Foto Ap, via LaPresse

l'intervista

Dalle lacrime abbiamo sempre ricostruito. Parla Gil Troy

Micol Flammini

La risposta unita degli israeliani è la garanzia di sicurezza e di fiducia per il paese. Bisogna ripartire da qui, dice lo storico da Gerusalemme

Varsavia, dalla nostra inviata. “Come stai?” è una domanda che in questi giorni in Israele non può avere una risposta breve. Non esiste sto bene o sto male. Chi risponde racconta di amici scomparsi, dei corpi che sono stati identificati, di quanto è lunga la lista delle perdite personali, intime, di conoscenze. I telefonini che squillavano a vuoto iniziano a non squillare più, e anche l’elenco delle telefonate fatte a volte è una risposta alla domanda “come stai?”. Gil Troy è uno storico e politologo, insegna in diverse università americane e vive a Gerusalemme. Proprio ieri ha ricevuto la notizia che il corpo di un amico di suo figlio è stato identificato.

“Era un ragazzo con un sorriso enorme stampato in faccia. Il momento di gioia, il giusto desiderio di divertimento sono stati interrotti dalla voglia di distruzione e sangue”. Israele, dice Troy al Foglio, sta cambiando e sta reagendo, è un paese nuovo che non ha pensato neppure per un istante di fermarsi. “Uno, due o tre mesi fa, per ragioni politiche non si trovavano soldati, ora sono tornati tutti, anche le riserve. Chi viveva fuori non pensa neanche per un istante di rimanere lontano. Tutti capiscono che questa è una guerra e non è il momento di fare differenza tra destra e sinistra. Qui c’è solo una differenza ed è tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Tra fare o morire. L’effetto unità si sente, è di ispirazione per tutti”.

La prima risposta all’attacco di Hamas è arrivata proprio dagli israeliani, che hanno visto il loro mondo capovolto. Tutti si mobilitano, c’è chi torna nell’esercito, chi fa donazioni, chi aiuta nelle ricerche, l’idea è che quello che sta succedendo e ha  stravolto tutti adesso verrà sistemato  da tutti insieme. Nella coralità della risposta agli attacchi dei terroristi di Hamas sta la  strategia non detta del paese per ristabilire la propria sicurezza. “Piangiamo molto, ognuno di noi lo sta facendo continuamente dal 7 ottobre e continueremo a piangere, racconta Troy, ma la differenza tra noi e gli assassini, tra noi e Hamas, tra noi e i terroristi è anche che loro vedono nelle lacrime la nostra debolezza, noi no. Hanno ripreso e mostrato il nostro strazio, il nostro pianto, le nostre urla, ma non capiscono che ogni lacrima ci rafforza, perché mostra la voglia di vita che abbiamo”. La voglia di vivere del popolo israeliano, dice lo storico, è ciò che gli ha permesso di trasformare ogni lacrima in ricostruzione: “Lo abbiamo fatto anche dopo l’Olocausto”.  Troy non dice mai “palestinesi”, quando parla del male che viene fatto a Israele si riferisce sempre ad Hamas, alla sua voglia di distruzione, alla tecnica meschina di mostrare la sofferenza degli israeliani, di deriderla. “Non esiste più una divisione tra israeliani e arabi, le linee di un tempo sono scomparse, il mondo è andato avanti, adesso la differenza è tra costruttori e distruttori”.

Per Troy sono due mondi, quello della gioia, di chi vuole andare avanti, chi vuole migliorare, e quello della distruzione e del sangue. Molti dei ragazzi che erano al rave e sono sopravvissuti si sono trovati immersi nella prima guerra di Israele della loro vita. Avevano conosciuto il loro paese in uno stato di pace relativa, pace storta e interrotta da missili. Ora non c’è una generazione nello stato ebraico che non abbia conosciuto la guerra. Su Instagram un profilo curato da alcuni studenti mostra le testimonianze di chi è riuscito a fuggire dal rave: chi c’è l’ha fatta è perché ha corso più veloce degli altri, verso una direzione migliore, e ha trovato un rifugio verso il quale i terroristi non sono andati. Sono rimasti ore in silenzio, molti hanno raccontato che è accaduto tutto in fretta, ballavano e qualcosa è accaduto. Direbbe Troy: avevano voglia di vivere e i terroristi sono arrivati per portare via non soltanto la voglia ma la vita stessa. 

Sarà complesso ricominciare a vivere a fianco del vicino senza paura, sarà difficile recuperare la fiducia nei confronti delle proprie istituzioni. Racconta lo storico che il paese si è trovato di fronte a due grandi fallimenti: quello dell’esercito e quello del governo. “Il sistema ha fallito, ma non le persone. I cittadini hanno ricostruito la fiducia e si stanno muovendo per ripristinare il senso di sicurezza. Abbiamo bisogno di grandi cambiamenti, ma lo stiamo facendo tutti insieme. Siamo una democrazia, sappiamo bene che poi verrà il momento di analizzare gli errori, di far pagare gli errori. Ma adesso ci stiamo impegnando per vincere, ricostruire la fiducia, credere nella nostra sicurezza. Abbiamo un forte scopo comune, sappiamo per cosa potremmo morire, conosciamo le differenze tra noi e i terroristi. Per questo ce la faremo”. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.