Il padre del matto

Chi è Rothbard, filosofo anarco-capitalista a cui si ispira il populista argentino Milei

Michele Magno

L’incontro con Ludwig von Mises, spartiacque nella sua formazione culturale. La fede nel “laissez-faire”. Ecco cosa diceva contro il Leviatano

Smentendo tutti i pronostici della vigilia, il primo turno per la conquista della Casa Rosada (22 ottobre) ha visto la “remontada” del peronista Sergio Massa. Ma il ballottaggio del 19 novembre prossimo non sarà una passeggiata per il ministro dell’Economia di un paese virtualmente in default. Né gioca certo a suo favore il recente endorsement per Javier G. Milei di Patricia Bullrich, leader di “Juntos por el cambio”, un passato nei Montoneros, esiliata in Brasile durante la dittatura del generale Videla, ora pasionaria. Ma di destra. Qualsiasi sarà il risultato delle elezioni presidenziali, comunque, “El loco” (il pazzo) – come viene soprannominato – continuerà a far parlare di sé. Perché Milei, icona dei giovani di tutte le classi sociali (in Argentina votano anche i sedicenni), è uno dei personaggi politici più spiazzanti del continente sudamericano. Più di quanto lo sono stati Jair Bolsonaro e il cileno José Antonio Kast. La sua retorica populista, simboleggiata da una motosega con cui fende l’aria in ogni comizio, è urlata contro la corruzione dei “poteri forti”. E si nutre di promesse a dir poco bizzarre, come la “dollarizzazione” dell’economia nazionale, l’abolizione dei contratti collettivi di lavoro e dei sindacati, il taglio drastico degli stipendi dei politici (“branco di ladri e criminali”) e dei dipendenti pubblici (“inutili parassiti”). Promesse che si sposano con un ardito programma di liberalizzazioni: dal consumo di sostanze stupefacenti (“il suicidio è un affare privato”) alla vendita delle armi per la difesa personale (“la proprietà è sacra”), fino al commercio degli organi umani (“ciascuno è padrone del proprio corpo”).

Qualsiasi sarà il risultato delle elezioni presidenziali, “El loco” – come viene soprannominato – continuerà a far parlare di sé

 

Un minestrone ideologico scaldato con lo slogan “La Libertad Avanza”, come si chiama il partito a cui ha aderito nel 2020. Milei viene descritto come il “Trump della Pampa”, ma sta con l’Ucraina e con Israele. È cattolico, però non esclude di convertirsi all’ebraismo. È un negazionista del cambiamento climatico (una “menzogna del socialismo”) ed era un No vax, ma poi si è vaccinato contro il Covid-19. Ama Puccini e detesta Keynes, millanta un dialogo diretto con Dio e accusa Papa Bergoglio di rappresentare una “incarnazione del comunismo”. Ex showman televisivo, da navigato istrione si vanta di essere l’erede dell’anarco-capitalismo di Murray N. Rothbard, e con il suo nome ha battezzato uno dei quattro mastini inglesi da cui si fa scortare. Ma le milonghe di Buenos Aires distano ottomila e cinquecento chilometri dai locali jazz del Bronx, dove è venuto alla luce Rothbard nel 1926. E questo forse spiega il diverso stile comunicativo del pensatore newyorkese, al quale Roberta Adelaide Modugno ha dedicato un prezioso volumetto biografico di cui sono debitrici queste note (Murray N. Rothbard, IBL Libri, ottobre 2022).

Nel 1946 George Stigler, futuro premio Nobel ma allora giovane professore di economia, insegnava alla Columbia University. La matricola Rothbard rimane subito affascinata dalla sua personalità e dalle sue brillanti lezioni. Stigler criticava la calmierazione degli affitti e il salario minimo, dimostrando che finiva con l’escludere i lavoratori marginali dal mercato del lavoro. Rothbard si rivolse alla Foundation for Economic Education, che aveva pubblicato il saggio di Stigler e Milton Friedman, Roofs or Ceilings (“Tetti o soffitti”), per riceverne una copia. È in questa occasione che entra in contatto per la prima volta con il movimento libertario. Come egli stesso ha raccontato, una sera d’inverno del 1949, durante una conversazione con alcuni amici si convince che non si poteva essere favorevoli al libero mercato e, insieme, all’intromissione dello stato nella vita dei cittadini: “La mia intera posizione era incoerente […], vi erano solo due logiche alternative: il socialismo o l’anarchismo. Dal momento che per me diventare socialista era fuori discussione, l’irresistibile logica del caso mi spinse a divenire un anarchico della proprietà privata o, come avrei detto più tardi, un anarco-capitalista” (Liberty, luglio 1988). Inizia così a divorare i testi degli anarchici individualisti della tradizione americana, come Benjamin Tucker e Lysander Spooner.

Ma l’evento che segna uno spartiacque nella sua formazione culturale è l’incontro con Ludwig von Mises. Dopo l’Anschluss (1938), numerosi esponenti della Scuola austriaca di economia erano emigrati negli Usa. Tra questi anche il suo decano, la cui biblioteca era stata messa al rogo dai nazisti. Quando sbarca nella metropoli statunitense, era anziano e privo di un incarico accademico ufficiale. Così il Volker Fund nel 1949 sponsorizza un seminario di economia tenuto da Mises presso la New York University. È in quel seminario che il giovane Murray matura definitivamente la sua fede nelle virtù del “laissez-faire”. La sua casa nell’Upper West Side di Manhattan diventa così un punto di riferimento per i simpatizzanti delle teorie del padre del moderno libertarianismo. Infatti, già a metà degli anni Cinquanta la prima generazione della Old Right, creata nel 1933 per combattere il New Deal rooseveltiano, era ormai sul viale del tramonto. Con l’avvento della Guerra fredda, la sua vecchia linea antimperialista e antimilitarista si era oltremodo sbiadita. Dalle pagine di “Faith and Freedom”, con cui aveva iniziato a collaborare, Rothbard non si lascia pregare, e sferra un duro attacco contro gli esponenti della New Right, rei di avere ammainato le bandiere della pace e del disarmo. L’attacco gli costa il licenziamento dalla rivista. Stessa sorte subirà alla “National Review” di William Buckley, dove viene epurato per le sue posizioni “accomodanti” sul pericolo sovietico.

Lo statalismo risorgeva dai convergenti interessi dei grandi affaristi e della fitta schiera di tecnocrati in cerca di prebende

 

Il suo vero nemico è un altro: lo stato Leviatano, l’alleanza tra “big government”, “big business” e apparato militare-industriale firmata alle spalle di un ceto medio sempre più sfruttato. Sotto tale profilo, merita una menzione speciale The Progressive Era, pubblicato postumo nel 2017. Si tratta di un testo rilevante, redatto con l’obiettivo di scovare le origini dello stato paternalistico e assistenziale che si afferma negli Usa nel quarantennio che va dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento alla metà degli anni Venti del Novecento. In estrema sintesi, la sua tesi è che il risorgente statalismo in quel periodo fu determinato dai convergenti interessi di due gruppi: uno di grandi affaristi ansiosi di sostituire l’economia concorrenziale con una economia cartellizzata e permeabile alla sua influenza; l’altro costituito da una fitta schiera di tecnocrati, ingegneri, pianificatori ansiosi di ottenere dal governo prebende e impieghi remunerativi. A parere di Rothbard, questa operazione per andare in porto esigeva una nuova élite di intellettuali collettivisti, ammiratori del modello sociale costruito dal cancelliere Bismarck in Germania.

Dopo essersi avvicinato al movimento di protesta giovanile contro la guerra nel Vietnam, nel 1968 Rothbard decide di entrare nel “Peace and Freedom Party”, il partito di cui era emanazione. L’anno successivo un drappello di libertari, strenuamente ostile alla coscrizione obbligatoria, getta le basi di un movimento indipendente. È il primo passo di un percorso da cui nasce nel 1972 il “Libertarian Party”, a cui Rothbard guarda con benevolenza. Nel 1982, ad Auburn in Alabama, viene inaugurato il Ludwig von Mises Institute. Sotto la sua guida, l’Istituto si guadagna rapidamente una fama internazionale. Nel 1985 l’Università del Nevada, a Las Vegas, gli offre la cattedra di economia. Un riconoscimento che per un decennio (si spegnerà nel 1995) gli consente di riprendere con buona lena l’antica passione per lo studio e la scrittura.

A questo punto, è forse utile fare chiarezza su qualche lemma usato sopra. Nel mondo anglosassone il termine “liberal” designa un progressista schierato a favore dei diritti civili e dell’intervento pubblico. Con il New Deal rooseveltiano la sinistra americana si appropria definitivamente di questo significato. Per altro verso, come si è già accennato, la Guerra fredda provoca una storica frattura tra “conservative” e “libertarian”, riconducibile soprattutto all’atteggiamento da tenere nei confronti del blocco comunista. Per i primi la minaccia sovietica andava combattuta attivamente. Per i secondi era più conveniente una posizione isolazionista e di attesa del crollo dell’Urss preconizzato da Mises. Siamo dunque di fronte a “una divisione diversa rispetto a quella classica tra conservatori e liberali, riconducibile alla preferenza per l’ordine o per la libertà come valore cardine del discorso politico” (Nicola Iannello, Il libertarianism: saggio bibliografico, Etica & Politica).

Questa articolazione del lessico politico americano va anche inserita nel sistema tendenzialmente bipartitico di quel paese; a “destra” prevalse l’etichetta di “conservatori”, soprattutto con la campagna per le presidenziali del 1964, in cui il candidato repubblicano Barry Goldwater rivendicò con orgoglio la definizione di “conservative”. Da allora, nel panorama politico e partitico statunitense i democratici, sostenitori del “big government” e del welfare state, sono i “liberal”. I repubblicani, fautori della deregolazione del mercato e dei valori tradizionali dei padri costituenti, i “conservative”. Pertanto i “libertarian” si collocano al di fuori di questo schema, in quanto sostenitori di una libertà radicale, quasi assoluta, che implica il divieto di qualunque forma di proibizionismo e la depenalizzazione di ogni “devianza”, da quelle sessuali a quelle espressive.

Nel 1973 Rothbard aveva dato alle stampe una delle sue opere più famose, Per una nuova libertà. Il manifesto libertario (Liberilibri, 2004). L’incipit analizza le radici storiche del libertarismo, da lui scoperte nei conflitti civili combattuti in Gran Bretagna tra il 1642 e il 1651, in cui spiccano le lotte dei Livellatori contro l’assolutismo regio. Secondo Rothbard, essi furono una specie di libertari ante litteram, paladini di un governo limitato nei poteri e nelle funzioni, della libertà di commercio e del diritto inviolabile alla proprietà privata. Ma il cuore del Manifesto batte altrove, nella denuncia della natura criminale e aggressiva dello stato: “Lo stato commette abitualmente omicidio di massa, chiamandolo ‘guerra’, o tavolta ‘eliminazione dei sovversivi’; lo stato pratica la schiavitù nelle proprie forze militari, e la chiama ‘coscrizione’; vive e giustifica la propria esistenza attraverso la pratica della rapina, e la chiama ‘tassazione’. Il libertario sostiene che il fatto che tali nefandezze vengano o meno sancite dalla maggioranza della popolazione non altera la loro vera natura. Ossia, a prescindere dalla ratifica popolare, la guerra è e rimane omicidio di massa, la coscrizione è schiavitù, la tassazione è rapina. Il libertario, in breve, è quel bambino della favola che con insistenza ribadisce che l’imperatore è nudo”. 

Più avanti, Rothbard affronta il tema dei diritti civili, partendo da quella libertà di espressione che il libertario deve difendere senza riserve, eccetto casi particolari come l’incitamento alla sommossa. Libertà che va tutelata perfino nei campi più spinosi e controversi, come nella pornografia, nella prostituzione, nell’aborto. “No victims, no crimes” è il motto del libertario: se non c’è vittima, non c’è crimine. Non è compito dello stato rendere gli individui moralmente irreprensibili. Drogarsi fa male, così come abusare di alcolici, assumere troppi grassi, prendere troppo sole o fumare tabacco. Ma lo stato dovrebbe lasciare libera una persona anche di nuocere a se stessa, pagandone le conseguenze.

L’idea che sia più vantaggioso vivere di carità pubblica che lavorare ed essere tassati, se le tasse aumentano per finanziare l’assistenzialismo

 

Da ultimo, la polemica di Rothbard contro l’assistenzialismo statale è rovente. Contro un assistenzialismo sempre più presentato come un diritto, laddove se l’imposizione fiscale aumenta per finanziarlo, è evidente che sarà considerato più vantaggioso vivere di carità pubblica piuttosto che lavorare e essere tassati. Un tempo – osserva – vivere alle spalle della produzione nazionale era percepito dal beneficiario stesso come un marchio d’infamia, come qualcosa di cui vergognarsi. E un tempo il ruolo tipico dell’operatore sociale era quello di aiutare i bisognosi ad aiutarsi da sé, a trovare un impiego e a camminare con le proprie gambe. Ora, invece, l’operatore sociale “liberal” si limita a una illustrazione burocratica dei sussidi che spettano a chi si trova in difficoltà,  contribuendo più o meno consapevolmente a ingrossare le liste dei disoccupati. È lecito il sospetto che queste riflessioni, sviluppate da Rothbard esattamente mezzo secolo fa, almeno in parte valgano oggi anche per il nostro paese.

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