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L'analisi

I repubblicani “Asia first” sono un guaio per l'Ucraina

Marco Bardazzi

“La Cina è la protagonista del sistema internazionale, non la Russia”, dice il conservatore Elbridge Colby

C’è un conto alla rovescia che dovrebbe scattare presto in Europa. Se fra poco più di un anno i repubblicani riconquistano la Casa Bianca, tutto cambierà per l’Unione europea, la Nato e soprattutto l’Ucraina. Perché a prescindere dai problemi giudiziari di Donald Trump e dalle battaglie tra i suoi sfidanti, su un punto tutti i candidati per la nomination repubblicana sembrano d’accordo: per loro è ora di impostare a Washington una vera politica estera Asia First. 

Nel Gop (Grand Old Party) non domina “né l’internazionalismo, né l’isolazionismo, ma il focus sulla Cina”, ha scritto nei giorni scorsi sul New York Times l’editorialista di politica estera Peter Beinart, ex direttore di New Republic. Nel primo dibattito tra i candidati repubblicani, ha sottolineato Beinart, almeno su questo punto tutti sono sembrati sulla stessa posizione, sia pure con sfumature diverse. E tutti cominciano a dar segni di insofferenza per l’impegno contro la Russia in Ucraina. Anche la candidata più aperta al dialogo multilaterale, Nikki Haley, ex ambasciatrice all’Onu, non può non sottolineare la preoccupazione per un isolamento della Russia che “fa il gioco della Cina”, perché spinge Mosca sotto il suo controllo.  

E’ un ritorno a un’antica tradizione, a un conservatorismo che già all’inizio della Guerra fredda non era così entusiasta come i democratici di Franklin D. Roosevelt e di Truman nel concentrarsi solo sull’Europa e l’Unione sovietica. Finito lo scontro tra i due blocchi, molti repubblicani già negli anni Novanta avrebbero voluto mettere al centro della politica estera la Cina, ma il partito finì sotto il controllo dei neocon che trovarono nell’esportazione della democrazia e nella guerra al terrorismo post 11 settembre la loro vocazione. 

Adesso, dopo il disastro lasciato in Iraq e il ritiro da Kabul, i neocon sono caduti in disgrazia e tra i repubblicani a Washington cresce la convinzione che l’impegno nella guerra in Ucraina sia una distrazione e che occorra cominciare a concentrarsi seriamente, anche sul piano militare, sul vero nemico: la Cina. 
“L’Europa sta assorbendo troppa della nostra attenzione e non abbiamo un apparato di difesa da ‘due guerre’, non possiamo essere impegnati contemporaneamente sullo scenario europeo e su quello asiatico”, spiega al Foglio Elbridge Colby. Tenete a mente questo nome, è molto probabile che lo ritroveremo in futuro in una posizione di vertice a Washington. Se dopo le elezioni del 2024 dovesse nascere una nuova amministrazione repubblicana, potrebbe essere ai vertici del Pentagono o avere un ruolo di consigliere di politica estera alla Casa Bianca. 

Elbridge Colby, “Bridge” per gli amici, è un quarantenne che ha già nel curriculum un passaggio al Pentagono come sottosegretario alla Difesa negli anni di Trump e all’epoca ha messo la propria firma sulla Strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti. Oggi guida un think tank, The Marathon Initiative, nel cui advisory board siedono l’ex capo dell’intelligence americana Dennis Blair, l’ex ministro della Difesa tedesco Thomas de Maizière, che ha ricoperto vari incarichi nei governi di Angela Merkel, e vari esperti di politica estera americani che sono di casa anche sui giornali e nei salotti televisivi italiani: Edward Luttwak, Charles Kupchan, Robert Kaplan. 

Colby fa parte di un’élite di pensatori conservatori con le idee chiare, una solida preparazione alle spalle (ha due lauree prese a Harvard e a Yale) e proviene da una famiglia che ha servito ad alto livello i governi americani. Suo nonno, William Colby, durante la Guerra fredda era un agente segreto impegnato a combattere i comunisti in Europa (fu uno dei creatori della rete clandestina Gladio), divenne capo dell’intelligence americana a Saigon negli anni della guerra in Vietnam e infine direttore della Cia nelle amministrazioni Nixon e Ford.  

Da alcuni anni, Colby è soprattutto l’esponente di punta a Washington di una China Lobby che spinge con tutte le forze per mettere Pechino al centro della strategia di difesa, mettendo in secondo piano gli impegni militari in Europa. Nel 2021 ha pubblicato un libro che fa ancora discutere molto nella capitale: si intitola “The Strategy of Denial” e sostiene la necessità di una presenza militare americana forte e aggressiva nel Pacifico, per contenere e confrontare con durezza la Cina e negarle (denial) la possibilità di diventare la potenza egemone dell’Asia. 

“Da un punto di vista strategico – afferma Colby –, non capisco questa euforia che vedo in giro su come stanno andando bene le cose agli Stati Uniti e all’occidente riguardo all’Ucraina. La situazione in Europa è tutt’altro che buona, le sanzioni alla Russia ne stanno degradando la potenza militare e minando l’economia, ma da sole non sono sufficienti. Non stiamo cambiando il corso delle cose e la Russia ora sta diventando più dipendente dalla Cina. E’ Pechino, in questo momento, a essere in una straordinaria posizione da un punto di vista geopolitico e se c’è una lezione che stiamo imparando dalla guerra in Ucraina è che ciò che conta è la risposta militare, il denial, mentre le sanzioni economiche hanno un effetto molto limitato”. 

I conservatori americani degli anni Venti sono sempre più come Colby, i vecchi neocon sono i loro nemici, “esportare la democrazia” è qualcosa che li fa inorridire al pari del soft power dei pensatori progressisti. “L’hard power è il fattore più importante nella politica internazionale”, dice, “ed è una potenza basata in primo luogo sull’economia, ma che in ultima analisi si manifesta nella potenza militare. Ed è questa che dobbiamo usare con la Cina. L’Asia è di gran lunga la regione più importante per noi, non l’Europa. La Cina è la protagonista principale del sistema internazionale, non la Russia. La Cina ha un’economia che è dieci volte quella russa ed è assai più decisiva per l’economia americana”.  

Colby prova a sintetizzare così con il Foglio il suo ragionamento: “Qual è lo scopo della politica estera in una repubblica? Fare gli interessi dei suoi cittadini. E qual è l’interesse fondamentale degli Stati Uniti? La sicurezza fisica del popolo americano, la nostra prosperità e la nostra libertà. Quindi la minaccia per noi è una potenza così forte che possa imporre il suo volere su di noi. Come può farlo? Controllando una delle maggiori aree di scambio economico, visto che la crescita di scala dell’economia è ciò che dà potere. Dove sono queste aree? C’è il Nord America ovviamente. C’è l’Europa, che vale il 25 per cento del pil globale ma scenderà verso il 10 per cento nei prossimi venti anni. E in Europa la Russia non è neanche l’economia maggiore, è al quarto o quinto posto. E’ una situazione molto diversa dal secondo dopoguerra, quando l’Europa era il teatro più importante del mondo e l’Unione sovietica era potentissima”. “E poi c’è l’Asia, che è di gran lunga il mercato più importante. La Cina controlla il 50 per centro del pil asiatico. Quindi è evidente che il primo passo di una strategia di denial è quello di negare alla Cina di avere un’egemonia sull’Asia, perché sarebbe devastante per l’America e per le nostre libertà. Questo è un approccio nella tradizione che è stata in passato della Gran Bretagna e, in America, del presidente Theodore Roosevelt. Questo è il focus che dobbiamo avere”. 

E l’idea strategica principale su cui Colby insiste nei dibattiti a cui partecipa in ogni sede, è di rispondere prima possibile con una “forte difesa militare lungo la linea delle prime isole intorno alla Cina”. Cioè soprattutto difendere militarmente e muscolarmente Taiwan, per scoraggiare un’invasione cinese e riequilibrare l’assetto egemonico in Asia. “Questa è la chiave strategica”, spiega, “perché se possiamo sconfiggere o bloccare un attacco cinese a Taiwan, possiamo limitare l’influenza coercitiva della Cina nei nostri confronti. A quel punto, da una posizione di forza e sicurezza, possiamo continuare a fare affari. Al contrario, se non possiamo difendere Taiwan e mantenere la prima linea difensiva, le nostre sanzioni non saranno sufficienti a farli desistere dall’andare oltre”.

C’è un senso di urgenza in Colby e nei conservatori della sua scuola, come la sensazione che la Cina sia a un passo dal mettere il mondo di fronte a un “fatto compiuto” pericolosissimo, a Taiwan o in altri paesi asiatici, come il Vietnam o le Filippine. “Il motivo per cui sono così preoccupato è che non penso che Taiwan per la Cina sia un tema di nazionalismo. Se mi immedesimo nella leadership cinese e immagino di essere Pechino, voglio assicurarmi la futura crescita economica, voglio avere grandi mercati da dominare. Voglio avere una scalabilità. Voglio proteggere le risorse naturali. Quindi la posta in gioco è geoeconomica. Ma il modo per ottenere quelle cose è la forza militare. E all’opposto – conclude Colby – il modo per bloccare Pechino è negare con la nostra potenza militare la possibilità di usare la forza”.

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