la cina guarda l'italia

Le lezioncine da Pechino al governo Meloni

Giulia Pompili

Lobby e propaganda cinesi a tutto spiano, in vista della possibile uscita dell'Italia dalla Via della seta. Sin dalla sua firma, da parte del governo di coalizione tra Lega e Cinque stelle nel marzo 2019, tutte le critiche all'accordo sono menzogne costruite ad arte per favorire l’America

Sin dal suo ingresso nella Via della seta, “alcune forze anti-cinesi fanno pressione sull'Italia affinché si ritiri dall’iniziativa o sia considerata una traditrice dall'occidente guidato dagli Stati Uniti”, si leggeva ieri sul China Daily, il quotidiano in lingua inglese di proprietà del Dipartimento di propaganda del Partito comunista cinese. L’autore del commento, Jiang Yinan, ricercatore dell’Istituto cinese per gli studi internazionali, scrive che queste forze anti-cinesi avrebbero addirittura “diffuso sui media menzogne sulla Via della seta, sminuendone i risultati e sostenendo falsamente che la cooperazione dell'Italia con la Cina sia dannosa per il paese europeo”. Per la narrazione cinese tutte le critiche alla Via della seta, sin dalla sua firma nel marzo del 2019 dal governo di coalizione tra Lega e Cinque stelle, sono menzogne costruite ad arte per favorire l’America. Perfino “alcuni politici italiani”, scrive Jiang, “sono stati fuorviati da questa propaganda e sono pronti a inchinarsi agli Stati Uniti”. Pechino fa leva sul sentimento antiamericano, presente in Italia in modo trasversale, per dare lezioni di “democrazia” e accusare le “forze anti-Cina” di manipolare le notizie. Il problema è che ciò che cerca di dimostrare, e cioè che l’Italia ha avuto enormi benefici in questi quattro anni dalla Via della seta, è semplicemente indimostrabile: i dati dicono l’esatto contrario, e come se non bastasse la situazione politica sia dentro la Cina sia a livello internazionale è cambiata radicalmente.

 

Ciò che “questi propagandisti occidentali non accettano”, sostiene Jiang, è che “la cooperazione sino-italiana nell'ambito dell'iniziativa si basa su scambi bilaterali politici, economici e culturali, che vanno a beneficio dei popoli e servono gli interessi di entrambi i paesi”.  Ma c’è ormai un largo consenso in occidente nel considerare l’esposizione economica con la Cina un rischio che non vale la pena correre. Soprattutto in questa fase: il miracolo cinese è finito, l’economia in rallentamento, la deflazione in agguato, la disoccupazione giovanile a livelli così alti che Pechino ha smesso di pubblicarne i dati. A fine giugno sono entrate in vigore le modifiche di legge ampliano enormemente la definizione di spionaggio in Cina, dando a Pechino ancora più poteri per punire chiunque e qualunque azienda consideri una minaccia alla sicurezza nazionale. Anche per questo la sfiducia di mercati e investitori nei confronti della Cina post-Covid e post-guerra in Ucraina è ai massimi livelli, anche secondo i sondaggi della Camera di commercio europea in Cina. Ma questa è una realtà ignorata dagli attivissimi pro-Cina, come l’ex sottosegretario leghista Michele Geraci, che a fine luglio in una chat dedicata a quelli che lui stesso definisce “gli stakeholder dei memorandum of understanding” firmati con la Cina nel 2019, cioè “le mille aziende italiane che operano in Cina”, chiedeva cosa ne pensassero loro dell’ipotetica uscita dell’Italia dalla Via della seta, un’iniziativa di cui s’intesta la paternità condivisa con “Ettore” (Sequi, oggi vicepresidente di SACE) e Di Maio (Luigi, oggi rappresentante speciale dell'Unione europea per il Golfo Persico).

 

In un commento pubblicato sul China Daily a inizio agosto, Geraci scrive che “nei prossimi mesi, Meloni analizzerà probabilmente vari aspetti dell'iniziativa e io le fornirò tutti i dati e le analisi necessarie sull'economia globale. Mi aspetto che il memorandum d'intesa venga rinnovato” – lo scrive da privato cittadino piuttosto interessato, in quanto docente italiano che insegna in Cina, senza alcun ruolo pubblico in questo governo. C’è poi l’opinione di tale Eusebio Filopatro pubblicata la scorsa settimana dal Global Times, tabloid in inglese del Partito comunista cinese, in cui l’anonimo commentatore “analista di politica estera” critica l’eventuale uscita dalla Via della seta e cita Andreatta per esortare Meloni a recuperare “una diplomazia equilibrata, eterodossa, all’italiana”.

 

Dopo la visita di Giorgia Meloni a Washington e l’intervista del ministro della Difesa Guido Crosetto al Corriere della sera, in cui ha definito l’adesione alla Via della seta “un atto improvvisato e scellerato”, più si avvicina il momento della comunicazione formale che il governo Meloni dovrà fare alle autorità cinesi sull’uscita o meno dal grande progetto strategico di Pechino – entro il 23 dicembre di quest’anno – più la propaganda aumenta, il lavorìo di comunicazione e di lobby si intensifica, così come quello diplomatico.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.