Putin non è invincibile. Più di Prigozhin lo dicono gli influencer della libertà

Claudio Cerasa

La guerra si può vincere. E per vincerla occorre ricordare che un occidente che arretra di fronte a un criminale di guerra non lavora per la pace, lavora per la resa. E grazie al presidente Zelensky che ce l’ha sempre ricordato in questi mesi

Dicevano che la Russia era invincibile. Che le milizie di Putin erano inscalfibili. Che aiutare l’esercito ucraino era suicida. Che sostenere Kyiv significava solo prolungare la guerra. Che inviare armi era solo una provocazione. E che il modo migliore di lavorare per la pace era non fare nulla, perché fare qualcosa, qualsiasi cosa, ovvero intervenire, sostenere, reagire, avrebbe messo l’occidente dalla parte sbagliata della storia. Dalla parte dei falchi. Dalla parte dei guerrafondai. Dalla parte dei sostenitori dell’escalation. E invece. La tentata marcia su Mosca organizzata sabato scorso dalle milizie guidate da Prigozhin ha contribuito a rafforzare una convinzione dolorosa per i cavalli di Troia del putinismo. Una convinzione non scontata relativa all’andamento del conflitto in Ucraina. Una convinzione che potremmo sintetizzare facilmente così: un anno e mezzo dopo l’invasione dell’Ucraina, il vero caos da monitorare non è quello che si trova in occidente ma è quello che si trova Russia.

 

Il tentativo di Prigozhin di avvicinarsi indisturbato verso il cuore del potere russo è solo la punta dello sgretolarsi di un mito, quello dell’invulnerabilità di Vladimir Putin, ed è un mito che negli ultimi diciotto mesi ha visto perdere pezzi con una certa costanza. Si pensava che quella in Ucraina dovesse essere una guerra lampo e così non è stato. Si pensava che il presidente ucraino dovesse scappare con la coda in tra le gambe e così non è stato. Si pensava che l’esercito russo sarebbe passato in Ucraina come una lama nel burro e così non è stato. Si pensava che l’occidente si sarebbe diviso e così non è stato. Si pensava che i numeri dell’esercito russo fossero tali da evitare arruolamenti di milizie non esperte e così non è stato. Si pensava che la controffensiva ucraina fosse solo una messa in scena occidentale e così non è stato. E si pensava che la Russia fosse un blocco unito, impenetrabile alle divisioni, impermeabile alle ribellioni, e così non è stato.

 

L’autorità di un capobanda, ha scritto Giuliano Ferrara, si regge sulla sua invulnerabilità, anche potenziale, e per quanto le letture dietrologiche possano essere suggestive – “Putin si è fatto l’auto golpe come Erdogan per rafforzarsi” – oggi quel mito è meno solido di un tempo e l’idea, come suggerisce oggi sul Foglio il nostro Vittorio Emanuele Parsi, che una vittoria contro il macellaio russo sia possibile è un’idea decisamente non più remota rispetto a qualche mese fa, e getta inevitabilmente nel panico tutti coloro che in questi mesi hanno sostenuto con forza che l’unico modo per arrivare a una pace giusta, in Ucraina, fosse quella di deporre le armi, di non aiutare Kyiv e di mettere un punto al conflitto lasciando a Putin tutto quello che si è conquistato sul campo. E invece no. E invece la storia, ogni giorno, ci sta dimostrando, con i fatti, che sostenere l’Ucraina, sostenere la sua resistenza, sostenere la sua controffensiva non è un inno alla guerra ma è il modo migliore per aumentare le possibilità che l’Ucraina ce la possa fare e che la Russia di Putin possa fare i conti, anche internamente, con una guerra che Putin semplicemente non sta vincendo.

 

Non sapremo che conseguenze avrà il tentativo fallito di marciare su Mosca ma sappiamo con certezza che colui che in questi mesi ha a spinto l’occidente a rimanere in piedi, motivandolo, indirizzandolo, spronandolo, è colui che un giorno la storia ricorderà come il primo grande influencer della libertà: Volodymyr Zelensky. Zelensky, in questi mesi, ci ha insegnato molto. Ci ha insegnato a credere nell’Europa. Ci ha insegnato ad avere fiducia nell’occidente. Ci ha insegnato a riconoscere i germi dell’autoritarismo. Ci ha costretto a mettere da parte le nostre ipocrisie pacifiste. Ha spinto i paesi neutrali a non voltarsi dall’altra parte di fronte ai nemici della libertà. Ha permesso agli Stati Uniti di tornare a esercitare la propria egemonia nel mondo libero. Ha spinto i cavalli di Troia del putinismo a rimettere in discussione il proprio passato. Ha smascherato i finti amici delle democrazie liberali. Ha costretto l’Europa a velocizzare i suoi processi decisionali. Ha permesso ai protagonisti della globalizzazione di ricordare quanto i mercati possano giocare un ruolo cruciale nel combattere i regimi infami e nel difendere le libertà individuale. Ha messo di fronte agli occhi dell’occidente i suoi peccati in materia energetica. Ha costretto i paesi schiavi della Russia a fare un passo lontano da Putin. Ha costretto la stessa Unione europea a sentirsi responsabilizzata sul fronte della difesa della libertà. E ha mostrato cosa vuol dire difendere i confini di una democrazia liberale. “Chi sceglie la via del male – ha detto sabato Zelensky poche ore prime dell’arresto della marcia di Prigozhin – distrugge se stesso. Chi getta centinaia di migliaia di uomini in una guerra, per poi barricarsi a Mosca per difendersi da coloro che lui stesso ha armato, disprezza gli esseri umani. La Russia ha usato per molto tempo la propaganda per mascherare la sua debolezza e la stupidità del suo governo. Ora il caos della Russia è di fronte ai nostri occhi e nessuna bugia può più nasconderlo”.

Difficile dire oggi cosa accadrà in Russia. Ma impossibile non pensare che il problema dell’occidente di fronte ai regimi illiberali non è quello che fa, il sostegno che offre, il tentativo di difendere la libertà, ma è quasi sempre quello che non fa. E’ stata la non azione nei confronti della Russia in questi anni ad aver spinto la Russia a infilare la sua lama nel corpo morbido dell’occidente e a far pensare a Putin che gli alleati della Nato non avrebbero mai mosso un dito per proteggere l’Ucraina. Ed è stata l’azione dell’occidente, in questi mesi, grazie all’aiuto di Zelensky, ad aver spinto Putin più lontano dai suoi obiettivi, ad aver mostrato con chiarezza chi considera la violazione dei confini di un paese sovrano un atto accettabile e ad aver ricordato al mondo che quando vi è un regime criminale, guidato da un macellaio che agisce con metodi da terroristi, non scegliere da che parte stare significa già aver fatto una scelta. Significa aver già scelto di non voler considerare quel regime e le sue azioni un pericolo imminente per le  democrazie mondiali, una minaccia per la nostra libertà. I cavalli di Troia del putinismo, molto diffusi in Italia, sostenevano che il modo migliore di lavorare per la pace fosse non fare nulla, perché fare qualcosa, qualsiasi cosa, ovvero intervenire, sostenere, reagire, avrebbe messo l’occidente dalla parte sbagliata della storia. Le debolezze della Russia, la controffensiva dell’Ucraina, la compattezza dell’Europa e il coraggio dei paesi atlantisti dimostrano ancora una volta che è vero il contrario. La guerra si può vincere. E per vincerla occorre ricordare che un occidente che arretra di fronte a un criminale di guerra non è un occidente che lavora per la pace. E’ un occidente che lavora per la resa. Valeva ieri, valeva oggi. Viva i nostri formidabili influencer della libertà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.