l'indagine

La guerra delle spie

Se tutti sono spie, finisce che nessuno lo è. Oppure che lo sono davvero tutti: diplomatici, businessman, lobbisti, accademici, giornalisti

Giulia Pompili

Dalla Guerra fredda all’invasione dell’Ucraina fino alla sfida all’ordine del mondo a guida occidentale: come si è evoluta l’intelligence di Russia e Cina. E come procede il grande esperimento italiano. Da "A Spy Among Friends" su Sky a "La Stagione delle Spie" di Antonio Talia. "Libri, serie tv e storie vere (e inedite)

Chissà cosa ha pensato davvero Natalia Burlinova, dal suo rifugio di Mosca, quando ha visto i titoli dei giornali italiani: spia, reclutatrice, fino ad arrivare al delicatissimo titolo dell’editoriale di Travaglio, “Agente zerozerotette”. Lei, accusata di essere un’agente d’influenza dall’Fbi perché non regolarmente registrata come prevede il Foreign Agents Registration Act, all’improvviso considerata alla pari dei miti dell’intelligence russa, la migliore del mondo tra i paesi autoritari, quelli in cui tutti i cittadini sono doverosamente anche informatori. “Sono risentita per l’articolo di Repubblica”, ha detto la stessa Burlinova via Zoom, da Mosca, all’autore dell’inchiesta, Paolo Mastrolilli, “perché mi presenta come una spia”. In realtà, dalle carte consultate da Mastrolilli e dalle incriminazioni dell’Fbi si capisce il suo coinvolgimento attivo nel lavoro dell’Fsb – i famigerati servizi di sicurezza interna russa che nascono dalla modernizzazione, per così dire, del temibile Kgb di sovietica memoria – ma sull’accusa di essere “una spia” viene quasi di darle ragione. O forse bisognerebbe ricominciare a intendersi sul significato di spia nel Duemilaventitré, con una guerra in corso in Europa mossa dalla Russia, e potenze sempre più belligeranti e aggressive che lavorano per mettere in discussione l’ordine del mondo post-Guerra fredda, quello della cosiddetta pax economica. Perché a leggere i giornali, quelli italiani e quelli internazionali, sembra all’improvviso essere tornata la guerra delle spie, delle informazioni e del controspionaggio, attività quasi retrò con un preciso immaginario di baffi finti e giornali coi buchi, telefoni a gettoni e agenti che fanno il doppio, triplo gioco. Niente di più lontano dalle attività di oggi, ma non perché la tecnologia ha cambiato tutto, e qualcuno dirà che non serve nemmeno più pedinare una persona per scoprire chi è – basta uno scan facciale, basta clonargli il telefono. La tecnologia è solo una parte di questa storia. 

 


Ciò che è cambiato rispetto al mondo immerso nella Guerra fredda e diviso dalla Cortina di ferro, a sentire chi lavora nell’ambiente, è soprattutto la definizione di spionaggio. Che si è fatta più sfumata, fumosa, e si è estesa enormemente fino a coinvolgere chiunque e qualunque attività considerata poco trasparente che abbia a che fare con gli interessi legittimi di un paese. Ma se tutti sono spie, finisce che nessuno lo è. Oppure che lo sono davvero tutti: diplomatici, businessman, lobbisti, accademici, giornalisti. Russia e Cina sono state maestre, negli ultimi decenni, nel fare in modo che i piani si sovrapponessero, che le definizioni si confondessero, così da rendere molto più complicato il compito di chi giudica cosa si può fare e cosa no, qual è l’intelligence, diciamo così, buona e legittima, e quella più pericolosa e irrituale – anche qui, bisognerebbe intendersi sulle linee rosse. Ma ci sono due direttrici precise da seguire quando si tratta Mosca e Pechino, ci dice chi le osserva da vicino. Da un lato quest’ambiguità nella definizione di spionaggio serve a confondere le  loro operazioni spericolate sul campo straniero, ma serve anche ad aumentare esponenzialmente il sospetto sugli altri, quelli che operano nel loro territorio. E’ il rovesciamento della realtà della propaganda autoritaria, che accusa i giornalisti occidentali di avere pregiudizi, di essere “venduti”, e poi obbliga i suoi ai copincolla dei comunicati statali, e offre servizi a cinque stelle, press tour da mille e una notte e perfino mascherine Ffp2 in caso di pandemia – vi ricordate, quando nessuno le trovava? –  ai giornalisti amici, quelli che scrivono “solo bene della Cina”. 
Ma tutte queste attività riguardano l’influenza, la capacità di avere consensi, di creare una base a supporto delle proprie politiche: anche questa è una grande differenza con il periodo della Guerra fredda. La Cina produce consensi soprattutto grazie al suo potere economico: non c’è una vera ideologia da sostenere e diffondere, e gli “influencer” pro Pechino ricevono regali quando non veri pagamenti e transazioni; quelli che lo fanno gratis non lo fanno per promuovere una visione del mondo pro-Cina, convinti che sia il miglior modello possibile, ma piuttosto in una logica anti-occidente. Le attività culturali, i convegni a favore di Pechino non sono quasi mai del tutto spontanei. 

 

 

 

I cinesi sono i nuovi arrivati col loro bagaglio d’influenza un po’ maldestra, ma per la Russia, soprattutto in Italia, la situazione è completamente diversa: c’è una motivazione storica di vicinanza non solo geografica, una tradizione culturale. Per questo il lavoro della Burlinova, che promuoveva studi e analisi russi, era probabilmente molto più vicino al compattare i sostenitori di un’idea sulla Russia piuttosto che a una vera attività di spionaggio e di reclutamento. Qualcuno che lavora nell’ambiente ci spiega, però: se un tempo i tradimenti erano spesso il frutto di un’adesione a un’ideologia, oggi la maggior parte di chi fornisce informazioni ai russi lo fa per superficialità o per soldi. 

 


Rispetto al caso Natalia Burlinova, sono molto diverse le vicende di Maria Adela Kuhfeldt Rivera, designer di gioielli e perfettamente introdotta nella mondanità di Napoli, che secondo una lunga inchiesta pubblicata lo scorso anno da Bellingcat era in realtà una operativa del famigerato Gru, i servizi segreti militari russi, ed era a Napoli molto probabilmente per avvicinare e ottenere informazioni Nato. E poi quella di Irina Osipova, italo-russa figlia di Oleg Osipov, per anni direttore del Centro russo di scienza e cultura di Roma, che dal primo novembre prossimo lavorerà al Senato della Repubblica italiana, avendo regolarmente partecipato e vinto al concorso. Osipova è nota soprattutto a Roma, dove è stata candidata dal partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, alle elezioni comunali del 5 giugno 2016, cioè negli anni in cui Mosca sapeva arrivare molto in alto, nella politica nazionale italiana. Tanto che la candidata di FdI è fieramente putiniana, per anni si mobilita contro le sanzioni alla Russia, è convinta del “regime nazista” a Kyiv e si fa fotografare spesso con personaggi a dir poco controversi, tipo Andrea Palmeri, neofascista di Lucca che ha combattuto con le milizie filorusse nel Donbas. Irina Osipova sembra un personaggio secondario di questa storia, perché sembra lavorare alla promozione di idee pro russe più che alla raccolta di informazioni da riportare a Mosca o al reclutamento di fonti. Una lobbista, più che una spia. Eppure il fatto che suo padre, in quanto attaché culturale in via Gaeta a Roma, cioè all’ambasciata della Federazione russa, aumenta i sospetti su di lei. Soprattutto se parliamo di Mosca. E di Italia.

 


“Un’ambasciata è sempre un luogo singolare, sospeso tra le leggi del paese che lo ospita e gli interessi del paese di origine, e spesso chi ci lavora deve assumere comportamenti ambivalenti a seconda del contesto in cui si muove, ma se tra il 2016 e il 2021 fosse stato possibile passare ai raggi x la villa di via Gaeta mettendone a nudo muri, travi, archivi e uffici, oltre le sagome dei capitelli neoclassici e dei giardini, forse l’intera struttura sarebbe apparsa in tutta la sua essenza più cruda: una calamita per le spie alta tre piani, perché messa a confronto con quelle di altre capitali europee l’ambasciata russa a Roma spicca per iperattività”. Per cercare di capire il magma informe in cui ci muoviamo quando si parla di intelligence russa – e più in generale dei metodi delle agenzie spionistiche dei paesi autoritari – basterebbe leggere il nuovo libro di Antonio Talia, da cui è tratto il brano che avete appena letto. “La stagione delle spie”, appena uscito per minimum fax (257 pp., 18 euro), riesce nello straordinario obiettivo di diventare anche un manuale sull’intelligence contemporanea. Un lungo reportage che si muove su diverse storie di spie e traditori, reclutati e reclutatori, che hanno quasi tutte un unico comune denominatore, l’Italia, e che è costruito come se fosse un romanzo. Sembrerebbe fiction, se non fosse che Talia è un giornalista investigativo d’altri tempi, quasi come quelle spie con i baffi finti nascosti dietro al quotidiano, e va a parlare con le persone, trova le notizie, verifica e racconta una stagione dell’intelligence in cui tutti i metodi tradizionali tornano a essere importantissimi. Il caso di Irina Osipova, nel racconto di Talia, è soltanto uno di quelli  legati a una stagione interessante nella guerra delle spie che si svolge spesso in Italia e spesso in Portogallo. E’ quella stagione in cui “la Lega si espone per la cancellazione delle sanzioni applicate alla Russia dal 2014, da quando cioè Mosca si è annessa la Crimea, e il leader Matteo Salvini si è recato in visita in Russia chiedendo alla Marina militare di Mosca un aiuto nelle operazioni di pattugliamento del Mediterraneo”. E quando “i deputati del Movimento cinque stelle Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano, entrambi nella Commissione Affari Esteri della Camera dei deputati, incontrano a Mosca Sergej Zeleznjak e Andrej Klimov, esponenti del partito di Vladimir Putin Russia Unita: ‘Attraverso i media si alimenta una russofobia crescente per giustificare l’ingresso di nuovi stati in Europa e nella Nato. Montenegro, Georgia e Ucraina ne sono un esempio’, dice Di Stefano dopo l’incontro”. E’ in quel contesto che “il 14 settembre del 2018 Bellingcat smaschera i due agenti del Gru che hanno tentato di uccidere Skripal, rivelando il numero di serie dei loro passaporti. Precisamente il giorno dopo Maria Adela Kuhfeldt Rivera”, che era stata inviata in missione da Mosca per agganciare gli ufficiali della base di Lago Patria, “sparisce da Napoli all’improvviso e per sempre: il suo passaporto mostrava un numero di serie immediatamente successivo, segno inequivocabile che anche lei è un’agente dei servizi segreti militari russi”. Ma come ha fatto a fuggire dall’Italia prima di essere identificata? Probabilmente avvisata “da una fonte italiana”, dice una fonte a Talia. 

 

    

E’ sempre in questo contesto che due anni prima, nel maggio del 2016, che le autorità italiane arrestano in un bar di Trastevere a Roma Carvalhão Gil, ex funzionario dell’intelligence portoghese accusato di aver tradito ed essere diventato una spia per Mosca. Il suo contatto è “Sergej Nicolaevic Pozdnjakov, nato a Mosca il 26 giugno del 1969 e identificato da ‘varie agenzie di sicurezza europee’ come ‘funzionario del servizio informazioni dell’Svr’, i servizi segreti russi dedicati alle attività all’estero”, scrive Talia. Pozdnjakov è un uomo chiave, e parla anche italiano: in passato è stato secondo segretario dell’ambasciata russa a Roma, “incarico che probabilmente già all’epoca fungeva da copertura per le sue attività nell’Svr”. E non a caso proprio nella capitale italiana avviene l’ultimo incontro tra i due, “al Number One Caffè – un bar di viale Trastevere dall’atmosfera anonima, pareti a specchi e legno chiaro  –ma invece di approfittare dei tavolini all’aperto si accomodano all’interno. Gil siede con le spalle al muro, per controllare la situazione. Pozdnjakov è rivolto verso l’entrata.  Ordinano due Nastro Azzurro, discutono per una decina di minuti, poi Pozdnjakov porge a Gil una scatola di Haig Club – il whisky di David Beckham, si legge sulla confezione – e Gil estrae qualcosa dallo zaino. Gli agenti della Digos entrano nel bar, si qualificano e li arrestano”. Il 30 agosto 2016 Pozdnjakov viene consegnato all’ambasciata della Federazione russa in Italia, che lo rispedisce a Mosca, seguendo una prassi italiana che va avanti sin dalla Guerra fredda. “Da allora di lui non si sa più nulla”. 

 

Una storia molto simile, che riguarda però almeno un cittadino italiano, l’ingegnere Maurizio Paolo Bianchi, avviene tre anni dopo: “Il 21 agosto 2019 il Dipartimento di Giustizia americano trasmette all’Italia il mandato di cattura ai danni di Aleksandr Korsunov. Il 30 agosto la Digos lo arresta all’aeroporto di Napoli. La battaglia ingaggiata dalla Russia per impedire che venga estradato negli Stati Uniti inizia subito dopo”, scrive Talia. Che finisce però con un caso diplomatico gigantesco, quando l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede del Movimento Cinque stelle, al governo con la Lega, decide di “restituirlo” alla Russia nonostante la richiesta di estradizione americana, facendo quindi un favore a Mosca. Bianchi aveva lavorato con Korsunov fornendo informazioni industriali su Avio Aero e la loro tecnologia. E poi c’è un altro caso clamoroso di spionaggio e tradimenti, quello del capitano di fregata della Marina militare italiana Walter Biot, il cui dossier è stato reso pubblico, scrive Talia, per due ragioni: “Verso la fine del 2020 l’attenzione dell’intelligence italiana nei confronti della Russia si era ormai assestata su livelli di massima allerta e nel febbraio del 2021 la caduta del secondo governo Conte aveva portato Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio dei ministri: queste due premesse conducono ai motivi per i quali il dossier Biot è stato reso pubblico, e restituiscono alla decisione tutta la sua portata strettamente politica”. Non ci sono più gli amici del Cremlino al governo, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio improvvisamente cambia postura politica, diventa un atlantista di ferro, espelle trenta diplomatici russi dichiarati persona non grata. Cambia anche la comunicazione delle informazioni d’intelligence occidentali: il caso di Walter Biot, che passava documenti segreti o riservati ai suoi contatti di via Gaeta a Roma, viene alla luce in Italia. In America, la Casa Bianca decide di mostrare sempre di più le informazioni d’intelligence raccolte e studiate dai suoi analisti: questo messaggio di trasparenza sarà cruciale nelle fasi subito prima dell’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia. “Non sono andato a Beirut per risolvere un crimine. Sapevo che era

colpevole. Tutti sapevamo che era colpevole. Sono una spia, non un poliziotto”, dice Damian Lewis, che interpreta Nicholas Elliott, durante le sue conversazioni con l’MI5, i servizi segreti interni britannici. “A Spy Among Friends”, scritta da Alexander Cary e diretta da Nick Murphy e basata sull’omonimo libro di Ben Macintyre, è uno straordinario ritratto dell’intelligence che forse abbiamo dimenticato, che forse non esiste più. Elliott, nella fiction, in una frase riassume la linea rossa che divide chi raccoglie le informazioni e chi, invece, le usa per produrre prove. Ma “A Spy Among Friends” (disponibile su Sky)  racconta soprattutto la celebre vicenda di Kim Philby, la spia britannica che lavorava sotto copertura per il Kgb sin dal 1932 e che scappò in Unione sovietica nel 1963: fu un caso che cambiò radicalmente le intelligence americane e inglesi, e che affronta il tema più complicato quando si tratta di potenze avversarie. La fiducia. 

Elliott e Philby erano amici da decenni, e il primo non scoprì mai che il secondo era un traditore. E che probabilmente anche la loro amicizia faceva parte della copertura. La prima volta che fu accusato di essere una spia, nel 1955, Elliott credette all’amico, il quale per giustificare le accuse contro di lui tirò fuori un grande classico della disinformazione sovietica: il grande complotto. 

La guerra dell’intelligence è anche la guerra della disinformazione. La teoria del grande complotto destabilizzatore, degli eventi, a volte perfettamente casuali, che nella narrazione dei manipolatori autoritari si trasformano in macchinazioni – tipo la famosa “manina” di dimaiana memoria, per fare un esempio vicino a noi: tutto finisce per essere una cospirazione della Cia e dell’intelligence internazionale, dal Covid alla guerra in Ucraina che ospitava le basi segrete sotto allo stabilimento metallurgico di Azovstal. Ed è proprio così che si coprono e si dissimulano operazioni i cui sospetti cadono sempre su un preciso attore, dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream alle interferenze nelle elezioni democratiche occidentali. 
Quindi, come si fa a tracciare una linea tra la verità e la propaganda, tra le vere operazioni di difesa e quelle che servono alla destabilizzazione globale? “Nelle democrazie occidentali come quelle inglese o americana, le agenzie d’intelligence hanno in gran parte operato aderendo a un sistema basato sulle regole, di controllo e bilanciamento reciproco, con una stampa libera pronta a investigare sulle loro attività, anche quando le stesse agenzie erano segrete e non dichiarate, com’è stata in Gran Bretagna per la maggior parte del Ventesimo secolo”, scrive Calder Walton, uno degli storici dell’intelligence più famosi e autorevoli del mondo, nel suo nuovo libro uscito un paio di mesi fa “Spies - The Epic Intelligence War Between East and West” (Simon & Schuster). “Nelle democrazie liberali, le agenzie d’intelligence esistono per proteggere i propri cittadini; nei paesi autoritari operano per sostenere e supportare il regime al potere. Ovviamente, ci sono stati fallimenti epocali e abusi d’intelligence nelle democrazie occidentali; stravaganti operazioni in terre lontane che hanno fatto poco per contribuire alle strategie rispettive, anzi forse sono state controproducenti. La differenza tra i paesi occidentali e la Russia, passata e presente, è che i primi nella maggior parte delle volte fanno i conti con quegli errori e quegli abusi. I servizi d’intelligence russi hanno sempre operato senza controlli e bilanciamenti reciproci, stato di diritto, obiettività politica, responsabilità o una stampa indipendente che investighi sui loro abusi. Come mi ha spiegato un disertore russo, l’unica limitazione per il servizio di sicurezza russo, l’Fsb, è l’efficacia operativa – non le considerazioni legali, etiche o morali”. La differenza è importante, scrive Walton nel suo libro, perché serve a mettere in prospettiva la “guerra segreta che la Russia e l’occidente hanno condotto per un secolo”. Ed espone i mezzi con cui il Cremlino ha sempre cercato di pareggiare  lo squilibrio di risorse tra est e ovest prima, durante e dopo la Guerra fredda, cioè con mezzi ibridi: spionaggio, sabotaggi e tentativi di sovversione. Questo racconto però non si ferma al periodo della Cortina di ferro. Le cose peggiorano con l’arrivo di Putin, ex operativo del Kgb: “Sotto Putin, la Russia e i suoi ‘servizi speciali’ sono stati gli hooligan delle relazioni internazionali. Il suo grande disegno è sempre stato quello di correggere ciò che vede come il ‘catastrofico’ collasso dell’Unione sovietica, reclamare la sua influenza su paesi come l’Ucraina, e affrontare la sua nemesi, gli Stati Uniti”. Con l’aiuto, naturalmente, dell’intelligence, che è il braccio operativo della sua guerra ibrida.  

 

   
Sul fronte interno, c’è un’altra cosa che unisce la Russia contemporanea alla Cina contemporanea nel loro approccio all’intelligence. Sia Mosca sia Pechino, infatti, hanno sempre usato in modo molto disinvolto la “minaccia” alla sicurezza nazionale. A fine aprile, per esempio, la leadership di Pechino ha approvato una modifica della legge sul controspionaggio, che è entrata in vigore ufficialmente il primo luglio scorso. La versione originale della legge, promulgata nel 2014, era già sufficientemente vaga e ambigua, e lasciava molto potere di interpretazione alle autorità. Ma con la stretta introdotta a luglio i margini di manovra nell’attuazione della legislazione si sono ampliati. Chiunque, soprattutto i cittadini stranieri, oggi può essere accusato di spionaggio, perché quali documenti riguardino esattamente  la “sicurezza nazionale” cinese non è specificato. Per esempio, se un accademico fa richiesta di documenti delle dogane o del budget di un governo locale, o se un imprenditore ha avuto a che fare con un’azienda accusata di fornire informazioni o di essere “collusa” con “forze straniere”, possono nascere problemi. 

 


Ci sono già stati alcuni esempi eccellenti di arresti eseguiti sfruttando le maglie larghe della precedente legge sul controspionaggio. La notte del 6 dicembre del 2020, per esempio, l’ambasciata canadese a Pechino ha ricevuto, in rapida successione, due diverse telefonate su due cittadini canadesi fermati dalle autorità in luoghi diversi. Qualche giorno prima l’ambasciatore canadese a Pechino, Dominic Barton, era stato convocato al ministero degli Esteri cinese: i funzionari volevano formalizzare la protesta contro Ottawa per l’arresto a Vancouver della superstar del business cinese, la figlia del fondatore del colosso Huawei, Meng Wanzhou. Il collegamento con il fermo di Michael Spavor e Michael Kovrig – il primo un consulente per il business asiatico molto apprezzato che aveva lavorato a lungo anche con la Corea del nord, e il secondo un ex diplomatico poi diventato analista per l’International Crisis Group – era stato abbastanza chiaro sin dai primi giorni. E divenne chiarissimo dopo la conferma dell’arresto dei due cittadini canadesi sulla base di vaghe accuse di spionaggio e di “pericolo per la Sicurezza nazionale” da parte della Cina. Mentre i due Michael erano confinati in un luogo sconosciuto, Meng Wanzhou, agli arresti domiciliari nella sua villa di Vancouver, nel frattempo aspettava la decisione del giudice canadese sulla sua estradizione negli Stati Uniti, che ne avevano fatto richiesta per una sospetta violazione delle sanzioni internazionali contro l’Iran. La detenzione dei due durò 1.019 giorni. Furono rilasciati il 24 settembre del 2021, poche ore dopo la conferma di un accordo extragiudiziale tra il Dipartimento di Giustizia americano e i funzionari di Huawei: quel giorno, quando  Meng Wanzhou salì su un aereo verso Shenzhen, anche ai due Michael fu permesso di tornare in Canada. 
La vicenda ha cambiato completamente la percezione della Repubblica popolare cinese nell’opinione pubblica canadese: “Negli ultimi anni la Cina ha preso decisioni che hanno reso più difficile il rapporto con lei, non solo per il Canada ma anche per altri paesi”, ha detto il primo ministro Justin Trudeau in un’intervista a Bloomberg giovedì scorso.

 


La Cina ha imparato dalla Russia metodi e tecniche d’intelligence, almeno quelle più moderne. I funzionari del Ministero per la sicurezza dello Stato, l’organo istituzionale preposto alle attività di intelligence e controspionaggio, hanno studiato i manuali del Kgb e dell’Fsb, hanno una gigantesca capacità di sorveglianza e applicazione tecnologica, ma per quanto riguarda i metodi tradizionali – quelli fatti di persone in carne e ossa – sono ancora molto indietro. Chi conosce da vicino le operazioni cinesi racconta che c’è una certa incapacità cinese legata alla dissimulazione, al reclutamento per esempio di occidentali per la raccolta di informazioni. Il primo ostacolo è ovviamente la lingua, ma c’è anche una differenza   culturale dietro. E così la Cina fa intelligence soprattutto con le valigette di soldi e regali costosi, ma è più difficile individuare casi di occidentali che abbiano fornito informazioni per ideologia, per adesione al Partito comunista cinese. Piuttosto sono i suoi cittadini, anche all’estero, a fare il lavoro sporco dell’intelligence. A fine luglio il  ministero per la sicurezza dello Stato ha aperto per la prima volta il suo account WeChat, la superapp cinese, con un messaggio ai cittadini: “Spionaggio e controspionaggio richiedono la mobilitazione dell’intera società!”. La partecipazione dei cinesi nelle attività d’intelligence viene caldamente raccomandata in questa nuova èra di Xi Jinping, solo che la paranoia nel Duemilaventitré è un problema: “Sui treni ad alta velocità, un video in loop avverte i passeggeri di fare attenzione quando scattano foto per i social media, nel caso in cui catturino informazioni sensibili”, si leggeva qualche giorno fa sul New York Times. “Negli uffici governativi dove i residenti compilano le pratiche di routine, i manifesti ricordano di ‘costruire una linea difensiva del popolo’. Il profilo di un locale della provincia dello Yunnan ha pubblicato un video in cui uomini e donne con l’abito tradizionale degli Yi, un gruppo etnico locale, ballano e cantano allegramente sulla legge cinese Sulla sicurezza nazionale: ‘Chi non denuncia sarà perseguito. Nascondere dei crimini porterà alla prigione’, canta il gruppo”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.