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Erdogan fa bene i calcoli e ha un chiodo fisso: la sua economia

Claudia Cavaliere

Dopo aver vinto le elezioni il presidente turco ora può riprendere in mano le sue politiche internazionali e tentare di risolvere le questioni interne, su cui ha ancora qualche difficoltà dal punto di vista economico. 

La Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha sempre avuto l’ambizione di fare da ponte tra oriente e occidente: il presidente turco al suo terzo mandato presidenziale almeno sulla carta sta incarnando, tra chirurgica spregiudicatezza e lungimirante scaltrezza, il ruolo dell’interlocutore nel dialogo sul grano con la Russia che continua la sua guerra, con la Nato per l’allargamento dei confini e coi paesi del Golfo Persico per attrarre investimenti esteri e tentare di risollevare il paese dopo che le sue sciagurate politiche economiche l’hanno messo in ginocchio. Nelle ultime settimane Erdogan è riuscito a muovere uno dopo l’altro tutti i passi verso un progetto più ampio di stabilizzazione sul fronte internazionale e di conseguenza interno: l’accordo di estradizione, sviluppo energetico e cooperazione spaziale con gli Emirati Arabi Uniti per oltre 50 miliardi di dollari, la promessa dell’Arabia Saudita di comprare i droni turchi nel più grande contratto di difesa nella storia del paese e la decisione dell’Olanda di revocare le restrizioni sulle armi imposte alla Turchia nel 2019.

Poi ha esteso un invito al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – la prima visita di un primo ministro dal 2008 quando il premier era Ehud Olmert – nel contesto della normalizzazione delle relazioni tra i due stati e dopo aver incontrato il presidente palestinese Mahmoud Abbas, il leader di Hamas Ismail Haniyeh e ribadito che l’unica pace  duratura è quella della soluzione a due stati. Prima ancora, dopo mesi di trattative, il presidente turco aveva accettato di revocare il suo dissenso per l’ingresso della Svezia nell’Alleanza atlantica. “Le questioni economiche restano le più urgenti per Erdogan in questo momento, prima ancora di ripensare alle elezioni per riprendersi Ankara e Istanbul a marzo, e la strategia che sta adottando è come mettere un cerotto sulla ferita di una freccia: lui sa che deve risanare l’economia, ma niente di quello che ha fatto ha davvero rassicurato i mercati e questo perché non è stato visto come un tentativo serio di avviare delle riforme”, ha spiegato al Foglio Howard Eissenstat, professore associato di Storia dell’area Mena della Saint Lawrence University.

Andare negli Emirati e ottenere del denaro risulta positivo per entrambi – gli stati del Golfo hanno lanciato piani ambiziosi per diversificare la loro economia dal petrolio, sperando che la Turchia contribuisca allo sviluppo delle industrie locali e al trasferimento di tecnologia – ma non richiede niente in cambio, andare dal Fondo monetario internazionale, invece, sarebbe tutta un’altra storia ed Erdogan lo sa bene, ma non ha nessuna intenzione di farlo perché quel viaggio comporterebbe dei vincoli a cui dovrebbero seguire delle riforme. In condizioni normali, la Turchia dovrebbe ricevere moltissimo denaro in termini di investimenti diretti esteri perché ha tutto quello che degli investitori europei desiderano: è vicina al loro mercato, ha personale abbastanza qualificato ed economicamente parlando è un paese attrattivo.

Le ragioni per cui gli investimenti non aumentano affondano le radici nell’abbattimento dello stato di diritto, nella corruzione, nella limitazione della libertà di stampa, nell’esistenza dei prigionieri politici. “Non è tanto la natura autoritaria del governo turco a limitare gli investimenti occidentali – l’occidente spesso e sfortunatamente intreccia rapporti con regimi autoritari – il problema con la Turchia è che la sua leadership è incline alla corruzione, a non ortodosse pratiche economiche che stanno continuando nonostante la facciata della nomina della nuova banchiera centrale e del ministro delle finanze, ed è arbitraria nelle scelte politiche. Erdogan vuole avere massima libertà nella sua politica estera quando si tratta di confrontarsi con la Grecia  o di stringere legami economici con la Cina. La Turchia esige di  poter fare tutto questo come vuole e quando vuole, con tutti i benefici nella sua relazione con l’occidente ma senza cooperazione o garanzia da parte sua”, ha aggiunto Eissenstat.  Erdogan è astuto: l’apertura verso il Golfo era prevedibile, continua a non fidarsi dell’occidente con reciprocità, fa apparenti passi avanti che potrebbero essere neutralizzati in un secondo, ma non sono diversi da tattiche che ha già usato per decenni. L’ingresso della Svezia è tutto fuorché fatto: il Parlamento turco non si riunirà prima di ottobre per decidere ed Erdogan avrà il tempo per chiedere altro o cambiare idea.  

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