Ansa  

E l'esilio doloroso divenne un esodo

 David Meghnagi

Lo stato di Israele era appena nato, e qui potevano rifugiarsi le masse espulse o in fuga dall’Iraq, dalla Siria, dalla Libia. L’ebraismo europeo era stato annientato, gli ebrei dell’oriente islamico salvarono il paese. Una storia di odio e di speranza

Ben prima che la polarizzazione dell’ostilità contro il nascente stato di Israele divenisse il collante ideologico del nazionalismo panarabo e panislamico, le manifestazioni di intolleranza e ostilità verso gli ebrei si erano susseguite lungo l’arco dell’Ottocento con tonalità crescente,  e di pari passo con il processo di emancipazione cui andarono incontro le minoranze della regione. La violenza che in seguito si è abbattuta sulle comunità ebraiche del mondo arabo, con la conseguente silenziosa fuga che ne è seguita, è il risultato di un processo cominciato molto prima della nascita di Israele, che per una serie di tragiche concatenazioni storiche ha finito per fare degli ebrei il capro espiatorio di tutti i mali che affliggono il mondo arabo e islamico.    
La guerra di distruzione scatenata dagli eserciti arabi contro il nascente stato di Israele fu il detonatore di un processo iniziato molto prima e che aveva radici profonde. Non essendo maturata dall’interno della società araba, per una sua trasformazione positiva, l’emancipazione degli ebrei non fu mai accettata come tale. Fu largamente considerata come la violazione di un ordine gerarchico considerato immutabile, un attacco ai valori dell’umma islamica e non come un valore positivo da  coltivare.  
Il sionismo venne dopo, fornendo una risposta alle fasce più povere  e diseredate della popolazione ebraica nel mondo arabo, a cui risposero in massa trasfigurando il dolore dell’esilio in un esodo.  
La demonizzazione degli ebrei e di Israele ha rappresentato  nel mondo arabo e islamico l’affermazione perversa di un’identità ferita alla ricerca di una grandezza perduta. Molti futuri leader del mondo arabo, da Nasser a Sadat, Saddam Hussein, Arafat hanno compiuto i loro primi passi politici nella Fratellanza musulmana, e hanno condiviso l’odio per gli ebrei e per i britannici.    
Fondata nel 1928 da Hassan el Banna, un insegnante egiziano, la Fratellanza musulmana contava alla fine degli anni Trenta dello scorso secolo almeno 500.000 aderenti nel solo Egitto con una  rete di sostenitori in tutto il vicino oriente. Precursori di Hamas, Hezbollah e Al Qaidah, i Fratelli musulmani propugnavano, con la loro ossessione al ritorno di una civiltà islamica incontaminata, una visione totalitaria che aveva molti  punti di contatto con le ideologie dei movimenti antisemiti europei. La ricostruzione del califfato abolito nel 1924 da Ataturk, dall’Indonesia al Marocco, li rendeva nemici acerrimi di qualunque tentativo di integrare i valori islamici con la tradizione liberale e democratica occidentale. 
In nome del panarabismo le élites cristiane del vicino oriente poterono illudersi di sfuggire allo statuto di inferiorità cui erano state condannate per secoli. Ma si trattò di una pausa che con il crollo dei regimi nazionalisti arabi  e l’ascesa dell’Islam politico vide la fine della presenza cristiana nella regione.  Dal 20 per cento che era alla fine dell’Ottocento nella regione, la minoranza cristiana è oggi ridotta a poco meno del 3 per cento. Nonostante l’antisemitismo ancora diffuso, e la viscerale ostilità ideologica e religiosa che ha caratterizzato per decenni le Chiese di oriente nei confronti degli ebrei, l’unico paese della regione in cui la comunità cristiana ha continuato a crescere di numero è Israele.
I movimenti panarabici e panislamici si sono sanguinosamente combattuti. Forti del sostegno dell’Unione Sovietica, i regimi nasseriano  e ba’athiano ricambiarono l’accusa di infedeltà  del regime wahhabita saudita accusandolo di appropriarsi indebitamente delle enormi ricchezze del mondo arabo.  Ma su un punto entrambi i movimenti furono per decenni convergenti e uniti: sull’idea che per gli ebrei nel mondo arabo non c’era più posto.
In un breve lasso di tempo una storia millenaria è diventata un flebile ricordo, cancellata dai libri di testi e dalla narrativa nazionale e  ideologicamente demonizzata. In Libia nemmeno i cimiteri furono risparmiati. A Gerusalemme nel periodo di dominazione giordana, le pietre tombali del grande cimitero ebraico furono utilizzate per il rifacimento delle strade. 
In Egitto, dei settantacinque-ottantamila ebrei presenti nel 1922, una percentuale non indifferente, se si tiene conto del numero complessivo della popolazione, la popolazione ebraica si era ridotta nel 2004 a circa cento persone.  Ambientando le sue opere in luoghi dove gli ebrei erano stati largamente presenti, il premio Nobel Mahfuz si astenne volutamente nei suoi romanzi da ogni riferimento.
 Per  secoli la città di Babilonia (l’attuale Bagdad) dove fu redatto il Talmud, era stata il principale centro di irradiazione dell’ebraismo diasporico. Gli ebrei iracheni avevano attivamente partecipato allo sviluppo della cultura e della civiltà araba in ogni ambito. Dall’economia all’avvocatura, dalla finanza  alla scienza, alla medicina e all’artigianato. Ma anche nei settori che toccavano più internamente l’identità collettiva: l’arte e la letteratura, la poesia e il cinema, il teatro e la musica. Salima Murad (1907-1974), una delle più note cantanti del mondo arabo, interpretò almeno cinquecento canti folkloristici che hanno allietato per decenni la vita di ogni casa araba. Ammirata e  ascoltata  dai suoi conterranei di ogni fede  per la sua capacità di interpretazione, dopo la grande fuga non abbandonò il paese. Sposata con un famoso cantante  e attore musulmano, restò in Iraq. C’è da chiedersi come abbia vissuto nel fondo della sua coscienza la perdita di un intero mondo di riferimenti.  Chi sa che cosa avrà pensato quando il regime iracheno, all’indomani della guerra del 1967, impiccò alcuni dei pochi ebrei rimasti nel paese esponendone il corpo in piazza. Con la folla che inneggiava e la gente che applaudiva. 
Tenuti in ostaggio, vivendo nel terrore,  dopo essere stati depredati,  gli ebrei iracheni  furono autorizzati a lasciare il paese.  partire con l’obiettivo di far collassare le fragili strutture dello stato ebraico, che all’epoca contava appena seicentomila abitanti ebrei.  Il furto dei beni della comunità era stato pianificato. Gli ebrei che volevano partire dovevano registrarsi entro una certa data, rinunciando alla cittadinanza irachena. I beni degli ebrei furono svenduti e musulmani e cristiani ne fecero incetta. Ma il ricavato non andò a chi svendendo i suoi beni, fuggiva per ricostruire una vita altrove.  Il ricavato  passò allo stato che si ripagò delle spese della guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente stato ebraico. Con la pulizia etnica si appropriarono dei beni degli ebrei, cancellando la memoria della loro presenza nel paese. Ma fecero male i loro calcoli e non ottennero  l’effetto sperato di minare alle radici il nascente stato di Israele.   
Ma il regime iracheno, se aveva intenzione di scaricare sul nascente stato ebraico una massa di profughi con l’obiettivo di farlo implodere dall’interno, aveva fatto male i suoi calcoli. Per una eterogenesi dei fini contribuì a rafforzarne le fragili strutture. L’arrivo in Israele di 108 mila profughi ebrei dall’Iraq, in aggiunta ai venticinquemila fuggiti clandestinamente nel periodo in cui fu vietato loro di lasciare il paese, non provocò il collasso delle strutture dello stato ebraico appena nato.  Al contrario rappresentarono un elemento propulsivo per la rinascita della nazione ebraica.
 In Iraq come in Siria, in Libia e in ogni altra parte del mondo arabo e islamico, le espulsioni e la fuga in massa furono largamente sublimate e trasfigurate. L’esilio più doloroso  divenne un esodo. La realtà più dolorosa fu colorata di sogno e resa più sopportabile. Per le antiche comunità dello Yemen, perseguitate dall’Islam sin dalla sua origine, gli aerei su cui gli ebrei salivano per raggiungere Israele, dopo avere attraversato il deserto ed essere stati depredati dai predoni, erano le ali delle aquile che  secondo le profezie di Isaia avrebbe ricondotto i resti  un’intera nazione alla Terra dei padri. Un sogno secolare alimentato dalla speranza tenuta in vita attraverso le generazioni e che fu la vera forza nei tempi bui della persecuzione.   
 Gli ebrei di Libia dopo sanguinosi pogrom (prima c’erano state le leggi razziste fasciste), salendo sulle navi che li avrebbero portati in Israele, intonarono la Cantica dell’esodo. La fuga degli ebrei iracheni si ammantò dei nobili nomi di Ezra e Nehemia e del racconto biblico del ritorno di Israele dopo i settant’anni dell’esilio in Babilonia.  L’arrivo in massa degli ebrei dal mondo arabo in Israele fu una risorsa preziosa e irrinunciabile, perché il progetto di ricostruzione nazionale ebraica non andasse perso nei flutti della storia. L’ebraismo europeo era stato annientato. Con la loro risposta, la capacità di sopportare la vita nelle tende e nelle baracche come un sacrificio necessario per rinascere, gli ebrei dell’oriente islamico salvarono il futuro del paese. 
 L’Yshuv contava nel 1948 appena seicentomila abitanti. Una buona parte  era arrivata dall’Europa negli anni Trenta, prima del blocco dell’immigrazione ebraica voluto dalla Gran Bretagna  con il Libro Bianco del ‘39. Alle centinaia di migliaia di ebrei sopravvissuti al nazismo, che languivano i campi di raccolta europei in attesa di un luogo ospitale che li accogliesse, si aggiunsero dopo l’aggressione degli eserciti della Lega  araba al nascente stato di Israele oltre settecentomila ebrei fuggiti dai paesi arabi che, in mezzo a enormi difficoltà, ricostruirono le loro vite spezzate. Nel corso della guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba, Israele perse l’uno per cento della popolazione. Una percentuale pari ai caduti italiani della Prima guerra mondiale.  Pochi anni prima  c’era stata l’ecatombe nazista. Guidato dalla speranza in un futuro diverso il paese si riprese e creò una democrazia che resistette all’urto di altre guerre. Nel corso della guerra circa  settecentomila palestinesi lasciarono le case. In un contesto non avvelenato dall’odio ideologico e religioso, il dramma poteva essere composto. Attraverso gesti di riparazione reciproca era possibile comporre politicamente un dramma. Non diversamene da quanto accaduto fra India e Pakistan e altre tragiche realtà del dopoguerra, i problemi potevano essere politicamente affrontati e superati.  Ma per i regimi arabi, la ferita doveva restare per sempre aperta.  
 A differenza di quanto avvenne per i profughi palestinesi,  gli ebrei che fuggivano dal mondo arabo  furono considerati una benedizione, una motivazione in più per resistere all’impatto di una guerra in cui era in gioco la sopravvivenza. Guidata da un sogno secolare di riscatto, nell’arco di un decennio la popolazione ebraica del paese triplicò di numero, passando da  seicentomila a un milione e  ottocentomila abitanti. 
  La crescita esponenziale dell’ostilità antiebraica in ambito islamico è stata il risultato di una saldatura fra pregiudizi religiosi più antichi, imperniati su uno statuto religioso e politico di inferiorità delle minoranze religiose sottomesse e tollerate all’interno dell’umma islamica, con una lettura teologica e politica portata avanti dal radicalismo islamico, imperniata sull’idea di uno scontro radicale con la civiltà occidentale e con la conseguente demonizzazione degli ebrei e di Israele in un unicum indifferenziato. 
Ponendo l’accento su un richiamo religioso positivamente inteso, gli “Accordi di Abramo”, rappresentano un fatto nuovo con importanti implicazioni simboliche da non sottovalutare. Di là degli aspetti geopolitici, che hanno fatto da sfondo al recente avvicinamento tra il mondo sunnita e lo stato di Israele, gli  accordi  presentano una dimensione simbolica di natura religiosa che li differenzia, per molti aspetti, dagli accordi siglati in precedenza da Israele  con gli altri stati arabi della regione. Ed è anche per questo che gli accordi sono stati presi di mira da tutti coloro che per un motivo o per un altro sono ostili ad una composizione politica e religiosa dei conflitti che lacerano la regione.
Gli accordi di pace tra Egitto e Israele restarono per decenni una “pace fredda”. Si pensi alle trasmissioni televisive ispirate ai Protocolli dei Savi di Sion, un libello antisemita elaborato dalla polizia zarista, a cui Hitler si è ispirato e che nello statuto di Hamas è stato esplicitamente assunto come un dato storico fondato.  Oppure alle prediche d’odio nella preghiere del venerdì, argomentate con riferimenti ai testi sacri islamici contro “i figli di scimmie e di maiali”.  Privi di una legittimazione religiosa, gli accordi di Oslo furono considerati una hudna, “una tregua coranica” che non impegnava il futuro. Basti pensare alle affermazioni di Arafat in una moschea, all’indomani degli accordi di Oslo. Furono in molti anche in Israele a derubricare tali affermazioni come fossero un mero espediente tattico di Arafat ad uso interno, e non invece l’espressione di un programma politico e religioso. Non per caso a un incredulo Clinton, Arafat disse che qualunque compromesso su Gerusalemme, sarebbe dovuto passare prima per un referendum  che coinvolgesse l’intero mondo islamico. In forme diverse è accaduto con gli accordi di Oslo. Mentre il mondo libero festeggiava illusoriamente la pace, il “fronte del rifiuto” si organizzava per trasformare la vita in un inferno.  Per non parlare delle minacce di distruzione da parte del regime iraniano, rispetto alle quali una personalità autorevole dell’Unione europea, non rendendosi conto della gravità di quanto diceva, ha invitato qualche tempo fa a conviverci.
Restituendo un posto religiosamente e culturalmente riconosciuto agli ebrei nella regione, come nazione sovrana con cui operare e dialogare da posizioni paritarie (e non di subalternità ontologicamente intesa, come è accaduto per secoli nella civiltà islamica), il “Patto di Abramo” contiene al di là dei suoi limiti degli elementi positivi  che andrebbero culturalmente e religiosamente implementati. Con il successo degli accordi, verrebbero meno le motivazioni religiose di cui si alimentano l’odio e il terrorismo. La guerra scatenata da Hamas  con l’appoggio dell’Iran (che non perde giorno per minacciare Israele di distruzione)  ha tra i suoi obiettivi la liquidazione degli accordi che hanno riavvicinato in questi anni Israele a una parte importante del mondo sunnita.  
  “Chi vive in un’isola”, così recita un proverbio arabo, “deve farsi amico il mare”. Israele è una piccola isola in un oceano arabo e islamico che per decenni l’ha respinta e non l’ha mai realmente accettata. Nonostante l’odio e il rifiuto di cui è stato fatto oggetto, Israele è riuscito a svilupparsi e a crescere ed è questo che nel profondo non viene da molti perdonato. Ma non è ancora riuscito a vincere la sfida più difficile. Farsi amico il mare da cui è circondato, è per Israele una necessità storica e ineludibile. Non per compiacere chi  in nome della “pace”, chiede a Israele di suicidarsi  politicamente e militarmente, rinunciando alla propria difesa e protezione dei suoi cittadini.  Ma per il futuro dei suoi figli e per restare fedele alla propria storia. Ed è per questo che il mondo civile oggi non dovrebbe voltarsi indietro, cominciando a chiamare le cose per nome, rifuggendo false e ambigue equazioni, curando le parole di cui si alimentano la demonizzazione,  la delegittimazione e il doppio standard che fanno  da sfondo a un antisemitismo che riscopre una falsa innocenza declinandosi come “antirazzismo”.     
Aprirsi un varco nel cuore dei vicini, risanare le ferite aperte, restituire un significato al dolore e alla sofferenza, immaginare e costruire uno spazio per un futuro diverso e di pace, è per Israele una necessità, non solo politica: per restare fedeli a una storia e a una vocazione, pur nella consapevolezza di non possedere per intero gli strumenti per giungere a una composizione del conflitto con i suoi vicini. 
Per la saggezza ebraica, grande è chi riesce a trasformare il nemico in un amico. E’ una sfida che Israele dovrà vincere. L’accettazione piena di Israele e della sua esistenza nell’antica striscia di terra madre, come ebbe a chiamarla Freud in una struggente lettera all’amico Ferenczi, libererebbe l’Islam dalle pastoie di una lettura religiosa del conflitto arabo-israeliano e dal contenzioso israeliano-palestinese aprendo la via a un rinnovamento culturale e religioso per tutta la regione. Per quel che valgono alcune metafore, Israele è allo stesso tempo occidente e oriente. E’ il luogo in cui si incontrano civiltà diverse e tre monoteismi. Dipende anche da noi tutti se l’incontro nel pieno rispetto delle differenze potrà un giorno realizzarsi. Accettare l’esistenza di Israele è per la civiltà araba e islamica la condizione per rompere la catena di lutti in cui è avviluppata. Per Israele sarebbe la realizzazione delle aspirazioni più profonde che portarono generazioni di giovani a sacrificare le loro esistenze per gettare le basi di una rinascita della civiltà ebraica nei luoghi in cui prese corpo millenni prima.  L’esistenza di Israele è la condizione perché l’Europa nata dopo la catastrofe nazista, possa ancora dirsi tale. L’Europa e il mondo arabo, l’occidente e l’Islam, potranno parlarsi per davvero solo se Israele in pace con i vicini arabi e palestinesi, in piena sicurezza, sarà presente come testimone dei propri lutti e dei lutti che hanno insanguinato la regione.       

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