Kevin McCarthy e Majorie Greene (Lapresse)

I conservatori e l'ucraina

L'alternativa repubblicana a Trump per la presidenza sono i filoputiniani

Giulio Silvano

Iniziano a farsi avanti i candidati del Partito repubblicano per le presidenziali 2024 e con loro si diffonde l’idea che Biden si dedichi più a Kyiv che all’America. I volti (e gli argini) di questo “pacifismo” isolazionista

Il 15 febbraio l’ex vicepresidente Mike Pence è andato in Iowa, in un ristorante della catena Pizza Ranch a fare foto e parlare con la gente. I Pizza Ranch da anni sono un pit stop necessario per i candidati repubblicani alla presidenza. Pence non ha ancora annunciato se parteciperà alle primarie, ma andare in Iowa a tastare il terreno è già una dichiarazione. Il desolato Iowa pieno di campi di pannocchie è fondamentale perché lì si tengono le prime primarie (non per i democratici, che hanno cambiato il calendario), che danno una direzione all’intera la corsa elettorale. Prima del caucus in Iowa, ci si basa solo su quello che dice la stampa, dopo si capisce meglio chi ha davvero una chance. Ci si aspetta da un momento all’altro un totonomi per il 2024, ma l’ex vicepresinde Pence aspetta: è in una posizione difficile, perché la sua identità politica, dopo una lunga carriera come governatore e poi deputato conservatore, è condizionata dai cinque anni alla Casa Bianca a fianco di Donald Trump. Pence, religiosissimo, era stato scelto nel 2016 come carta stabilizzatrice per tranquillizzare i repubblicani tradizionali, in particolare i cristiani che vedevano nel televisivo e multidivorziato Trump una figura non proprio rappresentativa. Pence era il nuovo establishment spostatosi a destra, vicino al Tea Party, era il midwest rurale, la famiglia tradizionalista, i valori da illustrazione di Norman Rockwell. Trump era New York, lo show business, le modelle, l’antipolitica, con un passato da progressista per cui era guardato con diffidenza. 

 

Nei quattro anni di governo le singolarità e i capricci e i crimini del presidente hanno mediaticamente oscurato la figura di Pence, che già non brillava. Ricandidandosi per essere riconfermato come vice nel 2020, è apparso solo come spalla del megalomane Trump. Poi, da famiglio passivo del trumpismo, ne è diventato per un breve periodo il nemico numero uno. I rivoltosi che il 6 gennaio 2021 assalirono il Congresso contro i presunti brogli di Joe Biden urlavano: “Impiccate Mike Pence”, il quale aveva bloccato la sceneggiata delle elezioni rubate, garantendo la certificazione dei voti e la transizione di potere. Secondo alcune ricostruzioni, Trump gli avrebbe telefonato il 6 gennaio dicendogli: “Puoi entrare nella storia come un eroe, o come una mammoletta”. Pence aveva scelto di seguire la Costituzione e la democrazia, certificando i voti di Joe Biden e riconoscendolo come legittimo presidente eletto.

 

Molti trumpiani non l’hanno perdonato, ma quest’azione di difesa democratica gli ha fatto guadagnare il rispetto di una base repubblicana meno populista. O almeno è quello che spera Pence. Il suo è un gioco di equilibrio: da una parte mostrare agli elettori il bene fatto negli anni di Trump per il paese e per il conservatorismo e dall’altra staccarsi da quel presidente, con cui ha lavorato fianco e fianco, che ha tentato un colpo di stato. Sul sito della sua organizzazione, Advancing American Freedom, Pence difende le politiche economiche dell’Amministrazione Trump, “che ha creato una prosperità senza precedenti per tutti gli americani”, e le scelte sull’aborto della Corte Suprema. A guardare i numeri è vero che alle elezioni di metà mandato di novembre l’estremismo di Trump ha portato i democratici a mantenere il controllo del Senato, ma ci sono stati in certe zone del paese diversi candidati trumpiani che sono riusciti ad arrivare al Congresso, con campagne minacciose dai toni cospirazionisti. Altri vicini a Proud Boys e a gruppi dell’alt right sono riusciti a mantenere la loro posizione, come Paul Gosar, Jim Jordan o Marjorie Taylor Greene, che alcuni vedrebbero bene come candidata vice di Trump. Si è visto con la faticosa e in parte ridicola elezione dello speaker, Kevin McCarthy, quanto potere abbiano sul partito e sugli equilibri di Capitol Hill questi personaggi.

 

Trump aveva detto (per poi negarlo) che Pence si meritava di essere impiccato dalla massa inferocita il giorno dell’insurrezione a Washington. Ma nelle ultime settimane l’opinione di Trump sembra essersi ammorbidita. L’ex presidente, dopo il ritrovamento di documenti top secret a casa dell’ex vice, ha scritto sui social: “Mike Pence è un uomo innocente. Non ha mai fatto nulla di consapevolmente disonesto in vita sua. Lasciatelo in pace!!!”. Anche sulla citazione in giudizio per testimoniare sull’assalto del Campidoglio, il mese scorso Trump ha difeso Pence dicendo che è un uomo “onorevole”. Alcuni dicono che Trump lo stia patrocinando perché non vorrebbe che parlasse sotto giuramento, ma questo cambio di opinione può essere visto anche come un tentativo di riappacificarsi in vista del 2024. C’è però troppa differenza tra i due in particolare su un tema: la guerra di Vladimir Putin in Ucraina. La scorsa settimana, a un comizio all’Hilton di Palm Beach, Trump ha detto che, se ci fosse stato lui alla Casa Bianca, il presidente russo non avrebbe invaso l’Ucrina. Non ha condannato in alcun modo Putin, anzi. Solo un anno fa, dopo la mobilitazione, aveva detto che l’invasione dell’Ucraina era stata una mossa “geniale”. Dai discorsi dell’ex presidente emerge sempre grande ammirazione per il leader russo. 

 

Il 15 novembre, con una fiacca conferenza stampa, Trump, contro i consigli della sua squadra e della sua famiglia, ha deciso di candidarsi precocemente alle primarie. Ma non è l’unico ad aver fatto un annuncio formale. Nikki Haley, ex governatrice dellla Carolina del sud ed ex ambasciatrice all’Onu durante l’Amministrazione Trump, ha lanciato questo mese la sua candidatura. “È eccessivamente ambiziosa”, ha detto di lei Trump. Genitori accademici immigrati dal Punjab, Haley si è convertita al cristianesimo negli anni Novanta e ha sposato Mike Haley, da cui ha preso il cognome sostituendolo a quello indiano, Randhawa. Parla molto di razzismo, un tema che non vuole sia una prerogativa dei democratici, ed è stata attaccata in televisione da uno scrittore di origine pachistana, Wajahat Ali, che ha detto: “La vedo e mi fa tristezza perché usa la sua pelle marrone come arma contro i neri e gli indiani poveri, usa la sua pelle marrone per riciclare gli obiettivi del suprematismo bianco”.

 

Un altro americano di origini indiane ha deciso di sfruttare questo vuoto – che si riempirà a breve – tra i candidati. Si tratta del trentasettenne Vivek Ramaswamy, un imprenditore biofarmaceutico che non ha alcuna esperienza politica, ma che da qualche anno fa parlare di sé per le sue posizioni anti woke. Anche lui, come Nikki Haley, è figlio di immigrati indiani scolarizzati, un ingegnere e una psichiatra; ha studiato ad Harvard e a Yale e ha scritto due libri sulla cancel culture e il “non si può più dire niente”. Dopo averlo incoronato come ispirazione per il suo attivismo, anche Ramaswamy ha preso le distanze da Trump, ma non quanto gli altri. Ha detto che l’ex presidente non ha il copyright su “America first” e “Make America Great Again” e che sono ottime idee da portare avanti. Ha anche criticato Biden per il suo viaggio nei territori di guerra dicendo: “I nostri leader e Volodymyr Zelensky hanno un programma comune: prima l’Ucraina”. Ramaswamy sembra voler cavalcare più degli altri l’estremismo nazionalista. Pence, nella strana e rapida involuzione del Partito repubblicano, oggi sembra, rispetto ad altri, un moderato, tranne che sulle questioni di aborto e gender. E anche le sue ultime dichiarazioni sulla Russia sembrano ammiccare ai centristi. “In questo partito non c’è spazio per chi difende Putin”, ha detto l’ex vice. Anche Nikki Haley, per prendere le distanze da Trump, ha dichiarato che la guerra non riguarda soltanto l’Ucraina, ma tutto il mondo, che Polonia e Paesi baltici potrebbero essere i prossimi, e ci ha infilato dentro anche la Cina (il nemico numero uno dei trumpiani, insieme alla cancel culture, Nancy Pelosi e i vaccini). 

 

La prepotente componente filo-putiniana dei repubblicani sembra guidata al Congresso da Marjorie Taylor Greene, il nuovo volto dei “pacifisti” isolazionisti: a un anno dall’inizio della guerra, ha parlato dei “113 miliardi di dollari di cui l’Ucraina si è appropriata”, twittando che “l’unico confine che interessa a Washington è quello ucraino”. Ha anche detto che l’Ucraina è il nuovo Iraq, e che l’America è guidata da guerrafondai che ci faranno arrivare alla terza guerra mondiale. La visita a sorpresa di Biden a Kyiv ha portato diverse esponenti repubblicani a dire: perché quest’Amministrazione si occupa così tanto di aiutare altri paesi mentre gli americani soffrono? Perché Biden è andato a Kyiv invece di andare in Ohio, dove è deragliato un treno pieno di materiali tossici? Rappresentante storico dell’establishment del Partito repubblicano, il senatore Mitch McConnell ha cercato di prendere in mano la situazione e dare una linea al partito in favore di “una forte alleanza atlantica” e difendendo le spese militari per l’Ucraina. “Bisogna svegliarsi”, ha detto, “e dare il benvenuto a Svezia e Finlandia nella Nato”. Il Partito repubblicano è, però, e per l’ennesima volta, scisso in due. Una parte vuole affrontare la minaccia russa e un’altra, di scuola trumpiana, ha ancora una fascinazione per Putin e nessun interesse ad aiutare un popolo invaso e bombardato. A guardare i sondaggi, aumenta il numero di americani che vede con scetticismo gli aiuti a Kyiv, e questo potrebbe indirizzare i candidati più populisti. Con un presidente repubblicano nel 2024 non si ha la certezza che, dovesse continuare l’aggressione di Putin in Ucraina, gli Stati Uniti mantengano e guidino la difesa dell’occidente. 

 

Nessuno vede Haley o Ramaswamy (e molti nemmeno Pence) come candidati forti e, probabilmente, entreranno in una lista sempre più ampia di nomi di cui ci si dimenticherà pian piano che avanzano le primarie, così come succede ogni quattro anni. Nel 2016 i candidati erano diciassette, quatto dei quali ritiratisi prima delle primarie. In questo momento però il nome di punta è quello di Ron DeSantis, il “Trump intelligente” che governa la Florida, al quale i talk show conservatori hanno iniziato a fare l’occhiolino. E che Trump ha già iniziato a insultare (il nickname più recente: “Meatball Ron”, Ron Polpetta, per via dell’aspetto e delle origini italiane). Ma anche il governatore della Flori aspetta il momento giusto per lanciarsi nell’arena. Nel fine settimana, ha ospitato diversi importanti donatori e sostenitori al Four Season di Palm Beach (molto meglio dell’Hilton), e tra i partecipanti c’erano tanti membri di quella che fu la corte trumpiana: senatori, governatori, ex membri del gabinetto presidenziale che hanno preso le distanze dal capo dopo il 6 gennaio, donatori importanti, opinionisti televisivi conservatori – ex fedelissimi di Trump alla ricerca di un nuovo condottiero.

 

Sull’invasione russa DeSantis ha già cambiato il tiro: dopo un passato da falco si è avvicinato alle posizioni isolazioniste dei trumpiani, sminuendo l’aggressività di Putin e il pericolo per le altre nazioni vicine e, anche lui, ha criticato Biden perché difende solo i confini di un’altra nazione. L’obiettivo sembrerebbe quello di prendersi tutto l’ex elettorato di Trump, ma la paura del governatore è che la sua celebrazione sia avvenuta troppo presto. I nomi forti di oggi, come ogni volta, potrebbero esser spazzati via dai nomi di domani, così come un Trump, dato per morto, potrebbe tornare con qualche trucchetto alla ribalta. E poi, prima di fare i calcoli, bisogna aspettare lo schieramento della squadra avversaria. I democratici non sanno ancora se Biden vuole estendere la sua permanenza alla Casa Bianca o se anche lì si faranno le primarie, e anche in quel caso i nomi che emergono non sembrano far battere il cuore a nessuno. Ma almeno lì non ci sono filo QAnon, o no-vax o ammiratori dell’imperialismo russo che fanno giravolte incredibili per assecondare la pancia del midwest. I repubblicani continuano a dire: siamo il partito di Reagan e di Lincoln, ma per il 2024 i nomi che circolano finora sono quelli di post trumpiani, filoputiniani o ex trumpiani che tentano di ripulirsi. In alternativa, c’è Trump stesso, l’originale.