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Negli Stati Uniti

Mike Pence, il luogotenente “traditore”, eroe per un giorno

Giulio Silvano

Era il vice invisibile di Trump che riconobbe la vittoria di Biden, oggi rischia di non arrivare nemmeno ai dibattiti per le primarie dei repubblicani

Sarà l’ego, saranno le gaffe, le etichette istituzionali distrutte o la popolarità da guru. Saranno i pasti ufficiali a base di McDonald’s e Burger King serviti alla Casa Bianca o i tweet pieni di insulti o l’ammirazione per i dittatori. Sarà l’abbandono degli accordi nucleari con l’Iran o forse l’aver chiamato Haiti e le nazioni africane “paesi di merda”. Ma dei quattro anni di presidenza di Donald J. Trump è difficile ricordarsi di qualcun altro che non sia Donald J. Trump. Anche perché, come un monarca volubile, ha licenziato e sostituito buona parte del suo gabinetto presidenziale. Sono cambiati quattro segretari alla Difesa, ma almeno il vicepresidente è sempre stato lo stesso: Mike Pence. Non che solitamente il vicepresidente abbia i riflettori puntati in faccia, ma se per quattro anni stai in piedi vicino a Trump nelle foto ufficiali è ancora più facile essere ignorati. Soprattutto se ti chiami Mike Pence e non brilli di carisma, non hai esperienza nei reality della Nbc e risulti abbastanza invisibile. Va detto che quella del vicepresidente è una figura più elettorale che esecutiva. Serve per allargare il campo del candidato Potus in fase di campagna, bilanciarne i difetti e gli orientamenti e creare un equilibrio all’interno del partito per non alienarsene una fetta. Mike Pence venne scelto nel ticket presidenziale nel 2016 in primis perché, a differenza di Trump, era sempre stato un conservatore, almeno durante la sua carriera di uomo politico – in gioventù era stato fan di Jfk, in quanto cattolico, e aveva votato Carter contro Reagan. Ma comunque non era come Trump, che fino a poco tempo prima era amicone dei Clinton, si considerava pro choice sull’aborto e aveva uno stile di vita piuttosto libertino. E poi, da newyorkese doc c’era bisogno di qualcuno che rappresentasse il Midwest, che non sembrasse appartenere all’élite della East Coast. E serviva anche qualcuno che avesse almeno un po’ di esperienza amministrativa e politica, dato che l’ultimo grosso lavoro di Trump era stato in The Apprentice, il programma tv dove licenziava tutti. E poi serviva la religione, ancora il grande ingrediente chiave della politica americana, la farina necessaria per l’impasto di un buon candidato. Trump non è mai apparso come un uomo di fede (almeno finché non è entrato alla Casa Bianca). Quando gli chiesero quale fosse il suo versetto preferito della Bibbia in campagna elettorale disse: “Occhio per occhio”.

Mike Pence quindi riempiva tutte le caselle, compensava buona parte delle mancanze di Trump. Pence è di Columbus, cittadina a 60 chilometri da Indianapolis, è sempre stato repubblicano, è stato governatore dell’Indiana (dal 2013 al 2017) e deputato nei dodici anni precedenti. Non ha mai divorziato, è sempre stato sposato con Karen, che ha conosciuto in chiesa mentre lui era all’università. Unico neo: Karen era già stata sposata, al liceo; quando si sono conosciuti lei era una divorziata, ma Pence ci è passato sopra. Tabloid e nemici politici non hanno mai trovato niente di vagamente dissoluto o immorale nel passato di Mike Pence. Ha due figli e una figlia che non fanno le scenate dei Trump Jr. e non finiscono sui tabloid per consumo di crack come Hunter Biden. Pence sembra molto ligio nel seguire i valori imposti dal suo credo religioso. Nato cattolico, a un certo punto ha deciso di passare al club molto più americano degli evangelici. Ha raccontato che a un festival di musica cristiana in Kentucky, quando era all’università, ha deciso di dare la sua vita a Gesù Cristo. “Mi considero un cristiano, un conservatore e un repubblicano. In quest’ordine”, è una delle sue catchphrase. I suoi fratelli e la madre, tutti democratici kennediani, hanno sofferto il suo passaggio agli evangelici, che sono spesso molto più a destra sui temi sociali, e sulla ragionevolezza scientifica. Mike Pence avrebbe fatto impazzire Christopher Hitchens. Quando nel 2009 gli hanno chiesto se credeva nell’evoluzione, Pence ha risposto: “Credo con tutto il cuore che Dio abbia creato il cielo e la terra, i mari e tutto ciò che contengono. Come abbia fatto, un giorno glielo chiederò”. Ma è stato probabilmente questo cambio di fede, dal cattolicesimo alle mega church dedicate al pietismo radicale, a portare Pence nella West Wing. Il 14 luglio del 2016, tre giorni prima della Republican National Convention, Donald J. Trump, che aveva appena vinto le primarie, non aveva ancora scelto il suo VP. In corsa c’erano anche Chris Christie e Newt Gingrich, molto più conosciuti di lui, ma alla fine venne scelto Pence dopo uno studio del sondaggista di fiducia di Trump, Tony Fabrizio. Proprio perché Pence attirava il voto dei superconservatori e, soprattutto, degli evangelici disturbati dal percorso politico e dalla vita privata di Trump, dai divorzi e da quello che succedeva nel backstage di Miss America.

Come si diceva sopra, per i quattro anni della vicepresidenza, nonché nei mesi della campagna elettorale contro il duo dem Hillary Clinton & Tim Kaine (altro obliabile candidato VP) di Pence si è parlato molto poco. Negli show comici della sera veniva preso in giro soprattutto per il suo essere così pio, e perché non cenava mai da solo con una donna che non fosse sua moglie. Tutti gli aneddoti sulla sua giovinezza da chierichetto e da studente in un’università dove era vietato l’alcol risultano teneri e ridicoli. Anche perché Pence sembra ancorato a un immaginario Usa un po’ G. I. Joe, un po’ Norman Rockwell. Nei quattro anni di amministrazione repubblicana-populista è rimasto in ombra anche perché così noioso, così poco volitivo, così integerrimo. E’ stato lo scudiero di Trump, la sua spalla, il suo Sancho Panza. Ha accettato di stare accanto a un presidente così diverso da lui per ottenere delle vittorie importanti, come posizionare nella Corte suprema dei giudici conservatori e religiosi che avrebbero cercato di combattere contro alcune posizioni progressiste, come l’aborto libero. Cosa che poi è stata fatta con il ribaltamento della sentenza Roe vs. Wade. Il suo momento di visibilità, i suoi quindici minuti, ci sono stati proprio alla fine dell’era trumpiana, quando la struttura stessa della democrazia iniziava a vacillare. Quando Trump e i suoi fedelissimi hanno capito di aver perso le elezioni contro Joe Biden hanno deciso di dire che era tutta una farsa. Hanno deciso di incitare le folle e convincere i repubblicani nelle posizioni chiave a ostruire il passaggio di potere. E il compito più importante in questa fase era proprio quello di Pence, che in quanto VP avrebbe dovuto certificare i voti e riconoscere quindi Biden come legittimo presidente eletto. Lo ha fatto. Ha abbandonato il presidente populista a cui era stato fedelissimo per quattro anni nel momento in cui ha puntato a diventare un caudillo.

“Impiccate Mike Pence”, urlavano i rivoltosi che hanno assaltato il Campidoglio il 6 gennaio 2021, in risposta al mancato appoggio del VP al suo capo. E’ stato visto come il traditore, come il Bruto che accoltella Cesare. A quanto pare Trump gli avrebbe telefonato proprio quel giorno, prima che i Proud Boys scavalcassero le transenne e malmenassero i poliziotti, dicendogli: “Puoi entrare nella storia come un eroe, o come una mammoletta”. E così a chiamarlo eroe, invece che il suo boss e i rivoltosi, sono stati quei repubblicani NeverTrump, quei conservatori non populisti che vedevano il GoP diventare un ricettacolo di cospirazionisti e nazionalisti. Agli occhi di molti, almeno per qualche giorno, Pence ha contribuito a fermare il fallito e goffo putsch in salsa QAnon.

Ed è a questo che ha pensato forse Pence quando ha deciso di candidarsi contro il suo ex capo, contro l’uomo che l’aveva portato a Washington, cercando l’appoggio di quella base repubblicana non estremista che l’aveva applaudito il 6 gennaio chiamandolo eroe. La sua piattaforma poteva partire da lì, dal tradimento al leader servito fino al giorno prima, per quattro lunghi anni, come prova di valore in difesa della costituzione e della democrazia. E’ la prima volta nella storia americana che un VP sfida il presidente con cui ha lavorato. Il 7 giugno, il giorno del suo compleanno, Pence ha annunciato ufficialmente la sua candidatura per le presidenziali del 2024 a Des Moines, in Iowa. Nella corrida di candidati repubblicani Pence non risulta né il più aggressivo contro il suo ex capo – ruolo che invece ha deciso di assumere Chris Christie, che con Trump aveva lavorato alla Casa Bianca e che ora dice “è un bambino capriccioso” – né cerca di trasformarsi nel faro della nuova destra anti-woke – ruolo che ha preso invece il governatore della Florida Ron DeSantis, dato per secondo ma in discesa libera. Se DeSantis sta provando a fare il sorpasso da destra, Pence non vuole nemmeno cercare di ripristinare il partito ai valori di Lincoln o di Reagan (ma a questo punto andrebbero bene anche quelli di George W. Bush), dato che lui stesso è più vicino a un conservatorismo anti-laico figlio della demagogia del Tea Party che non ai libertari del Cato Institute. I valori, per Pence, sono molto più importanti dell’economia. La purezza di spirito più fondamentale del libero mercato. Quello che prova a fare è un gioco di equilibrio: sì, sono un vero conservatore che ha salvato la democrazia da Trump, ma sono anche uno che ha lavorato per l’amministrazione Trump, che ha fatto anche cose buone. 

Basta essere considerati eroi per qualche giorno per essere il prossimo candidato repubblicano alla presidenza? Basta agli occhi degli evangelici aver piazzato Brett Kavanaugh, Neil Gorsuch e Amy Coney Barrett alla Corte suprema? Pence non può sperare di avere l’appoggio delle folle Maga e allo stesso tempo è comunque troppo trumpiano per i moderati. Ma almeno, e forse per quel suo mood da universo di G. I. Joe, da quel look da Guerra fredda, Pence si differenzia sulla politica estera dai due principali candidati, Trump e DeSantis. Dopo aver detto che si trattava di una “disputa territoriale” ora DeSantis sta cercando di temporeggiare sull’invasione russa, mentre Trump, a lungo ammiratore di Putin – “è un genio!”, disse – ora non sa chi dovrebbe essere il vincitore della guerra. E’ solo convinto che se lui fosse al potere, tutto finirebbe in pochi giorni. Pence invece, ritrovando forse uno spirito maccartista, o convinto che i russi siano ancora i sovietici degli anni d’oro, sta difendendo l’invio delle armi all’Ucraina. Anzi, critica Biden che invia troppe poche armi e troppo poco velocemente. Dice che aiutare Zelensky è nell’interesse nazionale americano, perché se Putin non viene fermato attaccherà poi qualche paese Nato, coinvolgendo soldati americani. Una linea molto diversa da quella dell’AltRight che dice “ognuno badi ai propri confini”, “America first!”. Aiutare l’Ucraina, ha detto Pence al New York Times, è anche un modo per far vedere alla Cina che il “free world” aiuta i paesi invasi dalle dittature. “Questa è un’invasione russa, non una disputa territoriale. Putin è un criminale di guerra, non un genio”, ha affermato Pence. 

La corsa verso il 2024 dell’ex chierichetto VP sembra traballare, per il motivo più classico di tutti: i soldi. Pence nel primo trimestre da quando si è candidato ha raccolto meno di 1,2 milioni di dollari. Una cifra molto bassa se si considera che Trump, nella settimana successiva all’incriminazione federale in Florida, ha raccolto quasi 7 milioni, di cui 4,5 online, cioè da piccoli e piccolissimi donatori. Trump avrebbe raccolto 35 milioni nel primo trimestre. Nelle prime sei settimane da quando ha lanciato la sua candidatura DeSantis sarebbe invece arrivato a 20. Non sappiamo da dove provengono le scarse donazioni fatte a Pence, ma la cifra così bassa potrebbe non qualificarlo per il primo dibattito che si terrà in Wisconsin il 23 agosto. Infatti, la Republican National Committee chiede di dimostrare di avere almeno 40 mila singoli donatori e almeno 200 per stato in almeno 20 stati, o territori. In difesa, persone vicine a Pence dicono che la sua campagna è iniziata troppo tardi per giudicarla, e che comunque ha già dalla sua alcune figure importanti del conservatorismo Usa, tra cui alcuni ex trumpiani. Ci sono la coppia di miliardari Joe e Kelly Craft, che hanno fatto i soldi col carbone, il businessman Pete Coors, Ross Perot Jr., l’ex governatore del Mississippi Haley Barbour e l’ex ambasciatore del Belgio scelto da Trump, Ron Gidwitz. Alcuni repubblicani che appoggiano Pence dicono che può portare avanti le politiche trumpiane, che in fondo erano buone, ma senza tutta la drammaticità, le buffonerie, il libertinaggio e i guai giudiziari di Trump.

Questa settimana il temibile procuratore speciale Jack Smith ha incriminato l’ex presidente per cospirazione. Si cercano di individuare le responsabilità legali per i fatti del 6 gennaio, per la propagazione della Big Lie, e per il tentativo di ribaltare il risultato elettorale del 2020. E quindi si è tornato a parlare di Pence, che quel giorno scelse la repubblica invece del proprio capo. “Mike Pence, da ex braccio destro a testimone critico”, ha titolato il New York Times. I due, Pence e Trump, a quanto pare non si parlano da più di due anni. Il fedele luogotenente diventato “traditore”, anche se non lo aveva fatto con la commissione della Camera che investigava sull’attacco al Congresso, questa volta ha deciso di cooperare con i procuratori. Per non alienarsi parte degli elettori vuol mostrare che è quasi costretto a farlo. Ma, senza mai nominare l’ex boss, non ha avuto paura a dire: “Chiunque metta i propri interessi sopra alla Costituzione non dovrebbe mai essere presidente”. Trump invece su Pence non ha praticamente più detto niente. Nonostante di solito voglia sempre avere l’ultima parola, nonostante sia autore di pessimi insulti da scuole medie, Trump non ha sprecato fiato contro Pence. I consiglieri dell’ex presidente dicono che non lo vede come una minaccia politica. E ha ragione. Secondo gli ultimi sondaggi alle primarie Trump è dato al 54 percento, Pence al 3. A metà luglio Pence è tornato per l’ennesima volta in Iowa, lo stato che sta corteggiando perché è dove si terranno le prime primarie, e fare un buon punteggio lì può dare un boost a tutta la campagna. Pence è tornato in Iowa, terra di evangelici radicali, per parlare a un evento del gruppo conservatore The Family Leader. A intervistarlo c’era Tucker Carlson, l’ex volto di Fox, troppo populista anche per Murdoch. Col suo look preppy, Carlson ha messo Pence alla berlina. Ma a prescindere dai temi, davanti al presentatore con la parlantina, Pence è risultato noioso, in ombra. E’ apparso come nei quattro anni a Washington, praticamente invisibile.

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