Il regime in Russia

Frode, stagnazione, corruzione. Come si è retto il regime di Putin

Giorgio Arfaras

La Russia che vediamo oggi è il risultato di anni in cui il rapporto di potere fra il presidente e gli oligarchi si è consolidato con dinamiche rigide. Gli effetti si vedono in Georgia, in Kirghizistan e soprattutto in Ucraina

La Russia passa nel 1985 dalla stagnazione sovietica alla perestroika che, insieme, aiutano a spingere negli anni seguenti l’impero al collasso. Caduto questo, dal 1990 si ha l’euforia della liberalizzazione, dove si impone l’oligarchia. Verso la fine del decennio segue un secondo collasso, il cui risultato è l’arrivo dell’autocrazia patronale.

Dal 1992 al 1994 furono liberalizzati i prezzi, il commercio internazionale, e fu privatizzato metà dell’apparato produttivo. La privatizzazione è all’origine della ricchezza degli oligarchi. Nel 1996 per vincere le elezioni presidenziali Boris Eltsin distribuì favori e prebende sia ai poteri locali sia ai poteri economici privati. Eltsin aveva ottenuto l’appoggio dei vari potentati, ma la sua presidenza non aveva alle spalle uno stato forte che decidesse dei destini dei potentati con cui si era alleata. Ed ecco che nel 1999, chiamato dal presidente, arriva Vladimir Putin, che capovolge i rapporti di forza a favore degli apparati statali, operazione coronata dalla sua grande vittoria nelle elezioni del 2003.

Raggiunta la forza con la legittimità del voto, ecco che vengono convocati una ventina di grandi oligarchi cui è mostrato che cosa implicava la disobbedienza al Cremlino. “Fate pure i vostri affari, ma lasciate stare la politica”, era il senso del messaggio. Alcuni di loro furono esiliati, mentre Michail Khodorkovski, ai tempi il magnate del petrolio, fu accusato di evasione fiscale e incarcerato. 

Si afferma allora il rapporto gerarchico per cui il patrono maggiore governa la vita dei patroni minori che dipendono dal suo ben volere. La conditio sine qua non del benvolere dell’autocrate verso gli oligarchi è che non si impiccino nelle decisioni politiche.

Una storia simile la abbiamo avuta anche in Cina, dove, a differenza della Russia, esiste ancora il partito-stato. Quest’ultimo, a differenza di quanto accaduto ai tempi dell’Unione sovietica, ha liberalizzato l’economia, aperto agli investimenti esteri, e promosso il commercio internazionale, tenendo per sé il controllo del sistema finanziario e di alcune industrie importanti.

Dieci anni dopo la grande svolta di Putin, quella della riaffermazione del potere del Cremlino, nel 2013, Xi Jinping, che viene, a differenza di Putin, dalla nomenclatura comunista e non dagli apparati dello stato, entrando in carica prima come segretario del partito unico e poi come presidente dello stato, intraprende una campagna anticorruzione che elimina alcuni dei suoi principali rivali. Anni dopo, nel 2020, Xi fa un ulteriore passo. Jack Ma, il magnate della tecnologia che aveva criticato pubblicamente i regolatori statali perché avevano ritardato l’offerta pubblica di una delle sue società, fu allontanato dalla vita pubblica. Con queste due mosse Xi ha abbattuto il peso dei suoi avversari interni e ridotto il peso dei suoi avversari esterni. 

Le conseguenze economiche della decisione di imporre il comportamento “niente politica, niente problemi” ha, per quanto a prima vista possa non sembrare, delle conseguenze economiche negative. Di fronte a un evento come il blocco dell’attività economica da parte del potere politico, blocco che per di più può giungere all’improvviso, la reazione è quella di auto assicurarsi. Assente la certezza del diritto, gli imprenditori scontano un rischio maggiore e investono meno e le famiglie decidono di risparmiare, rinunciando quei beni difficili da vendere in caso di necessità, come le automobili, e gli immobili. I minori investimenti delle imprese e i maggiori risparmi precauzionali delle famiglie sono un freno alla crescita economica.

Tornando alla Russia e ai paesi dell’ex impero sovietico. All’origine delle “rivoluzioni colorate” che si sono avute  in Georgia, in Ucraina, e nel Kirghizistan, si ha questa combinazione di cause: una frode elettorale, una stagnazione o una crisi dell’economia, una corruzione intollerabile. In Russia abbiamo avuto tutte e tre le cause potenziali la cui combinazione avrebbe potuto mettere in crisi la stabilità di un regime. La frode elettorale che si sospetta mette in crisi la legittimità, la stagnazione mette in crisi la base materiale, e la corruzione, onnipresente fino ai massimi livelli, mette in crisi la base morale. Queste tre cause di un capovolgimento degli assetti politici sono state tutte sfruttate dal principale oppositore di Putin, Alexei Navalny, ma la repressione ha spazzato l’opposizione.


Questo articolo è il secondo  di una trilogia in cui l’autore analizza lo sviluppo dei sistemi istituzionali e finanziari usciti dalla crollo dell’Urss. La prossima analisi sarà sulla  transizione in Ucraina dalla dittatura comunista all’autocrazia patronale fino alla democrazia patronale.

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