dall'atlantic

Il medio oriente capovolto

Simon Sebag Montefiore

Il senso di colpa dell’occidente genera mostri. Così, per la sinistra delle università americane e della piazza globale, Israele è diventato l’incarnazione dell’occidente malvagio e imperialista. E i terroristi di Hamas, in quanto suoi nemici, una forza del bene. Un saggio su un’ideologia falsa e pericolosa

La pace nel conflitto israelo-palestinese era già difficile da raggiungere prima del barbaro attacco di Hamas del 7 ottobre e della risposta militare di Israele. Ora sembra quasi impossibile, ma la sua essenza è più chiara che mai: in definitiva, un negoziato per istituire uno stato di Israele sicuro accanto a uno stato palestinese sicuro. A prescindere dalle enormi complessità e sfide per realizzare questo futuro, una verità dovrebbe essere ovvia tra le persone oneste: uccidere 1.400 persone e rapirne più di 200, tra cui decine di civili, è stato profondamente sbagliato. Se si esclude il fatto che è stato registrato in tempo reale e pubblicato sui social media, l’attacco di Hamas assomigliava a un’incursione mongola medievale, per il massacro e i trofei umani mostrati. Eppure, dal 7 ottobre accademici, studenti, artisti e attivisti occidentali hanno negato, giustificato o addirittura celebrato gli omicidi compiuti da una setta terroristica che proclama un programma genocida antiebraico. Alcune di queste cose avvengono alla luce del sole, altre dietro le maschere dell’umanitarismo e della giustizia, altre ancora in codice, il più famoso è “dal fiume al mare”, una frase agghiacciante che implicitamente sostiene l’uccisione o la deportazione di 9 milioni di israeliani. Sembra strano che si debba dire: uccidere civili, anziani, persino bambini, è sempre sbagliato. Ma oggi bisogna dirlo.  Come possono persone istruite giustificare una tale insensibilità e abbracciare una tale disumanità? In questo caso sono in gioco molti fattori, ma gran parte delle giustificazioni per l’uccisione di civili si basa su un’ideologia alla moda, la “decolonizzazione”, che, presa alla lettera, esclude la negoziazione di due stati – l’unica vera soluzione a questo secolo di conflitti – ed è tanto pericolosa quanto falsa.  Mi sono sempre chiesto quali fossero gli intellettuali di sinistra che sostenevano Stalin e gli aristocratici simpatizzanti e gli attivisti pacifisti che scusavano Hitler. Gli apologeti di Hamas e negazionisti delle atrocità di oggi, con le loro roboanti denunce del “colonialismo”, appartengono alla stessa tradizione, ma peggio: hanno  abbondanti prove del massacro di anziani, adolescenti e bambini, ma a differenza di quegli sciocchi degli anni Trenta, che si sono lentamente avvicinati alla verità, non hanno cambiato di una virgola le loro opinioni. La mancanza di decenza e di rispetto per la vita umana è sorprendente: quasi immediatamente dopo l’attacco di Hamas, è emersa una legione di persone che hanno minimizzato il massacro, o hanno negato che siano avvenute delle vere e proprie atrocità, come se Hamas avesse semplicemente condotto una tradizionale operazione militare contro dei soldati. I negazionisti del 7 ottobre, come quelli dell’Olocausto, vivono in un mondo particolarmente oscuro.


La narrativa della decolonizzazione ha disumanizzato gli israeliani al punto che persone altrimenti razionali giustificano, negano o sostengono la barbarie. Una narrativa che sostiene che Israele sia una forza “imperialista-colonialista”, che gli israeliani siano “colonialisti” e che i palestinesi abbiano il diritto di eliminare i loro oppressori. (Il 7 ottobre abbiamo tutti imparato cosa significa). E che configura gli israeliani come “bianchi” e i palestinesi come “persone di colore”. Questa ideologia, potente nell’accademia ma da tempo in attesa di una seria contestazione, è un mix tossico e storicamente privo di senso di teoria marxista, propaganda sovietica e antisemitismo tradizionale del Medioevo e del XIX secolo. Ma il suo motore attuale è la nuova analisi identitaria, che guarda alla storia attraverso un concetto di razza che deriva dall’esperienza americana. La tesi è che è quasi impossibile che gli “oppressi” siano essi stessi razzisti, così come è impossibile che un “oppressore” sia oggetto di razzismo. Gli ebrei quindi non possono subire il razzismo, perché sono considerati “bianchi” e “privilegiati”; anche se non possono essere vittime, possono sfruttare e sfruttano altre persone meno privilegiate, in occidente attraverso i peccati del “capitalismo di sfruttamento” e in medio oriente attraverso il “colonialismo”.  Questa analisi di sinistra, con la sua gerarchia di identità oppresse – e con il suo gergo intimidatorio, un indizio della sua mancanza di rigore fattuale – ha sostituito in molte parti del mondo accademico  e dei media i tradizionali valori universalisti della sinistra, compresi gli standard internazionalisti di decenza e rispetto per la vita umana e la sicurezza dei civili innocenti. Quando questa analisi goffa si scontra con la realtà del medio oriente, perde qualsiasi contatto con i fatti storici. In effetti, è necessario un sorprendente salto nel buio storico per ignorare la storia del razzismo antiebraico nel corso dei due millenni  dalla caduta del Secondo Tempio nel 70 d.C. Dopo tutto, il massacro del 7 ottobre si colloca tra le uccisioni di massa medievali di ebrei nelle società cristiane e islamiche, i massacri di Khmelnytsky nell’Ucraina del 1640, i pogrom russi dal 1881 al 1920 e l’Olocausto. Persino l’Olocausto viene talvolta frainteso – come fece l’attrice Whoopi Goldberg – come se “non avesse a che fare con la razza”, un approccio tanto ignorante quanto ripugnante. Contrariamente alla narrazione della decolonizzazione, Gaza non è tecnicamente occupata da Israele, non nel senso usuale di suoi soldati sul terreno. Israele ha evacuato la Striscia nel 2005, rimuovendo tutti i suoi insediamenti. Nel 2007 Hamas ha preso il potere, uccidendo i suoi rivali di Fatah in una breve guerra civile. Hamas ha istituito uno stato monopartitico che schiaccia l’opposizione palestinese all’interno del suo territorio, proibisce le relazioni omosessuali, reprime le donne e sposa apertamente l’uccisione di tutti gli ebrei.  Ben strana compagnia per la sinistra.  


Naturalmente, alcuni manifestanti che cantano “dal fiume al mare” potrebbero non avere idea di cosa stiano davvero chiedendo; sono ignoranti e credono di stare semplicemente sostenendo la “libertà”. Altri negano di essere filo-Hamas, insistendo sul fatto che sono semplicemente filo-palestinesi, ma sentono il bisogno di considerare il massacro di Hamas come una risposta comprensibile all’oppressione “coloniale” israelo-ebraica. Altri ancora sono negazionisti maligni che cercano la morte dei civili israeliani.  La tossicità di questa ideologia è ormai evidente. Intellettuali un tempo rispettabili hanno spudoratamente discusso se 40 bambini siano stati smembrati o se un numero più basso sia stato semplicemente sgozzato o bruciato vivo. Gli studenti ora strappano regolarmente i volantini dei bambini tenuti in ostaggio da Hamas. È difficile comprendere una tale disumanità senza cuore. La nostra definizione di crimine d’odio è in continua espansione, ma se questo non è un crimine d’odio, cosa lo è? Cosa sta succedendo nelle nostre società? Qualcosa è andato storto. In un’ulteriore svolta razzista, gli ebrei sono ora accusati degli stessi crimini che essi stessi hanno subìto. Da qui la costante rivendicazione di un “genocidio”, quando nessun genocidio ha avuto luogo o è stato voluto. Israele, insieme all’Egitto, ha imposto un blocco su Gaza da quando Hamas ne ha preso il controllo e ha periodicamente bombardato la Striscia come rappresaglia per i consueti attacchi missilistici. Dopo che Hamas e i suoi alleati hanno lanciato più di 4.000 razzi contro Israele, la guerra di Gaza del 2014 ha provocato la morte di oltre duemila palestinesi. Secondo Hamas, finora in questa guerra sono morti più di 7.000 palestinesi, tra cui molti bambini. Si tratta di una tragedia, ma non di un genocidio, una parola che ormai è stata talmente svalutata dal suo abuso metaforico da essere diventata priva di significato.  Devo anche dire che il governo israeliano sui territori occupati della Cisgiordania è diverso e, a mio avviso, inaccettabile, insostenibile e ingiusto. I palestinesi in Cisgiordania sopportano un’occupazione dura, ingiusta e oppressiva dal 1967. I coloni sotto il vergognoso governo di Benjamin Netanyahu hanno molestato e perseguitato i palestinesi in Cisgiordania: 146 palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono stati uccisi nel 2022 e almeno 153 nel 2023 prima dell’attacco di Hamas, e più di 90 da allora. Ancora una volta: questo è spaventoso e inaccettabile, ma non è un genocidio.


Sebbene ci sia un forte istinto a rendere tutto questo un “genocidio” che ricorda l’Olocausto, non lo è: i palestinesi soffrono per molte cose, tra cui l’occupazione militare; le intimidazioni e le violenze dei coloni; una leadership politica palestinese corrotta; l’insensibile negligenza da parte dei loro fratelli in più di venti stati arabi; il rifiuto da parte di Yasser Arafat, il defunto leader palestinese, di piani di compromesso che avrebbero visto la creazione di uno stato palestinese indipendente, e così via. Niente di tutto ciò costituisce un genocidio, o qualcosa di simile a un genocidio. L’obiettivo israeliano a Gaza, anche per ragioni pratiche, è quello di ridurre al minimo il numero di civili palestinesi uccisi. Hamas e organizzazioni affini hanno abbondantemente chiarito nel corso degli anni che massimizzare il numero di vittime palestinesi è nel loro interesse strategico. (Mettiamo da parte tutto questo e consideriamo che la popolazione ebraica mondiale è ancora inferiore a quella del 1939, a causa dei nazisti. La popolazione palestinese è cresciuta e continua a crescere. La contrazione demografica è un evidente indicatore di genocidio. In totale, circa 120.000 arabi ed ebrei sono stati uccisi nel conflitto israelo-palestinese dal 1860. Un dato in contrasto con le 500.000 vittime, almeno, soprattutto civili, della guerra civile siriana dal suo inizio, nel 2011).  Se l’ideologia della decolonizzazione, insegnata nelle nostre università come teoria della storia e gridata nelle nostre strade come evidentemente giusta, travisa gravemente la realtà attuale, riflette forse la storia di Israele come pretende di fare? Non è così. Anzi, non descrive accuratamente né la fondazione di Israele né la tragedia dei palestinesi. Secondo i decolonizzatori, Israele è ed è sempre stato uno stato  illegittimo perché è stato promosso dall’impero britannico e perché alcuni dei suoi fondatori erano ebrei nati in Europa. In questa narrazione, Israele è macchiato dalla promessa non mantenuta della Gran Bretagna imperiale di garantire l’indipendenza degli arabi, e dalla promessa mantenuta di sostenere una “patria nazionale per il popolo ebraico”, nel linguaggio della Dichiarazione Balfour del 1917. Ma la presunta promessa agli arabi era in realtà un ambiguo accordo del 1915 con Sharif Hussein della Mecca, che voleva che la sua famiglia hashemita governasse l’intera regione. In parte, non ricevette questo nuovo impero perché la sua famiglia aveva un sostegno regionale molto inferiore a quello da lui dichiarato. Tuttavia, alla fine la Gran Bretagna consegnò alla famiglia tre regni: Iraq, Giordania e Hejaz.  Le potenze imperiali – Gran Bretagna e Francia – hanno fatto ogni sorta di promessa a diversi popoli, per poi anteporre i propri interessi. Le promesse fatte agli ebrei e agli arabi durante la Prima guerra mondiale erano simili. In seguito, promesse simili vennero fatte ai curdi, agli armeni e ad altri popoli, nessuna delle quali si realizzò. Ma la narrazione principale secondo cui la Gran Bretagna avrebbe tradito la promessa araba e sostenuto quella ebraica è incompleta. Negli anni Trenta, la Gran Bretagna si rivoltò contro il sionismo e dal 1937 al 1939 si orientò verso uno stato arabo senza alcun ebreo. Fu una rivolta armata ebraica, dal 1945 al 1948, contro la Gran Bretagna imperiale, a liberare lo stato.


Israele esiste grazie a questa rivolta, al diritto internazionale e alla cooperazione, qualcosa a cui un tempo la sinistra credeva. L’idea di una “patria” ebraica è stata proposta in tre dichiarazioni dalla Gran Bretagna (firmate da Balfour), dalla Francia e dagli Stati Uniti, poi promulgate in una risoluzione del luglio 1922 della Società delle Nazioni che ha creato i “mandati” britannici sulla Palestina e sull’Iraq che corrispondevano ai “mandati” francesi sulla Siria e sul Libano. Nel 1947 le Nazioni Unite idearono la spartizione del mandato britannico della Palestina in due stati, arabo ed ebraico. Anche la creazione di tali stati a partire da questi mandati non è stata un’eccezione. Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Francia concesse l’indipendenza alla Siria e al Libano, nuovi stati-nazione. La Gran Bretagna creò l’Iraq e la Giordania in modo simile. Le potenze imperiali hanno progettato la maggior parte dei paesi della regione, a eccezione dell’Egitto. Né la promessa imperiale di patrie separate per le diverse etnie o sette  era unica. I francesi avevano promesso stati indipendenti per drusi, alawiti, sunniti e maroniti, ma alla fine li unirono in Siria e Libano. Tutti questi stati erano stati “vilayet” e “sanjak” (province) dell’impero turco ottomano, governato da Costantinopoli, dal 1517 al 1918. Il concetto di “spartizione” è considerato, nella narrazione della decolonizzazione, un malvagio trucco imperiale. Ma era del tutto normale nella creazione degli stati-nazione  del  Ventesimo secolo, che in genere erano nati da imperi caduti. E purtroppo, la creazione di stati-nazione è stata spesso segnata da scambi di popolazione, enormi migrazioni di rifugiati, violenza etnica e guerre su larga scala. Si pensi alla guerra greco-turca del 1921-22 o alla spartizione dell’India nel 1947. In questo senso, il caso israelo-palestinese è stato tipico. 
Il cuore dell’ideologia della decolonizzazione è la categorizzazione di tutti gli israeliani, storici e attuali, come “colonizzatori”. Questo è semplicemente sbagliato.
La maggior parte degli israeliani discende da persone che sono emigrate in Terra santa dal 1881 al 1949. Non erano del tutto nuovi nella regione. Il popolo ebraico ha governato i regni della Giudea e ha pregato nel Tempio di Gerusalemme per mille anni, poi è stato sempre presente in numero minore per i successivi 2.000 anni. In altre parole, gli ebrei sono indigeni in Terra santa e, se si crede nel ritorno dei popoli esiliati alla loro patria, il ritorno degli ebrei è esattamente questo. Anche chi nega questa storia o la considera irrilevante per i tempi moderni deve riconoscere che Israele è ora la casa e l’unica casa di 9 milioni di israeliani che vivono lì da quattro, cinque, sei generazioni. Ad esempio, la maggior parte degli immigrati nel Regno Unito o negli Stati Uniti vengono considerati britannici o americani nel corso della loro vita. La politica di entrambi i paesi è piena di leader di spicco – Suella Braverman e David Lammy, Kamala Harris e Nikki Haley – i cui genitori o nonni sono emigrati dall’India, dall’Africa occidentale o dal Sud America. Nessuno li definirebbe “coloni”. Eppure, le famiglie israeliane che risiedono in Israele da un secolo sono definite “coloni”, pronti per essere uccisi e mutilati. E contrariamente a quanto sostengono gli apologeti di Hamas, l’etnia degli autori o delle vittime non giustifica mai le atrocità. Sarebbero atroci ovunque, commesse da chiunque abbia una storia. È sconcertante che spesso siano i sedicenti “antirazzisti” a sostenere esattamente questo omicidio per etnia.  

Chi è di sinistra ritiene che i migranti che fuggono dalle persecuzioni debbano essere accolti e autorizzati a costruirsi una vita altrove. Quasi tutti gli antenati degli israeliani di oggi sono fuggiti dalle persecuzioni. Se la narrazione “colono” non è vera, è vero che il conflitto è il risultato della brutale rivalità e della battaglia per la terra tra due gruppi etnici, entrambi con legittime pretese di viverci. Quando un numero maggiore di ebrei si è trasferito nella regione, gli arabi palestinesi, che vivevano lì da secoli e costituivano la netta maggioranza, si sono sentiti minacciati da questi immigrati. La rivendicazione palestinese della terra non è in dubbio, così come non lo è l’autenticità della sua storia e la legittima rivendicazione di un proprio stato. Ma inizialmente gli immigrati ebrei non aspiravano a uno stato, ma semplicemente a vivere e coltivare nella vaga “patria”. Nel 1918, il leader sionista Chaim Weizmann incontrò il principe hashemita Faisal Bin Hussein per discutere degli ebrei che vivevano sotto il suo governo come re della Siria. Il conflitto di oggi non era inevitabile. Lo è diventato quando le comunità si sono rifiutate di condividere e coesistere, per poi ricorrere alle armi.  Ancora più assurdo dell’etichetta di “colonizzatore” è il cliché dell’“essere bianchi” che è la chiave dell’ideologia della decolonizzazione. Ancora una volta: semplicemente sbagliato. Israele ha una grande comunità di ebrei etiopi, e circa la metà di tutti gli israeliani – cioè circa 5 milioni di persone – sono Mizrahi, discendenti di ebrei provenienti da terre arabe e persiane, popoli del medio oriente. Non si tratta di “coloni”, né di “colonialisti”, né di europei “bianchi”, ma di abitanti di Baghdad, del Cairo e di Beirut per  molti secoli, addirittura millenni, che furono cacciati dopo il 1948. Una parola su quell’anno, il 1948, l’anno della guerra d’indipendenza di Israele e della Nakba (“Catastrofe”) palestinese, che nel discorso della decolonizzazione equivale a una pulizia etnica. Ci fu infatti un’intensa violenza etnica da entrambe le parti quando gli stati arabi invasero il territorio e, insieme alle milizie palestinesi, cercarono di fermare la creazione di uno stato ebraico. Hanno fallito; ciò che alla fine hanno impedito è stata la creazione di uno stato palestinese, come previsto dalle Nazioni Unite. La parte araba ha cercato di uccidere o espellere l’intera comunità ebraica, con le stesse modalità omicide che abbiamo visto il 7 ottobre. E nelle aree conquistate dalla parte araba, come Gerusalemme Est, ogni ebreo è stato espulso.  In questa guerra brutale, gli israeliani hanno effettivamente cacciato alcuni palestinesi dalle loro case; altri sono fuggiti dai combattimenti; altri ancora sono rimasti e ora sono arabi israeliani che hanno diritto di voto nella democrazia israeliana. (Circa il 25 per cento degli israeliani di oggi sono arabi e drusi). Circa 700.000 palestinesi hanno perso le loro case. Si tratta di una cifra enorme e di una tragedia storica. A partire dal 1948, circa 900.000 ebrei persero le loro case nei paesi islamici e la maggior parte di loro si trasferì in Israele. Questi eventi non sono direttamente paragonabili e non intendo proporre una gara di tragedie o una gerarchia del vittimismo Ma il passato è molto più complicato di quanto i decolonizzatori vogliano far credere. Da questo imbroglio è emerso uno stato, Israele, e uno no, la Palestina. La sua formazione è attesa da tempo. 


È bizzarro come un piccolo stato del medio oriente attiri così tanta attenzione in occidente, tanto da spingere  gli studenti a correre per le scuole della California gridando “Palestina libera”. Ma la Terra Santa occupa un posto eccezionale nella storia dell’occidente. È radicata nella nostra coscienza culturale, grazie alla Bibbia ebraica e cristiana, alla storia dell’ebraismo, alla fondazione del cristianesimo, al Corano e alla creazione dell’Islam, e alle Crociate che, insieme, hanno fatto sentire gli occidentali coinvolti nel suo destino. Il primo ministro britannico David Lloyd George, il vero architetto della Dichiarazione Balfour, era solito dire che i nomi dei luoghi in Palestina “mi erano più familiari di quelli del fronte occidentale”. Questa speciale affinità con la Terra Santa ha inizialmente favorito il ritorno degli ebrei, ma ultimamente ha funzionato contro Israele. Gli occidentali, desiderosi di denunciare i crimini dell’imperialismo euro-americano, ma incapaci di offrire un rimedio, si sono coalizzati, spesso senza una reale conoscenza della storia, attorno a Israele e alla Palestina come il più vivido esempio mondiale di ingiustizia imperialista. Il mondo aperto delle democrazie liberali – o l’occidente, come veniva chiamato una volta – è oggi polarizzato da una politica paralizzata, da piccole ma feroci faide culturali sull’identità e sul genere, e dal senso di colpa per i successi e i peccati storici, una colpa che viene stranamente espiata mostrando simpatia, o addirittura attrazione, per i nemici dei nostri valori democratici. In questo scenario, le democrazie occidentali sono sempre cattive, ipocrite e neo-imperialiste, mentre le autocrazie straniere o le sette terroristiche come Hamas sono nemiche dell’imperialismo e quindi sincere forze del bene. In questo scenario capovolto, Israele è una metafora vivente e una penitenza per i peccati dell’occidente. Il risultato è un attento esame di Israele e il modo in cui viene giudicato, utilizzando standard raramente raggiunti da qualsiasi nazione in guerra, compresi gli Stati Uniti. Ma la narrazione della decolonizzazione è molto peggio di uno studio basato su doppi standard; disumanizza un’intera nazione e giustifica, addirittura celebra, l’omicidio di civili innocenti. Come hanno dimostrato queste ultime due settimane, la decolonizzazione è ormai la versione autorizzata della storia in molte delle nostre scuole e istituzioni apparentemente umanitarie, nonché tra  artisti e intellettuali. Viene presentata come storia, ma in realtà è una caricatura, una storia zombie con il suo arsenale di gergo – segno di un’ideologia coercitiva, come sosteneva Foucault – e la sua narrativa autoritaria di cattivi e vittime. E si regge solo in un panorama in cui gran parte della storia reale viene soppressa e in cui tutte le democrazie occidentali sono attori in malafede. Sebbene manchi della sofisticatezza della dialettica marxista, la sua ipocrita certezza morale impone un quadro morale su una situazione complessa e intrattabile, che alcuni potrebbero trovare consolante. Ogni volta che leggete un libro o un articolo che usa l’espressione “colonialista”, avete a che fare con una polemica ideologica, non con la storia. 


In definitiva, questa narrazione zombie è un vicolo cieco morale e politico che porta al massacro e allo stallo. Questo non sorprende, perché si basa su una storia fasulla: “Un passato inventato non può mai essere usato”, ha scritto James Baldwin. “Si incrina e si sgretola sotto le pressioni della vita come l’argilla”.  Anche quando la parola decolonizzazione non compare, questa ideologia è radicata nella copertura mediatica di parte del conflitto e pervade le recenti condanne di Israele. Gli studenti che esultano in risposta al massacro di Harvard, dell’Università della Virginia e di altre università; il sostegno a Hamas da parte di artisti e attori, insieme alle ambigue dichiarazioni dei leader di alcuni dei più famosi istituti di ricerca americani, hanno mostrato una scioccante mancanza di moralità, umanità e decenza. Un esempio ripugnante è stata una lettera aperta firmata da migliaia di artisti, tra cui famosi attori britannici come Tilda Swinton e Steve Coogan. La lettera metteva in guardia dagli imminenti crimini di guerra israeliani, ignorando totalmente il casus belli: il massacro di 1.400 persone. Il conflitto israelo-palestinese è disperatamente difficile da risolvere e la retorica della decolonizzazione rende ancora meno probabile il compromesso negoziale che rappresenta l’unica via d’uscita. Fin dalla sua fondazione nel 1987, Hamas ha utilizzato la tecnica dell’omicidio di civili per rovinare ogni possibilità di una soluzione a due stati. Nel 1993, i suoi attentati suicidi contro i civili israeliani avevano lo scopo di distruggere gli accordi di Oslo che riconoscevano Israele e la Palestina. Il 7 ottobre i terroristi di Hamas hanno scatenato il loro massacro anche per minare una pace con l’Arabia Saudita che avrebbe migliorato la politica e il tenore di vita dei palestinesi e rinvigorito la sclerotica rivale di Hamas, l’Autorità palestinese. In parte, sono serviti all’Iran per impedire il rafforzamento dell’Arabia Saudita, e le loro atrocità sono state ovviamente una  trappola spettacolare per provocare la reazione eccessiva di Israele. Molto probabilmente stanno realizzando il loro desiderio, ma per farlo stanno cinicamente sfruttando degli innocenti palestinesi come sacrificio a fini politici, un secondo crimine contro i civili. Allo stesso modo, l’ideologia della decolonizzazione, con la sua negazione del diritto di Israele a esistere e del diritto del suo popolo a vivere in sicurezza, rende meno probabile, se non impossibile, la nascita di uno stato palestinese. 
 Il problema nei nostri paesi è più facile da risolvere: La società civile e la maggioranza scioccata dovrebbero ora farsi valere. Le follie radicali degli studenti non devono allarmarci più di tanto: gli studenti sono sempre entusiasti degli estremi rivoluzionari. Ma le indecenti celebrazioni a Londra, Parigi e New York e la chiara riluttanza dei leader delle principali università a condannare gli omicidi hanno messo in luce il costo di trascurare questo problema e di lasciare che la “decolonizzazione” colonizzi la nostra accademia.  I genitori e gli studenti possono trasferirsi in università che non sono guidate da equivoci e pattugliate da negazionisti e pazzi; i donatori possono ritirare la loro generosità in massa, e questo sta già iniziando negli Stati Uniti. I filantropi possono ritirare i finanziamenti alle fondazioni umanitarie guidate da persone che sostengono i crimini di guerra contro l’umanità (contro vittime selezionate per razza). Il pubblico può facilmente decidere di non guardare i film con attori che ignorano l’uccisione dei bambini; gli studi cinematografici non sono obbligati ad assumerli. E nelle nostre accademie, questa ideologia velenosa, seguita da maligni e sciocchi ma anche da persone alla moda e ben intenzionate, è diventata una posizione di default. Deve perdere la sua rispettabilità, la sua mancanza di autenticità come storia. La sua nullità morale è stata smascherata sotto gli occhi di tutti.
Ancora una volta, gli studiosi, gli insegnanti, la nostra società civile e le istituzioni che finanziano e regolano le università e gli enti di beneficenza devono sfidare un’ideologia tossica e disumana che non ha alcuna base nella storia reale o nel presente della Terra Santa e che giustifica persone altrimenti razionali a giustificare lo smembramento di bambini. 
 
Israele ha fatto molte cose dure e cattive. Il governo di Netanyahu, il peggiore della storia israeliana, tanto inetto quanto immorale, promuove un ultranazionalismo massimalista che è inaccettabile e poco saggio. Tutti hanno il diritto di protestare contro le politiche e le azioni di Israele, ma non di promuovere sette terroristiche, l’uccisione di civili e la diffusione di un minaccioso antisemitismo. 
 I palestinesi hanno rimostranze legittime e hanno sopportato molte brutali ingiustizie.
Ma entrambe le loro entità politiche sono assolutamente imperfette: l’Autorità palestinese, che governa il 40 per cento della Cisgiordania, è moribonda, corrotta, inetta e generalmente disprezzata – e i suoi leader sono stati altrettanto spregevoli quanto quelli di Israele. Hamas è una diabolica setta assassina che si nasconde tra i civili,  sacrificandoli sull’altare della resistenza – come hanno dichiarato apertamente nei giorni scorsi molte voci arabe moderate, in modo molto più duro degli apologeti di Hamas in occidente. “Condanno categoricamente il fatto che Hamas prenda di mira i civili”, ha dichiarato la settimana scorsa il veterano statista saudita principe Turki bin Faisal. “Condanno anche Hamas per aver dato il primato morale a un governo israeliano che è universalmente evitato persino da metà dell’opinione pubblica israeliana... Condanno Hamas per aver sabotato il tentativo dell’Arabia Saudita di raggiungere una soluzione pacifica alla difficile situazione del popolo palestinese”. In un’intervista con Khaled Meshaal, membro del politburo di Hamas, il giornalista arabo Rasha Nabil ha sottolineato il sacrificio di Hamas del proprio stesso popolo per i suoi interessi politici. Meshaal ha sostenuto che questo è solo il costo della resistenza: “Trenta milioni di russi sono morti per sconfiggere la Germania”, ha detto.  Nabil è un esempio per i giornalisti occidentali che difficilmente osano sfidare Hamas e i suoi massacri. Nulla è più paternalistico e persino orientalista della romanticizzazione dei macellai di Hamas, che molti arabi disprezzano. La negazione delle loro atrocità da parte di molti in occidente è un tentativo di creare eroi accettabili da un’organizzazione che smembra i bambini e profana i corpi delle ragazze uccise. È un tentativo di salvare Hamas da se stesso. Forse gli apologeti di Hamas in occidente dovrebbero ascoltare le voci arabe moderate invece di una setta terroristica fondamentalista.  Le atrocità di Hamas lo collocano, come lo Stato islamico e al Qaida, come un abominio al di là della tolleranza. Israele, come ogni stato, ha il diritto di difendersi, ma deve farlo con grande attenzione e con perdite minime di civili, e sarà difficile distruggere Hamas anche con un’incursione militare completa. Nel frattempo, Israele deve limitare le sue ingiustizie in Cisgiordania – o rischia di autodistruggersi – perché in ultima analisi deve negoziare con i palestinesi moderati. 


Intanto, la guerra si svolge tragicamente. Mentre scrivo, il martellamento di Gaza uccide ogni giorno bambini palestinesi, e questo è insopportabile. Mentre Israele piange ancora le perdite e seppellisce i suoi bambini, deploriamo l’uccisione di civili israeliani così come deploriamo l’uccisione di civili palestinesi. Rifiutiamo Hamas, malvagio e inadatto a governare, ma non confondiamo Hamas con il popolo palestinese, di cui piangiamo le perdite così come piangiamo la morte di tutti gli innocenti. Nel più ampio arco della storia, a volte eventi terribili possono scuotere posizioni fortificate: Anwar Sadat e Menachem Begin fecero pace dopo la guerra dello Yom Kippur; Yitzhak Rabin e Yasser Arafat fecero pace dopo l’Intifada. I crimini diabolici del 7 ottobre non saranno mai dimenticati, ma forse, negli anni a venire, dopo la dispersione di Hamas, dopo che il netanyahuismo sarà solo un ricordo catastrofico, israeliani e palestinesi tracceranno i confini dei loro stati, temprati da 75 anni di uccisioni e storditi dalla carneficina di Hamas avvenuta in un fine settimana, nel riconoscimento reciproco. Non c’è altro modo.

 

Traduzione di Priscilla Ruggiero

©️ 2021 The Atlantic Monthly Group, Inc. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency

Di più su questi argomenti: