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La memoria sono io

Il lavoro degli studiosi in Russia è diventato impossibile: Putin riscrive i manuali di storia

Giorgio Caravale

Il presidente russo chiude gli istituti di ricerca e manipola il passato. Un meccanismo che non riguarda solo l'Ucraina. Il tentativo di revisione di ciò che è stato è partito all’inizio del nuovo secolo, all’indomani della sua prima elezione presidenziale

Ogni identità collettiva, come del resto ogni identità personale, si fonda su un approccio selettivo al passato, sulla scelta e sulla rilettura di determinati eventi destinati a diventare tessere memoriali di un mosaico il più possibile vicino a ciò che la comunità (o l’individuo) vuole essere, o quantomeno apparire, sul palcoscenico del teatro del mondo. E’ un fenomeno che vale per ogni società in via di costruzione identitaria, per un partito di nuova costituzione così come, a maggior ragione, per uno stato che transita, in modo spesso faticoso e doloroso, da un regime all’altro. Se a questo aggiungiamo il fatto che da quando esiste una qualche forma di potere politico, questo ha cercato in ogni modo di impadronirsi del passato per meglio dominare il presente e meglio governare il futuro, per seguire in altre parole la massima che George Orwell ha scolpito nelle pagine di uno dei suoi più celebri romanzi (“chi controlla il passato controlla il futuro”), si comprende bene come la Storia sia da sempre terra di conquista dei predatori più famelici. 

 

La Storia come disciplina scientifica è nata e si è sviluppata negli ultimi due secoli (anche) come antidoto a questo continuo esercizio manipolatorio del potere politico. La definizione di un metodo rigoroso di scelta e uso delle fonti documentarie, la possibilità per il lettore di verificare, attraverso le note a pie’ di pagina, il modo in cui l’autore o l’autrice ha utilizzato quelle fonti, sono il modo migliore che la scienza ha sperimentato per anestetizzare quell’impulso predatorio. Ecco perché, quando si guarda alla Russia di oggi, ciò che mette maggiormente in allarme non è tanto il tentativo di un regime autoritario di riscrivere il passato in funzione degli obiettivi politici del presente quanto il tentativo di imbavagliare e neutralizzare qualsiasi narrazione alternativa. Ciò che preoccupa davvero non è tanto la costruzione di un nuovo romanzo nazionale quanto l’imposizione di quel romanzo come l’unica narrazione possibile (e legittima): l’utilizzo di strumenti coercitivi che impediscono ai professionisti della storia di esercitare liberamente il loro mestiere, perché quel mestiere rischia di scalfire l’unicità della narrazione dominante.  

 

Nicolas Werth, storico francese e membro di Memorial, un centro di studi nato in tempi di perestroika sotto la presidenza di Andrej Sacharov con l’obiettivo di liberare lo studio del passato dai lacci del potere politico, riflette su questi temi in un prezioso libretto uscito in questi giorni da Einaudi con l’eloquente titolo Putin storico in capo. La visione della storia dell’Ucraina offerta da Putin negli ultimi anni attraverso la sua imponente macchina propagandistica è fondata sulla negazione della possibilità stessa di uno stato ucraino. Dopo l’annessione della Crimea e la proclamazione, da parte dei separatisti filorussi delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk nel 2014, Putin ha rispolverato quel termine zarista, come lui stesso lo definisce, di “Nuova Russia”, ricordando per esempio che “sotto gli zar, Kharkov, Donetsk, Lugansk, Kherson, Mykolaiv, Odessa non facevano parte dell’Ucraina”, ragione per cui questi territori devono tornare alla “Russia storica”, di cui la Russia di Putin si proclama erede, pur designandosi allo stesso tempo, e non senza contraddittorietà, come “stato successore dell’Urss”. In un lungo testo reso pubblico nel luglio 2021 (con il titolo L’unità storica di russi e ucraini), poi ripreso sostanzialmente immutato per il discorso del 21 febbraio 2022 tenuto tre giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, Putin affermò che l’Ucraina non è altro che una costruzione artificiale dell’èra sovietica, frutto della “politica bolscevica delle nazionalità” che avrebbe “perpetuato a livello statale tre popoli slavi distinti (russo, ucraino, bielorusso) anziché una grande nazione russa, un popolo trinitario composto dai Grandi russi, dai Piccoli russi e dai Bielorussi”.

 

Un’Ucraina dunque creata “a spese della Russia storica”, frutto di spericolati esperimenti sociali condotti da quei bolscevichi che volevano abolire gli stati-nazione, ovvero la Russia, “sognando una rivoluzione mondiale”. Il diritto (teorico) delle repubbliche sovietiche a uscire dall’Unione, inserito, su insistenza di Lenin, nella prima Costituzione dell’Urss è, secondo Putin, “la bomba ad orologeria più pericolosa che sia stata piazzata nelle fondamenta delle nostra sovranità” esplosa “nel momento stesso in cui si è tolta la sicura, ovvero il ruolo dirigente del Partito comunista”: una deflagrazione che ha fatto sì che l’Ucraina indipendente sia stata “trascinata dall’Occidente in una pericolosa partita geopolitica, il cui scopo era farne una testa di ponte rivolta contro la Russia”, “una Russia anti-moscovita in continuità con vecchie teorie inventate da ideologi polacchi e austriaci”. 

 

Ma Putin, ci ricorda Werth, non ha certo iniziato a manipolare la Storia a fini di potere all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, e neppure solo dopo l’annessione della Crimea. Il suo tentativo di revisione del passato prese le mosse all’inizio del nuovo secolo, all’indomani della sua prima elezione presidenziale. Esso era imperniato sulla spregiudicata riconciliazione tra passato zarista ed esperienza sovietica, “decomunistizzata” per l’occasione. La riconciliazione passava attraverso la glorificazione di una Grande Russia “eterna”, di uno stato forte in grado di difendere il paese dalla minaccia costante delle potenze straniere. La Grande guerra patriottica, come venne definita la seconda guerra mondiale, diventò per Putin, sin dal 2000, la chiave di volta di tutto il racconto nazionale. 

 

La vittoria del 1945 contro il nemico nazista divenne il fondamento dell’identità nazionale, una vittoria che giustificava e obliterava la violenza della collettivizzazione delle campagne, dell’industrializzazione a tappe forzate, delle repressioni di massa e dei campi di lavoro del Gulag i quali, secondo la nuova narrazione, avrebbero piuttosto contribuito allo sfruttamento delle ricchezze naturali delle regioni più inospitali del paese. In questa radicale rilettura del passato, la rivoluzione del 1917 di Lenin e dei bolscevichi venne ammantata di luce negativa: non però per aver sottratto la Russia alla sua marcia verso una qualche modernità occidentale, bensì per aver capitolato nel 1918 di fronte ai tedeschi, firmando la pace umiliante di Brest-Litovsk, mutilando così la Russia sovietica di ampi territori che gli zar avevano conquistato nel corso dei secoli. La vittoria del 1945 da parte di Stalin, dunque, nella nuova lettura putiniana, riscattò le colpe di Lenin, restaurando i valori del patriottismo vilipesi dalla rivoluzione bolscevica del 1917 e restituendo l’immagine di una Grande Russia potente, potenzialmente invincibile.

 

Già nel 2000, dunque, Putin mise in campo tutto l’armamentario di riscritture, cancellazioni e censure che si accompagna alle più invasive operazioni di manipolazione della Storia. In quell’anno riprese la celebre aria dell’inno sovietico di Aleksandr Aleksandrov cambiandone però radicalmente il testo. Tanto per fare un esempio, la strofa che cantava la gloria dell’“Unione indivisibile di repubbliche libere, che la Grande Russia ha legato per sempre” divenne per l’occasione la “Russia è la nostra santa potenza, Russia è il nostro amato Paese”. Il 2004 fu poi l’anno dell’introduzione di una nuova festa nazionale patriottica, il Giorno dell’Unità nazionale, istituita in ricordo del 4 novembre 1612, data del sollevamento popolare che allontanò le forze d’occupazione polacche da Mosca, segnando la fine del cosiddetto periodo dei torbidi (1598-1612) e l’ascesa della dinastia Romanov, destinata a governare fino al 1917. Ma il 2004 fu anche cambiato il segno alla tradizionale festa del 7 novembre, la data della “Grande Vittoria socialista d’Ottobre”, già trasformata da Eltsin in “Festa della concordia e dell’unità del popolo”, destinata con Putin a diventare invece il giorno della commemorazione della parata militare organizzata da Stalin sulla piazza Rossa il 7 novembre 1941, quando le truppe della Wehrmacht si trovarono a poche decine di chilometri da Mosca: non più dunque la celebrazione della rivoluzione bolscevica ma l’esaltazione dell’eroismo e del sacrificio del popolo russo per la difesa della Patria. 

 

La Seconda guerra mondiale, sempre lei. Una guerra accuratamente ripulita, nella lettura putiniana, di tutte le sbavature dissonanti rispetto al nuovo canto patriottico. Sotto la presidenza di Dmitrij Medvedev, nel 2009, venne creata un’apposita Commissione presidenziale sulla storia, presieduta da Sergei Naryškin, allora capogabinetto di Medvedev e oggi responsabile del servizio di intelligence esterna, con il compito di “raccogliere e analizzare le informazioni relative alla falsificazione dei fatti e degli eventi storici mirante a ledere il prestigio internazionale e gli interessi della Russia”, in particolare di contrastare la “revisione storica della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze geopolitiche”. Come se non bastasse, nel giugno 2012 fu istituita la Società storica russa, incaricata di “unire il paese intorno ai valori essenziali del patriottismo, della coscienza civica e della fedeltà allo stato”, e soprattutto lavorare alla stesura di un nuovo manuale scolastico per arrivare, nientedimeno, a una “norma comune in materia di cultura e storia, in armonia con gli interessi geopolitici della Russia”. Un solo manuale di storia, che facesse tabula rasa di tutti gli altri in circolazione nelle scuole russe, prontamente redatto per l’occasione dal ministro della Cultura in persona, Vladimir Medinskij, dal dicembre 2012 a capo dell’ennesima istituzione destinata a controllare la produzione del racconto storico, la Società russa di storia militare, a sua volta incaricata, va da sé, di “contrastare le iniziative che snaturino e screditino la storia militare della Russia”. In questo manuale unico il posto riservato alle repressioni di massa del periodo staliniano diminuì drasticamente. Solo poche righe dedicate ai Gulag, pochissime alle carestie seguite alla collettivizzazione forzata delle campagne, causa di morte per fame per circa sette milioni di persone tra il 1931 e il 1933, specie in Ucraina dove i contadini resistettero con particolare tenacia al nuovo sistema di produzione imposto dallo stato. Dare spazio a una ricostruzione appena approfondita di quegli eventi significava condannare il regime sovietico nel suo complesso e scuotere le fondamenta del potere putiniano, presentatosi per l’appunto come “l’erede dell’Urss”. 

 

Gli effetti di questa grandiosa macchina propagandistica di manipolazione del passato non hanno tardato a verificarsi. La metà dei giovani russi tra i 18 e i 24 anni dichiara oggi di non aver mai sentito parlare delle repressioni staliniane. Il 70 per cento dei cittadini russi giudica positivamente il ruolo di Stalin nella storia del paese, solo il 14 per cento ne ha un’idea negativa, laddove all’inizio del regime putiniano la percentuale ruotava intorno al 45 per cento. Non c’è che dire. 
Ma l’aspetto più tragico di questa attività predatoria del passato è la criminalizzazione del dissenso, la sistematica demonizzazione, se non l’esplicita persecuzione degli storici che hanno osato issare in questi ultimi due decenni la bandiera della libertà della ricerca storica.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina le misure di controllo censorio hanno infatti ricevuto un ulteriore impulso. E’ stato esplicitamente proibito di “porre sullo stesso piano le finalità e le azioni dell’Unione sovietica e quelle della Germania durante la Seconda guerra mondiale”, il che ha implicato l’emarginazione e la condanna di quegli storici che hanno avuto l’ardire di ricordare che “i dirigenti comunisti sovietici hanno collaborato attivamente con la Germania nazista per suddividere l’Europa secondo i termini del patto Molotov-Ribbentrop”, o che “l’Urss e la Germania hanno attaccato congiuntamente la Polonia provocando lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel sett. 1939”, oppure hanno alluso ai “crimini commessi dall’Armata rossa contro la popolazione civile tedesca nel 1945”. Lo storico Jurij Dmitriev, responsabile dell’associazione Memorial in Carelia, regione nella quale in gran segreto furono uccisi oltre seimila uomini condannati a morte durante il Grande Terrore del 1937-38, colpevole di essere l’autore di una decina di Libri della memoria dedicati a questi temi, è finito agli arresti domiciliari nel 2016 con l’accusa strumentale e infamante di pedofilia, prosciolto nel 2018, infine condannato in appello nel dicembre 2021 a quindici anni di reclusione in una colonia penale a regime duro. Poche settimane dopo questa condanna, il 27 dicembre, al termine dell’ennesimo processo giudiziario che ha portato la Storia in tribunale, è stato chiuso lo stesso Centro per i diritti umani di Memorial, accusato di “proporre una immagine menzognera dell’Urss come di uno Stato terrorista”, nelle parole della requisitoria del procuratore Aleksej Zafjarov.

 

Un centro il cui scopo è stato a lungo quello di creare degli archivi civici che potessero supplire a quelli dello stato-partito ancora per la maggior parte chiusi, o aperti per un periodo troppo breve. Un centro che ha raccolto negli anni migliaia di testimonianze di sopravvissuti e migliaia di lettere, diari, documenti privati riguardanti le repressioni di massa staliniane. Che ora grida il suo dissenso attraverso la penna dello storico francese Nicolas Werth. Ma che in Russia non ha più diritto di parola.

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