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il personaggio

Tutte le donne di Kim Jong Un

Giulia Pompili

La sorella, la figlia, la ministra. Chi guiderà la Corea del nord dopo il dittatore in carica è un mistero che passa tra i missili balistici

A metà novembre dello scorso anno mezzo mondo ha gli occhi puntati sul sud-est asiatico. L’agenda prevede una serie di incontri diplomatici internazionali ad altissimo livello e in rapida successione: prima il G20 a Bali, poi l’Apec, il vertice dei paesi che fanno parte della Cooperazione economica Asia-Pacifico, a Bangkok. La mattina del 18 novembre del 2022 il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, si sveglia nella capitale thailandese. Poche ore prima, nel pomeriggio, aveva avuto una riunione particolarmente stressante: per la prima volta dall’inizio del suo mandato alla guida del governo aveva incontrato il leader cinese Xi Jinping. A metà mattina però, le preoccupazioni per un vertice bilaterale Giappone-Cina senza grandi risultati concreti vengono cancellate da un’altra notizia: la Corea del nord ha lanciato un missile balistico intercontinentale, l’ennesimo, che sta per inabissarsi nella Zona economica esclusiva giapponese, cioè quell’area che circonda le acque territoriali del paese. A Bangkok, Kishida convoca una riunione con i paesi “like minded”, cioè con i paesi amici: un paio di ore dopo si siedono al tavolo Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti, Han Duck-soo, primo ministro della Corea del sud, Anthony Albanese, primo ministro australiano, Justin Trudeau, primo ministro canadese e Jacinda Ardern, primo ministro della Nuova Zelanda. Due donne e quattro uomini assumono l’aria grave dell’emergenza, condannano “con fermezza” il lancio del missile balistico da parte della Corea del nord e lo definiscono “inaccettabile”.

A tremila chilometri di distanza verso nord-est, nelle stesse ore, sta succedendo qualcosa di straordinario per chiunque osservi da vicino gli affari nordcoreani. Kim Jong Un, il dittatore della Corea del nord, va in ispezione del nuovo gioiello del suo arsenale missilistico, che sarà lanciato qualche ora dopo. E’ molto probabilmente uno Hwasong-17 in fase di sviluppo, che può trasportare da tre a cinque testate nucleari e volare fino a 15 mila chilometri di distanza. E’ un sogno per il regime nordcoreano, perché a differenza degli altri due missili intercontinentali dell’arsenale, lo Hwasong-14 e Hwasong-15, questo potrebbe raggiungere tutto il territorio nazionale americano e perfino  eludere i sistemi di difesa. La deterrenza perfetta a garanzia della sopravvivenza del regime. Kim, come suo padre e come suo nonno, ama ispezionare il suo arsenale, essere presente ai test. Non lo fa sempre, ma quando lo fa è una notizia: è il corpo del leader che si manifesta davanti ai suoi sudditi, è lo show di potere e di forza. Ma è anche l’immagine protettiva del dittatore che dice ai suoi cittadini: guardate quanto ho lavorato per tenervi al sicuro. Ma è quel 18 novembre del 2022 che Kim si è trasformato nel buon padre di famiglia di tutti i nordcoreani. 

Nelle immagini diffuse dalla Kcna, l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana, si vede Kim che cammina davanti al gigantesco missile e una bambina che si stringe al suo braccio. Ha un cappottino bianco con pelliccia, le guance paffute, pantaloni neri e le scarpette ballerine rosse. Lei gli parla, lui amorevolmente abbassa la testa per ascoltarla meglio. Somiglia incredibilmente a sua madre, Ri Sol Ju, e a suo padre, Kim Jong Un, che le stringe la mano mentre camminano nella desolata area del test missilistico. Sono immagini sorprendenti, perché dentro c’è la figura del dittatore e dei suoi missili armati pronti alla guerra nucleare, e c’è quella apparentemente normale di un padre normale affettuoso con sua figlia.  

Kim Ju Ae ha dieci anni. O forse nove, o forse undici. Forse non si chiama nemmeno così. La verità è che non sappiamo quasi nulla di certo su di lei. A novembre è stata la prima volta che Kim Jong Un l’ha mostrata al mondo, ai cittadini nordcoreani e a noi. Fino a quel momento le intelligence internazionali sapevano soltanto che il leader nordcoreano aveva presumibilmente tre figli piccoli – a seconda delle fonti che si leggono, sono due maschi e una femmina o due femmine e un maschio – avuti con la moglie Ri Sol Ju.  Osservare con attenzione le fotografie pubblicate dalla Kcna, chi appare e chi no, quando lo fa e quanto è vicino al leader, è un esercizio importante per interpretare la Corea del nord, uno dei regimi più chiusi e autoritari al mondo. Tutto ciò che riguarda la famiglia del leader, in particolare, è di fondamentale importanza, e proprio per questo le notizie sui parenti stretti di Kim sono secretate. Sin dalla sua fondazione nel 1948 il potere nella Repubblica popolare democratica di Corea (è il nome formale della Corea del nord e sì, ha la parola “democratica” nel nome) è stato tramandato di padre in figlio: un’anomalia nel panorama dei regimi comunisti, che a Pyongyang, la capitale della Corea del nord, è stata giustificata attraverso la lenta costruzione di un mito, cioè la sacralità della linea di sangue del Monte Paektu.

Una narrazione romanzesca che ha gettato le basi ideologiche affinché dopo Kim Il Sung – il padre della patria, il Supremo leader infallibile ed eterno, nonno dell’attuale leader – il potere si trasferisse come in un regno. Il primo passaggio di potere, alla morte del Supremo leader, avvenne nel 1994 e fu abbastanza prevedibile. Sul trono di Pyongyang salì Kim Jong Il, una successione ritenuta piuttosto scontata, e la sua leadership durò fino alla sua morte, nel dicembre del 2011. Quando nessuna delle agenzie di spionaggio internazionali, nemmeno quelle americana, sudcoreana e giapponese, sapevano chi sarebbe stato, dei suoi sei figli, a prendere il potere. Kim Jong Un sembrava quello con meno possibilità, e invece fu il prescelto. Ecco perché oggi, a distanza di dodici anni da quel momento di oscurità molto pericoloso per gli equilibri mondiali,  tutti guardano con attenzione alla dinastia dei Kim: sorprendentemente, le più vicine al leader in questo momento (almeno quelle che il regime ci ha mostrato) e dotate della linea di sangue del Monte Paektu (quindi teoricamente legittimate alla leadership) sono due donne. 

Sung-Yoon Lee, accademico del Wilson Center di Washington e uno dei più influenti studiosi della Corea del nord, dice che uno dei passaggi fondamentali nella costruzione del mito della famiglia Kim moderna è avvenuto il 9 febbraio del 2018, quando tutte le televisioni sudcoreane hanno seguito in diretta il momento dell’atterraggio di un aereo nordcoreano all’aeroporto di Incheon: “La prima immagine dell’ospite, a seconda del canale televisivo, è arrivata dopo più di quaranta minuti dall’atterraggio”, scrive Lee nel suo libro “The Sister: North Korea’s Kim Yo Jong, the Most Dangerous Woman in the World” (Macmillan UK, 304 pp., 14.99 sterline) uscito in Europa il mese scorso. “Il capo nominale della missione nordcoreana, Kim Yong Nam, è uscito dall’edificio dell’aeroporto ed è salito sulla prima delle due berline nere, poi, all’ombra di un alto bodyguard nordcoreano e di una guardia del corpo sudcoreana, una donna di corporatura leggera ha percorso una dozzina di passi fino alla seconda auto. Lo sguardo fermo e la postura eretta, come se fosse a suo agio nell’essere al centro di un momento storico come questo”, scrive Lee.

Quel giorno, in occasione dell’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali di Pyeongchang, Kim Yo Jong, la sorella minore di Kim Jong Un, l’ultima figlia di Kim Jong Il, era appena diventata la prima persona “dal sangue del Monte Paektu”, quindi della dinastia Kim, a mettere piede su suolo sudcoreano sin dal 1950, ai tempi dell’invasione nordcoreana del Sud. Sin dal 2014 Kim Yo Jong guida il potente dipartimento di Propaganda e agitazione del Partito dei lavoratori di Corea, e dal settembre 2021 è anche l’unica donna membro della Commissione per gli Affari di stato della Corea del nord. Il libro di Sung-Yoon Lee è fondamentale per capire la costruzione dell’immagine di Kim Yo Jong, che fa il suo esordio diplomatico durante quelle Olimpiadi – quelle del disgelo – e poi resta una presenza costante sia nei viaggi di suo fratello sia autonomamente, soprattutto con dichiarazioni pubbliche, a volte violentissime. Le sue prime immagini sono simboliche: nel 2012, quando Kim Jong Un ha da poco preso il potere, viene fotografata mentre cavalca un cavallo bianco con la zia, Kim Kyong Hui. Poi, nel 2019, c’è la consacrazione del suo ruolo sempre più importante: questa volta viene fotografata a cavalcare un cavallo bianco ma in compagnia del fratello, e sul Monte Paektu. Ci fu un momento di grande fascinazione dei sudcoreani per la figura di Kim Yo Jong, con la sua immagine semplice e appropriata, di buone maniere: “Non è solo carina ma è pure educata!”, si sentiva dire dai commentatori in tv, scrive Lee. Eppure nei giorni successivi, soprattutto durante il suo primo incontro con l’allora presidente sudcoreano Moon Jae-in, fu lentamente chiaro l’atteggiamento “arrogante” e “annoiato” di Kim Yo Jong: era in Corea del sud solo per consegnare una lettera del fratello e chiedere altri aiuti economici e alimentari. 

L’impenetrabile sorriso di Kim Yo Jong è stato esposto alle analisi internazionali: sarà lei la prossima leader? In una cultura estremamente patriarcale e maschilista molti pensano di no, eppure il modo in cui la leadership nordcoreana sta mostrando al mondo e ai suoi sudditi i due membri della linea di sangue sacra farebbe pensare di sì. Di Kim Ju Ae, la figlioletta di Kim, sappiamo ancora meno, scrive Sung-Yoon Lee. Nel 2013 il cestista americano Dennis Rodman, noto anche per essere stato in Corea del nord ospite di Kim Jong Un, grande appassionato di basket, disse che il dittatore aveva una figlioletta, e che gli era stato concesso l’onore di tenerla in braccio. Rodman disse che si chiamava Ju Ae, un nome molto popolare tra i giovani nordcoreani perché significa “bellezza”. Un’altra fonte, però, più di recente ha smentito Rodman dicendo che la bambina si chiama in realtà Kim Ju Un, con il nome che è una combinazione dei due caratteri dei genitori (Ri Sol Ju e Kim Jong Un), e che Ju Ae potrebbe essere semplicemente un soprannome tenero. Quando il padre dell’attuale leader iniziò a mostrare al mondo il figlio prescelto per la successione, Kim Jong Un aveva più o meno l’età che ha oggi Kim Ju Ae. 

Per Chun Su-jin, giornalista sudcoreana pluripremiata che lavora da anni al quotidiano JoongAng, le fotografie del buon padre di famiglia Kim e di sua figlia Ju Ae sono un’arma di distrazione: il dittatore non riesce a sfamare i suoi cittadini, ma ha bisogno di attenzioni su di sé, attenzioni positive. In realtà la costruzione della successione più probabile resta quella della sorella Kim Yo Jong, perché è quella che ha lavorato di più per farlo, e alla quale è stata assegnata un’insegnante altrettanto potente. Choe Son Hui, classe 1964, è l’attuale ministra degli Esteri nordcoreana: una diplomatica seria e decisa, una che avrebbe fatto carriera in qualunque altro posto nel mondo, e però è nata a Pyongyang. “La signora Choe ha affrontato Jon Bolton”, ha scritto Chun Su-jin in un altro libro fondamentale per capire la leadership nordcoreana, uscito lo scorso anno, “North Korean Women in Power: Daughters of the Sun” (Hollym International, 167 pp., 18.000 won), “Ha affrontato Mike Pence e, naturalmente, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Un’immagine vale più di mille parole, si dice, ed ecco una foto di madame Choe, seduta spalla a spalla con il presidente Kim. E’ stata scattata la notte prima del secondo summit con il presidente Trump ed è stata diffusa dall’agenzia di stampa Kcna. In un regno come la Corea del nord, poter essere fisicamente vicini al leader è un simbolo di potere. Quindi la Kcna l’ha detto forte e chiaro. Ricordate Choe Son Hui. E’ lei la prescelta”. La prescelta naturalmente per accompagnare una nuova leadership, quella che vede la linea di sangue del Monte Paektu sempre al centro, e quindi Kim Yo Jong, sebbene una donna, sebbene supervisionata da un’altra donna. 

Nel suo libro, Chun Su-jin oltre della possibile prossima dittatrice nordcoreana racconta anche della fatica di essere una reporter che si occupa di Corea del nord in Corea del sud, delle limitazioni e delle sfide, di un regime che noi raccontiamo perché è fondamentale negli equilibri globali, e che a volte ci sembra un po’ esotico, lontano, difficilmente comprensibile per il pubblico – tanto che ormai, sui media internazionali, a fatica viene dato conto ogni volta dei test missilistici nordcoreani quando avvengono. Per i giornalisti sudcoreani la questione è completamente diversa: il paese che seguono è parte di loro, un posto dove si parla la stessa lingua e si mangiano le stesse cose. Molti di questi giornalisti, come Chun, hanno addirittura origini nordcoreane. Al sesto piano del Palazzo del governo di Seul, quello dedicato interamente al ministero dell’Unificazione di Seul, c’è una stanza, l’unica stanza dove i giornalisti e i funzionari possono guardare la tv nordcoreana, altrimenti censurata. E’ da lì che si segue ogni anno il discorso di Capodanno in diretta del leader, è da lì che Chun, e gli altri giornalisti, ha assistito in diretta all’annuncio della morte di Kim Jong Il e alla nascita di una terza generazione di dittatori. Nel libro, lei si augura che quel sesto piano, al momento del quarto passaggio di potere, non ci sarà più, perché vorrebbe dire che la divisione delle due Coree non esisterà più. E all’improvviso le immagini di Bangkok del novembre del 2018, dei leader democratici che si riuniscono per condannare la minaccia nordcoreana, sembrano così lontane e sbiadite.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.