le sue legioni issa la statua della libertà al posto del labaro imperiale. Il divide et impera non le basta, vuole esportare la democrazia. La storia di Graham Greene è una grande metafora, vale ancora oggi?

  

Gli inquieti americani


Joseph Biden ha meno di un anno per convincere gli americani a ridargli fiducia. Se fossimo in tempi normali gli elettori sarebbero influenzati dall’economia. Ricordate Bill Clinton? “It’s the economy, stupid”, era lo slogan con il quale nel novembre 1992 sconfisse George Herbert Walker Bush, il quale un anno prima aveva battuto Saddam Hussein e liberato il Kuwait usando un’impressionante dimostrazione di forza chiamata Desert Storm, la tempesta nel deserto, eppure non era riuscito a vincere la recessione.

 

Oggi gli Stati Uniti cavalcano una crescita imprevista, ma gli americani non sono contenti, cresce la paura di essere coinvolti in una guerra

   

Oggi gli Stati Uniti cavalcano una crescita imprevista che sfiora il 5 per cento, surclassa l’Unione europea e sorpassa persino la Cina, la disoccupazione è ai minimi, l’industria e i servizi offrono nuovi posti di lavoro, l’intelligenza artificiale stimola la produttività, e l’inflazione che pure resta ai piani alti, non fa crollare il potere d’acquisto. Eppure gli americani non sono contenti, anche in loro sta crescendo la paura di essere coinvolti in una nuova guerra mondiale, questa volta contro Russia, Cina e Iran. Il nuovo “impero del male” contro “l’impero della libertà” come Thomas Jefferson definì la repubblica che aveva contribuito a fondare. In Ucraina siamo allo stallo, mentre Israele non ascolta gli inviti dell’amico americano a modulare e moderare l’offensiva contro Hamas. E’ la guerra a segnare questa campagna elettorale, una guerra su due fronti, pur operando dietro le linee.

  

Stay behind 

Gli Usa hanno combattuto già dalle retrovie, per tre anni dal 1914 al 1917 e per due anni dal 1939 al 1941, poi sono dovuti scendere sul terreno, sacrificare la migliore gioventù, perdere oltre un milione di ragazzi. E hanno vinto. Oggi può essere diverso? Ci sono condizioni favorevoli: la tecnologia per esempio o il soft power, il potere morbido, esteso e capillare, importante tanto quanto il potere duro. Lo zio Sam è nato per dire no alle guerre che laceravano il Vecchio continente e seguire l’utopia illuminista, anzi kantiana, della pace perpetua raggiunta con la libertà, il benessere, persino la felicità su questa terra. Eppure ha conquistato la propria indipendenza sulla punta delle baionette.

  

Gli Usa hanno perseguito i loro interessi spesso anche in modo spietato, ma non hanno mai dichiarato guerra per pura volontà di potenza

  

Per prendere le armi ha sempre avuto bisogno di una dottrina basata su valori chiari e obiettivi distinti. Mascheramento ideologico secondo i seguaci della Realpolitik, o idealismo consustanziale alla repubblica dell’utopia, certo è che gli Usa hanno perseguito i loro interessi spesso anche in modo spietato, ma non hanno mai dichiarato guerra per pura volontà di potenza. Ci sono state la dottrina Monroe e quella Truman, la dottrina Powell e la dottrina Rumsfeld. Secondo il generale bisogna sempre cercare la pace, ma se proprio si è costretti, allora occorre intervenire con il massimo delle forze possibili, vincere e tornarsene a casa (così fece Bush senior in Kuwait). Al contrario Rumsfeld consigliò a Bush junior di adattarsi alla guerra asimmetrica, leggera, condotta con le forze speciali. Ma qual è oggi la dottrina Biden?

 

La casa divisa

I padri fondatori della prima democrazia moderna una volta cacciati gli inglesi nel 1783 avevano promesso a se stessi di non infilarsi più nelle vicende della bellicosa Europa. Invece, già tra il 1812 e il 1814 dovettero combattere di nuovo gli inglesi, impegnati ad affrontare Napoleone. Erano in ballo i commerci marittimi, ma come sempre anche i princìpi: la fine del colonialismo, la “liberazione del Canada”, la protezione dei pionieri già proiettati verso le grandi pianure del West e il libero scambio. Dieci anni dopo il presidente James Monroe proclamò in Congresso “l’America agli americani”. Ciò implicava il sostegno alle rivoluzioni latine, la conquista dei possedimenti spagnoli dalla California al Texas, l’uscita dei francesi dall’immensa fascia che dai Grandi laghi scendeva fino al Golfo del Messico, chiamata Louisiana in omaggio al re Sole: Washington acquistò quei territori per 23 milioni di dollari del 1803. 
Princìpi e conflitti, liberazione ed espansione, fino alla separazione degli stati confederati del sud. Abraham Lincoln, eletto presidente nel 1861, annunciò la sua “dottrina della necessità” rilanciando la sua convinzione già espressa nel “discorso della casa divisa”. Era il 1858 quando dichiarò che “una casa divisa contro se stessa non può reggere. Credo che il governo federale degli Stati Uniti non possa sopportare in modo permanente una nazione per metà schiavista e per metà libera”. La guerra civile in quattro anni fece un  milione di vittime (600 mila soldati); tra battaglie, razzie, malattie, perì l’8 per cento di tutti i maschi tra i 13 e i 43 anni; dai campi di prigionia uscirono uomini ridotti a scheletri. Il costo economico viene calcolato in 69 miliardi di dollari, più di quanto speso per nove anni in Vietnam. Il sud precipitò in una miseria dalla quale si è ripreso solo a metà del Novecento. Ricostruire la casa è stato lungo e difficile, ma le ferite storiche non si sono ancora rimarginate. 

 

Le porte aperte

E’ ancora una crisi nata in Europa a spingere l’America in battaglia alla svolta del nuovo secolo. Quel che restava dell’impero spagnolo era ridotto in briciole, mentre la Germania con il suo potentissimo complesso militar-industriale insidiava il primato dell’Inghilterra. L’economia americana stava gonfiando i muscoli, ma aveva bisogno che i mercati mondiali restassero aperti, ancor più dopo che il dollaro era stato inserito nel sistema internazionale e legato all’oro. Le elezioni del 1896 portarono alla Casa Bianca i repubblicani guidati da William McKinley che chiese alle potenze europee di garantire il condizioni di scambio eque e libero accesso in Cina con il pieno rispetto dell’indipendenza del paese. “Fair trade e nessun favoritismo, così tutti ne potranno trarre vantaggio”, scrisse il segretario di stato John Hay nelle due “note sulle porte aperte” pubblicate nel 1899 e 1900 che definivano una nuova dottrina delle relazioni internazionali.

 

“Fair trade e nessun favoritismo, così tutti ne potranno trarre vantaggio”, scrisse il segretario di stato Hay nelle “Note sulle porte aperte”

 

Ma molte, troppe porte restarono sbarrate nel Pacifico e nell’America centrale o si chiusero nella stessa Cina in preda alla rivolta dei boxer, stretta nella morsa tra Russia e Germania. Gli Stati Uniti, così, cominciarono a combattere oltre mare: nelle Filippine (1898), a Cuba, ma anche a Portorico e a Panama. Altri due presidenti, Theodore Roosevelt e William Taft difesero con le armi la libertà dei commerci e gli Usa tennero ben strette le chiavi delle porte. Teddy Roosevelt guidò le cariche della cavalleria a Cuba o scavò il canale tra Atlantico e Pacifico, Taft non venne mai a capo del nuovo nazionalismo cinese guidato da Sun Yat-sen che aveva spodestato Pu Yi, l’ultimo imperatore. Un anno dopo, nel 1913, alla Casa Bianca arrivarono i democratici guidati da Woodrow Wilson, il pacifista che fu trascinato nella Grande Guerra.

 

La pace senza vittoria

Nemmeno l’affondamento del transatlantico britannico Lusitania, silurato da un U-Boot tedesco nel maggio 1915 e costato la vita a 128 americani, convinse il Congresso a dichiarare guerra. Roosevelt tuonava contro la Germania, Wilson, figlio di un pastore presbiteriano, storico e politologo di vaglia, era filo-inglese, ma esitava. Gli Usa rifornivano l’Intesa di armi, generi alimentari, miliardi di dollari. Ma non soldati. Anzi, si diffondeva la teoria di “una pace senza vittoria” che consentisse un equilibrio tra le potenze europee. La svolta avvenne nel 1917. La rivoluzione russa, la guerra sottomarina totale da parte dei tedeschi, le manovre di Berlino con il Messico al quale prometteva la riconquista del Texas e della California, tutto ciò indusse Wilson a scegliere. Ai primi di aprile chiese agli americani di combattere allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia”. E 600 mila soldati vennero inviati in Inghilterra, Italia, Francia. Wilson assunse la leadership politica con la sua proposta in 14 punti per una sistemazione dell’Europa post bellica basata sulla sovranità nazionale, la libertà degli scambi, una Lega delle nazioni per garantire la sicurezza collettiva. Nel novembre ‘18 la Germania si arrese, ma la pace risultò punitiva,  la Lega si rivelò un sogno trasformato in incubo. La Russia divenne sovietica, l’Italia fascista, la Germania nazista mentre l’economia mondiale cadeva nella Grande Depressione che colpì duramente gli stessi Stati Uniti. Non c’era più posto per l’internazionalismo wilsoniano anche se ce ne sarebbe stato bisogno.

   

Forti correnti dell’establishment parteggiavano per Mussolini e Hitler. Solo Pearl Harbor svelò il destino degli Stati Uniti

  

I destini incrociati

Lo zio Sam si chiuse in casa. Forti correnti dell’establishment politico ed economico parteggiavano per Mussolini e Hitler (uno tra gli altri Henry Ford) e mentre la Wehrmacht conquistava la Polonia e piegava la Francia, il movimento America First guidato da un eroe popolare, il trasvolatore Charles Lindbergh, apprezzava apertamente le svastiche e non voleva che gli Stati Uniti scendessero in campo contro la Germania. Il presidente Franklin Delano Roosevelt non riuscì a convincere il Congresso e l’opinione pubblica. Ancora una volta gli americani non volevano rischiare le vite dei propri ragazzi: armi, cibo e dollari, di nuovo come nel 1914. Solo l’attacco giapponese a Pearl Harbour contro la flotta del Pacifico svelò che il destino dell’America, quello dell’Europa e dell’Asia restavano legati. FDR, come era chiamato il presidente, ne era convinto, tanto da elaborare la sua dottrina secondo la quale la sicurezza nazionale era basata sulla “interdipendenza strategica”. I vertici come quelli di Teheran e di Yalta, ritenuti i luoghi in cui i futuri vincitori fecero a fette il mondo, per Roosevelt erano esempi concreti di questa interdipendenza, mentre nel 1944 a Bretton Woods si metteva a punto l’assetto economico e monetario e si gettavano le basi dell’Onu guidato dai “quattro poliziotti”: Usa, Gran Bretagna, Russia e Cina. Di lì a poco questo potenziale nucleo di un governo mondiale si sarebbe scisso, come l’uranio con la bomba atomica. Mentre “una cortina di ferro cadeva sull’Europa”, disse Winston Churchill e il mondo veniva diviso in due blocchi ideali, politici, militari. Alla egemonia che gli Usa avrebbero poi esercitato sull’occidente, si contrapponeva il dominio sovietico destinato a estendersi in tutti i continenti. 

 

La teoria del domino

La Guerra fredda, punteggiata da una serie di guerre roventi, aveva bisogno anche lei di una dottrina. Il primo importante contributo venne da un diplomatico di stanza a Mosca: George Kennan. Nel 1946 in un suo dispaccio descrisse il regime sovietico guidato da Stalin come ostile all’America e all’occidente e propose la strategia del contenimento. Addio al sogno rooseveltiano, l’ex vice presidente Harry Truman, diventato comandante in capo, era convinto che la realtà aveva preso una strada opposta. Il suo segretario di stato Dean Acheson era andato ancora più in là di Kennan elaborando la sua “teoria del domino”: quando in uno stato si afferma il comunismo, gli altri stati confinanti sono a rischio di divenire anch’essi comunisti. I paesi dell’Europa centro-orientale liberati e poi occupati dall’Armata Rossa cadevano uno dopo l’altro sotto il tallone staliniano, in Grecia scoppiava una guerra civile, in Cina vincevano i comunisti di Mao Zedong i quali sostenevano, insieme ai sovietici, i loro compagni coreani guidati da Kim Il-Sung. La “dottrina Truman” partiva da questi dati di fatto e offriva ai paesi piegati dalla guerra, ai vincitori come la Gran Bretagna e agli sconfitti come la Germania, l’Italia e il Giappone, un aiuto sostanziale se accettavano di camminare sul sentiero della democrazia. Il piano Marshall, il Fondo monetario internazionale, poi la Nato, erano i tre pilastri della nuova architettura occidentale, che si riveleranno ben più solidi del previsto, capaci di resistere ai durissimi colpi dei decenni successivi. Il contenimento diventava deterrenza nucleare (anche l’Urss fece esplodere nel 1951 la sua atomica) e mondiale. 


La caduta della Cina nel 1949 coincise in Europa con il Patto Atlantico e rappresentò per gli Usa un pericolo ancora maggiore della divisione in due della Germania. Lo si capì molto presto, quando nel giugno 1950 le truppe della Corea del nord invasero il sud per riunificare il paese sotto la guida del partito comunista. Sembrava una sfida locale in un paese periferico, ma Stalin che all’inizio esitava, volle saggiare la capacità di reazione degli Stati Uniti. Per Truman e Acheson era un’ulteriore effetto domino. L’Onu accese il semaforo verde, Douglas MacArthur, vincitore della guerra del Pacifico, valicò il 38esimo parallelo, ma a quel punto la Cina maoista intervenne. Tre anni di guerra e di lutti passarono senza che nessuno prevalesse. Nel 1953 venne firmato un armistizio che spaccò in due la Corea, ancora oggi non esiste nessun vincitore e nessuna pace. La teoria del domino ha trovato altri due esempi, uno più pericoloso dell’altro a Berlino, divisa, circondata, bloccata dall’Unione sovietica (fu John Kennedy a proclamarsi berlinese nel 1963) e a Cuba quando con la crisi dei missili nel 1962 si è rischiato davvero l’olocausto nucleare. Abbiamo riassunto storie note, ma serve anche a capire quanto sia stato e sia ancor oggi complesso e contraddittorio il rapporto tra gli Stati Uniti e la guerra. 

 

La presidenza imperiale


Se in Corea fu una semi sconfitta, in Vietnam fu una catastrofe. Gli americani intervennero per evitare un nuovo effetto domino con il nord comunista pronto a conquistare il sud attraverso una guerriglia ben orchestrata. I tentativi di creare quella Terza forza alla Pyle fallirono e gli Stati Uniti con una continua escalation arrivarono a impiegare mezzo milione di soldati, coscritti, non solo solo professionisti. Nel 1968 l’offensiva del Tet segnò il punto di svolta e da allora per quattro anni gli Usa cercarono una via d’uscita alternando azioni militari e negoziati, mentre i baby boomers scendevano in piazza contro “la sporca guerra”, bruciavano le cartoline precetto, la bandiera persino.

 

Nixon perseguiva l’obiettivo di portare a compimento quella che lo storico Arthur M. Schlesinger chiamò “la presidenza imperiale”

   

Chi oggi è in pensione o sta per andarci lo ricorda bene, fa parte della sua giovinezza. Il compito di uscire dal pantano toccò a un presidente repubblicano, Richard Nixon, che perseguiva l’obiettivo di portare a compimento quella che lo storico Arthur M. Schlesinger, già consigliere di Kennedy, chiamò “la presidenza imperiale”, accentrando nelle sue mani l’intero potere di guerra e pace. La costituzione attribuisce al parlamento la decisione di entrare in guerra, poi il presidente diventa il comandante in capo delle forze armate. Ma ha anche una facoltà in più: reagire di propria iniziativa a pericoli immediati. Sia nella funzione di Commander in chief sia nel potere di reazione s’annida una contraddizione che, soprattutto durante la guerra fredda, ha favorito via via una dilatazione della Casa Bianca a scapito del Congresso: l’emergenza è diventata permanente, l’eccezione nata in politica estera s’è fatta regola anche in politica di sicurezza interna.


Trent’anni dopo, Schlesinger ha gettato un ponte tra la dottrina Nixon e la dottrina di Bush figlio, cioè la guerra preventiva, una scelta che doveva spettare in prima istanza alla Casa Bianca. Non era un caso che accanto a Bush ci fossero due politici che avevano debuttato proprio con Nixon: Dick Cheney e Donald Rumsfeld. Naturalmente Schlesinger riconosce che senza Osama bin Laden e l’11 settembre non sarebbe stato possibile rilanciare una operazione politica miseramente fallita con lo scandalo Watergate e l’impeachment di Nixon. Se da una parte “l’isolazionismo è la più vecchia dottrina di politica estera americana”, altrettanto vecchio è lo scontro tra potere esecutivo e legislativo. Certo, tra Nixon e Bush junior c’è stata la catastrofe iraniana sotto Jimmy Carter e la ripresa “semi-imperiale” di Ronald Reagan che lanciò tre sfide al grande nemico sempre più boccheggiante, quella ideale sul capitalismo e il libero mercato, quella economica con il big bang finanziario, quella militare con gli euromissili e le guerre stellari, mentre nell’America centrale Ronnie combatteva la guerriglia filo comunista alimentando la contro-guerriglia, i famigerati contras. Il democratico Bill Clinton, multilateralista convinto, voleva che “il poliziotto globale diventasse agente di pace”, ma con il collasso dell’Unione sovietica la politica estera americana era diventata come una ciambella e al centro aveva un buco, come disse Richard Holbrook, uno dei più acuti diplomatici americani. 

 

Dove c’è un McDonald’s non c’è guerra, si diceva, intanto maturava la “confusa rivolta contro il calculemus”, come scrisse Isaiah Berlin

  
Clinton ha dovuto affrontare tre guerre, due in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia (in Bosnia e Kosovo), una finita male in Somalia. Ma ha riempito il vuoto della ciambella premendo l’acceleratore sulla globalizzazione e offrendo alla Cina la possibilità di entrare da pari a pari nell’Organizzazione mondiale del commercio. Gli Stati Uniti prendevano lo scettro del nuovo mondo, “il mondo piatto” che piaceva a Tom Friedman, in realtà un mondo “unipolare”, guidato da una “superpotenza solitaria”. E’ durato fino al 2001, fino all’attacco contro le torri gemelle del World Trade Center, monumento eretto al libero scambio e al sogno americano. Dove c’è un McDonald’s non c’è guerra, si diceva, invece dentro il McWorld maturava quella “confusa rivolta contro il calculemus”, come scrisse Isaiah Berlin, cioè contro la razionalità occidentale, che nell’Islam ha indossato la maschera barbarica della jihad. L’esportazione della democrazia, bandiera di quei wilsoniani destrorsi chiamati “neocon”, doveva essere la risposta americana. In Afghanistan ha avuto successo, ma non è durata a lungo. Sull’Iraq i pareri sono ancor oggi diversi e divisi, tuttavia buona parte del paese è sotto il mantello degli ayatollah, il Kurdistan si è di fatto separato, Baghdad è tornata Babilonia. 


Marziani e venusiani


“Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”, così Robert Kagan vent’anni fa ha definito le crescenti differenze fra i due partner atlantici. C’è del vero, gli europei anche se ricchi non meno degli americani continuano a farsi difendere dagli alleati d’oltre Atlantico, gli stessi che forniscono molte più armi e denari all’Ucraina, anche se Putin attacca al cuore il Vecchio Continente. Tuttavia le guerre che gli Usa stanno oggi combattendo smentiscono in parte sia i conservatori come Kagan sia i liberal come Obama secondo il quale il nuovo mondo multipolare dovrebbe essere governato da un nuovo concerto delle nazioni. Il suo discorso del Cairo nel 2009 è stato un capolavoro di retorica visionaria e di ingenuità. La Siria è finita in mano al dittatore Assad, alla Russia e alla Turchia. Quanto a Putin aveva detto chiaramente di volere attorno a sé una corona di stati cuscinetto in Europa e in Asia. Obama non ha reagito e dal Caucaso alla Crimea, “Zar Vlad” ha fatto quel che voleva. La Bielorussia è guidata da un fantoccio. Nell’Asia centrale spira un’aria da impero sovietico.

   

“Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”, così Robert Kagan vent’anni fa ha definito le crescenti differenze fra i due partner

  

Quando poi è arrivato Trump il suo mix di protezionismo e megalomania ha reso tutto più confuso. Voleva fare a pezzi Kim Jong-un alias Rocket Man, poi gli ha offerto un passaggio sull’Air Force One, ha tuonato contro la Cina e Xi Jinping ha stretto ancor più la sua tenaglia, ha bollato “Vlad the Mad” poi lo ha titillato, ha strapazzato l’Unione europea finendo per far male anche al proprio paese, ha corteggiato gli sceicchi ed è esplosa la Palestina. Ora promette “con me niente più guerre”, Putin è affare degli europei, il medio oriente di arabi e israeliani, MAGA diventa il simbolo di un isolazionismo pacifista. Più che da Marte, The Donald sembra venire da un buco nero. Asimmetrica o tecnologica, combattuta nello spazio o in trincea, la guerra per noi occidentali resta una prosecuzione della politica con altri mezzi, senza una soluzione politica non c’è soluzione militare. E’ vero a Kyiv come a Gaza, sarà vero per le altre guerre i cui tamburi rullano a Taiwan, nelle Filippine, al centro dell’Africa, là dove batte il cuore di tenebra.

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