Tim Scott, foto Ansa

Ma quale razzismo

Tim Scott è lo sfidante repubblicano di Trump che non soffia sul fuoco della rabbia nera

Giulio Silvano

Le critiche di Obama e il faro di Reagan. Il senatore repubblicano afroamericano si candida alla presidenza riprendendo la dottrina degli anni d'oro del Gop

È finita l’era in cui un afroamericano repubblicano faceva notizia. Certo, il mondo dei conservatori di Capitol Hill è ancora principalmente un white boys club, tra cognomi irlandesi e pedigree del New England, ma ci sono diverse figure black e conservatrici che sono riuscite a raggiungere posti chiave a Washington. Come Byron Donalds, che a 44 anni, nella sofferta votazione per far eleggere Kevin McCarthy speaker della camera, è stato scelto come eventuale rimpiazzo, facendo contenta l’ala destra del Congresso. O come Ben Carson, neuroscienziato che è entrato nel cerchio di Trump quando ha deciso di interrompere la sua campagna elettorale nel 2016, facendosi poi nominare a capo del dipartimento della casa e dello sviluppo urbano. E già l’èra Bush era stata segnata da due protagonisti d’eccellenza, i segretari di stato Condoleeza Rice e Colin Powell, figure di spicco dell’invasione irachena, diventati poi entrambi due anti-trumpiani. Con le elezioni Midterm del 2022 abbiamo il Congresso con più neri dal 1877, quando si raggiunse l’apice nel periodo della ricostruzione post Guerra civile, per poi tornare lentamente a nuove segregazioni sull’onda Jim Crow. E va ricordato che allora, dopo l’omicidio di Lincoln, erano i democratici quelli vicini al Ku Klux Klan, e infatti i primi senatori afroamericani erano due membri del GoP, Hiram Rhodes Revels, nominato nel 1875, e Blance Bruche, eletto cinque anni dopo, entrambi per rappresentare lo stato del Mississippi. Bisognerà aspettare il 1967 per avere di nuovo un nero al Senato, Edward Brooke, di nuovo un repubblicano ma “di sinistra”, molto critico della presidenza Nixon. Oggi con una polarizzazione politica che ricorda le lotte tra confederati e secessionisti, una parte del Partito repubblicano, seppur non esplicitamente razzista, ha un elettorato che spesso invece lo è. Alcuni ex neonazisti, o alcuni frequentatori del Ku Klux Klan, hanno più spesso detto che lo stesso slogan trumpiano “Make America Great Again” – seppur già usato in passato da altri candidati – rientra perfettamente nel linguaggio dell’Alt-right e nel tentativo dei gruppi suprematisti bianchi di rendere il loro messaggio più attraente e apparentemente innocuo, attenuando la retorica da Birth of a Nation. Eppure, come dicevamo, quello di oggi è uno dei Congressi più multirazziali di sempre. Tra Camera e Senato ci sono 62 afroamericani. E quanti di questi sono repubblicani? Cinque. Quanti senatori? Uno. Tim Scott. Cinquantasette anni, Scott rappresenta dal 2013 il South Carolina al Senato, dopo alcuni anni passati alla Camera. Tim Scott ha deciso di buttarsi nella mischia, candidandosi alle primarie di Partito per la presidenza degli Stati Uniti. Trump viene già dato per vincente – gli ultimi sondaggi lo danno al 54 per cento nelle primarie – e se non succede nulla di gigantesco probabilmente rivedremo uno scontro uguale a quello del 2020, Biden vs. Trump. Ma vale la pena vedere come il mondo conservatore cerca in qualche modo di arginare il trumpismo e il post-trumpismo, o di cavalcarlo, e di come fanno a restare a galla le diverse anime del GoP. Nella mischia formata da ex cerchio magico trumpiano, ex vicepresidente, governatori che scavalcano tutti a destra, giovani imprenditori libertari anti-woke, moderati insipidi della vecchia guardia, Tim Scott una volta sarebbe apparso come il token black di una serie tv, il personaggio che rappresenta la diversità performativa, che mostra l’inclusività in un prodotto d’intrattenimento, come Sherice in Beverly Hills o Lando Calrissian in Star Wars. E invece, Tim Scott non è nemmeno più l’unico nero (o non bianco), in corsa alle presidenziali. Ci sono Nikki Haley (genitori indiani del Punjab), Vivek Ramaswamy (genitori indiani Tamil), Larry Elder e Will Hurd (afroamericani), Francis Suarez (figlio di immigrati cubani), Chris Christie (mamma siciliana, non dappertutto gli italiani sono considerati “bianchi”, va ricordato). Per un paese ossessionato dai primati (“la prima donna afro-indiana al ministero della salute…”) e dalla razza, dalle origini familiari e dal trauma etnico, la race card di Tim Scott ha comunque poco effetto. La sua forza sembra proprio quella di voler essere considerato solo un politico impegnato nel migliorare il paese, e di non usare l’etnia come un vantaggio, puntando solo sulla sua storia. Certo, come ricorda ogni tanto, lui è passato “dal cotone al Congresso”, facendo riferimento allo schiavismo e alle piantagioni da cui provengono gli antenati, ma ha anche rifiutato, eletto la prima volta a Washington, di esser parte del Congressional Black Caucus (il gruppo di deputati neri). “La mia campagna non ha mai riguardato le questioni di razza”, disse allora. Il suo messaggio è più sociale, vuole far vedere che, nel vero modello reaganiano, l’America è il luogo in cui chiunque può arrivare in cima, che offre opportunità a tutti. Un credo che ancora risuona con orgoglio nelle orecchie degli elettori del GoP, e non solo. Ma è un messaggio che ha attirato le critiche di Barack Obama, che si è scomodato dalla sua posizione di vacanziero grande saggio (ha diciotto anni meno di Biden, quindici meno di Trump) per attaccare Tim Scott. “Penso che ci sia una lunga storia di candidati afroamericani, o di altre minoranze, dentro il Partito repubblicano che validano il messaggio ‘tutto va benissimo in America, e chiunque può farcela’”, ha detto l’ex presidente.

Tim Scott è un grande ottimista che cerca di combattere il generico mood allarmista che si respira in Usa. Lo fa sia davanti alla sua audience di riferimento, sia sfidando i dem. Alla Republican National Convention del 2020 ha chiesto: come ha fatto un bambino povero e nero, cresciuto da una madre single, a vincere in un distretto principalmente bianco? “Gli elettori mi hanno giudicato in base al valore del mio carattere, e non per il colore della mia pelle. Viviamo in un mondo che vuole farvi credere nelle cattive notizie, notizie polarizzanti su razza, economia e cultura. La verità è che la bussola va sempre verso la correttezza. Non siamo esattamente dove vorremmo essere… ma grazie a Dio nemmeno dove eravamo prima! Non cediamo alla cancel culture, o al credo radicale, e privo di fondamento, che le cose oggi sono peggio di quanto non fossero negli anni Sessanta dell’Ottocento o del Novecento. Abbiamo molto lavoro da fare, ma credo nella bontà dell’America, nella promessa che tutti gli uomini e tutte le donne sono state create uguali”. Nel suo discorso Scott ha provato a lanciare una nuova piattaforma ideologica, che riprende la dottrina degli anni d’oro del GoP, quella della “città sulla collina” di Ronald Reagan, opposta a quella di Trump e della sua setta. Trump dice che l’America era meglio prima – ma non dice mai prima quando – e sbraita dicendo che i dem hanno rovinato il paese. Dall’altra parte molti democratici dicono che l’estremismo populista della destra ha distrutto le strutture della Repubblica. Scott combatte questo tono catastrofista, per tornare a una politica meno identitaria, che propone policies inclusive invece di demonizzare il nemico, una politica che si può fare anche con degli accordi bipartisan. A Capitol Hill il senatore è noto e apprezzato per essere bravo nei compromessi, sempre più rari, tra legislatori blu e legislatori rossi. L’anno dopo il messaggio ottimista di Scott è stato diretto anche ai dem, in risposta al discorso presidenziale al Congresso di Joe Biden, cercando di combattere il tema della critical race theory tanto cara alla sinistra, secondo cui ci sarebbe un razzismo sistemico che rende impossibile una vera equità. “Questo non è un paese razzista”, ha detto il senatore davanti ai colleghi. “Cento anni fa ai bambini a scuola insegnavano che il colore della pelle era la loro caratteristica più importante, e se avevano un certo aspetto, erano inferiori. Oggi si insegna di nuovo ai bambini che il colore della loro pelle li definisce. E se hanno un certo aspetto, sono degli oppressori. Dalle università alle aziende fino alla cultura, le persone fanno soldi e ottengono potere facendo finta di non aver fatto alcun progresso, scommettendo sulle divisioni che con fatica abbiamo superato. E’ retrogrado combattere la discriminazione con altre discriminazioni. Ed è sbagliato provare a usare il nostro doloroso passato per zittire in modo disonesto i dibattiti del presente”. Il tentativo di Scott è quello di arginare da una parte i deliri di Don Trump Jr. e della deputata Marjorie Taylor Greene, dall’altra il vittimismo social di Alexandria Ocasio-Cortez e il massimalismo woke. 

Tim Scott ha sempre evitato di attirare troppa attenzione su di sé negli anni trumpiani, non volendo essere coinvolto in quelle gaffe e in quelle policies governative che hanno fatto imbarazzare troppi conservatori. Non è mai stato una spina nel fianco del presidente, ma nemmeno un suo poggiapiedi. Certo, ha difeso alcune politiche del governo. “Trump ha costruito l’economia più inclusiva di sempre. Prima del Covid-19 sono stati creati sette milioni di posti di lavoro, due terzi dei quali sono andati a donne, afroamericani e ispanici”, ha detto nel 2021. Ma dopo i fatti di Charlottesville del 2017, Scott non aveva avuto paura a criticare il boss. Trump in quell’occasione non solo aveva difeso una grossa manifestazione di suprematisti bianchi – svastiche, antisemitismo e Deus Vult – ma, dopo gli scontri con Antifa e altri gruppi progressisti, aveva detto: “Ci sono delle persone perbene in entrambe le fazioni”. Scott aveva risposto che Trump con quella frase aveva “compromesso la propria autorità morale”, e che si sarebbe rifiutato di “difendere l’indifendibile”. Ma è proprio questo che stava succedendo in quegli anni, buona parte dell’establishment repubblicano aveva scelto, pur di mantenere il potere, di difendere l’indifendibile, condannando il Partito, e portandolo agli eventi da Banana Republic del 6 gennaio. 

L’unico nero repubblicano in senato oggi viene dato, negli ultimi sondaggi, alla terza posizione, con il 3 per cento, come l’ex Vp Mike Pence e l’ex governatrice Nikki Haley. Cifre bassissime rispetto ai due front runner. Ma molti credono che una volta che il gruppo verrà sfoltito dalle primarie, i repubblicani anti trumpiani e quelli scettici sul carisma nazionale di DeSantis potranno puntare sul conservatore meno coinvolto con la presidenza Trump: Tim Scott. A differenza dei due populisti della Florida – l’ex presidente newyorkese ha preso la residenza nel 2019 – Scott segue la linea dell’establishment GoP sull’Ucraina. Contro la retorica dell’America first, già a marzo ’22 Scott ha detto che la difesa di Kyiv è una lotta “per i princìpi che l’America ha sempre sostenuto”. Ha criticato Biden per non esser stato sufficientemente tempestivo con gli aiuti, dicendo che non è stato in grado di spiegare bene agli americani quali sono gli interessi degli Stati Uniti. Aiutare l’Ucraina “per prima cosa previene e riduce gli attacchi in patria. E poi ridurrà le possibilità che la Russia attacchi territori Nato e ci coinvolga”. Più sicurezza al confine e più allerta contro il pericolo cinese sono gli altri punti della sua agenda. Ma quello che sembra attrarre è questo suo tentativo di ricucire la frattura dentro il Partito repubblicano (e quella dentro l’America), combattendo la retorica vendicativa e apocalittica dei trumpiani e ritornando a un sistema in cui si dà valore alla “responsabilità personale”. 

Scott dovrà andare bene alle primarie dell’Iowa – il primo voto che si terrà il 15 gennaio 2024 – se vuole sopravvivere, anche solo battendo DeSantis (oggi dato al secondo posto). L’Iowa potrebbe dare visibilità al senatore e fargli prendere una percentuale decente in New Hampshire. In entrambi gli stati Scott ha investito 32 milioni negli spot televisivi, più di tutti gli altri candidati. Un buon punteggio in Iowa e New Hampshire potrebbe farlo arrivare intatto alle primarie del South Carolina, il suo stato, dove potrebbe vincere. Quasi sempre i candidati, anche i più disgraziati, riescono a portarsi a casa almeno il proprio stato. Ed è un vantaggio che quello di Scott sia il terzo in cui gli elettori repubblicani saranno chiamati a votare. Come ha notato William Galston sul Wall Street Journal, una vittoria di Scott nel Palmetto State potrebbe “catapultarlo al primo posto, soprattutto se gli altri repubblicani sconfitti abbandonano la corsa e lo appoggiano, come hanno fatto quasi tutti i candidati democratici nel 2020 dopo la vittoria di Biden in South Carolina”. Ma tutte le speculazioni – e il wishful thinking –  lasciano il tempo che trovano, soprattutto davanti ai numeri di Trump, che sono solidissimi. La prova del nove è stata la sfilza di procedimenti penali e federali iniziati in questi mesi che lo vedono come imputato, e che invece di abbatterlo l’hanno fortificato. Nemmeno il dipartimento della giustizia, nemmeno le accuse di cospirazione ai danni della democrazia sembrano aver indebolito le folle col cappellino rosso. 

Scott fino a ora è riuscito a raccogliere dei fondi discreti per la sua campagna – meglio di Mike Pence, per quanto questo possa essere una consolazione. Scott ha dalla sua l’appoggio del fondatore di Oracle, Larry Ellison, e il magnate dei metalli Andy Sabin, che organizzerà una cena di raccolta fondi nella sua casa nelle Hamptons. E alcuni dei grandi donatori, inizialmente attratti dalla cometa DeSantis, ora guardano a lui, come il filantropo di Pittsburgh, Stanley Druckenmiller, o il miliardario Ronald Lauder, erede della Estée Lauder. Molti ricconi fedeli al GoP sono ancora lì, in attesa, come alle corse dei cani, di vedere chi potrebbe togliere lo scettro dalle mani di Trump, pronti a riversare i loro portafogli su chi ha la forza di detronizzarlo. “Tutto ma non Trump”, sembra il mantra in molti circoli. Ma prima di buttare dei milioni meglio vedere chi sono questi altri, e il primo dibattito ufficiale, che si terrà il 24 agosto in Wisconsin, potrà essere d’aiuto.