Berlusconi, il seduttore atlantista e i dittatori "vicini"

Paola Peduzzi

L’alleanza con l’America a ogni costo, pure se c’è da litigare con gli europei. L’istinto e il mercato del Cav. come guida

Milano. Silvio Berlusconi è stato un leader internazionale atlantista, anti comunista e pro occidente, che ha messo in atto, con quella sua diplomazia fuori dai codici, sfacciata e ironica, la grande trasformazione ideologica post Guerra fredda: il mercato garantisce la pace,  il resto è mettersi d’accordo – con chiunque fosse necessario, buoni e cattivi. Nato prima della Seconda guerra mondiale, espressione dell’esuberanza degli anni Novanta, nell’ottobre dell’anno scorso, quando la sua amicizia con Vladimir Putin è (ri)diventata un problema in un governo che lavora con sanzioni e armi all’isolamento della Russia, Berlusconi,  socio di ultraminoranza di una destra dai connotati  nuovi, aveva detto: l’America, la Nato, i valori occidentali sono il fulcro del mio impegno politico, nessuno può metterlo in discussione. 

 

Nei tanti necrologi internazionali, prevedibilmente antipatizzanti, la dicitura “atlantista” ricorre spesso, accompagnata da un avverbio: avidamente atlantista, testardamente atlantista – un tratto riconoscibile ma non per questo apprezzato perché andare a braccetto con l’America dei primi anni Duemila, nell’occidente sconvolto dal terrorismo islamista, ha significato schierarsi con i volenterosi della guerra in Iraq, e quindi passare alla storia come guerrafondai abbagliati dalla bugia delle armi di distruzione di massa di Saddam. In quegli anni in cui l’ordine occidentale si spezzava sulla dorsale transatlantica con la Francia e la Germania e si delineava “l’asse del male”, Berlusconi sostenne l’utilizzo della forza militare per disarmare i terroristi, mobilitò i contingenti italiani, pianse per l’attacco a Nassiriya, minacciò più volte il ritiro delle  truppe italiane senza però far mai mancare il proprio sostegno a Bush, Blair, Aznar nella guerra al terrore.

 

Il “nostro secondo alleato più importante d’Europa”, come lo definì l’allora presidente americano, non è mai sembrato il “burattino” Blair, perché mentre dava l’appoggio incondizionato a Washington Berlusconi ridisegnava le alleanze nel Mediterraneo, spostava un paese storicamente pro arabo verso Israele e verso la Turchia, chiedendo l’ingresso del primo nella Nato e della seconda nell’Unione europea, ponendosi come unico garante affidabile di un nuovo assetto internazionale, nel quale anche la Russia di Putin doveva avere un ruolo. Due pesi e due misure, anzi mille pesi e mille misure, perché Berlusconi non aveva una dottrina cui ispirarsi, gettava via scartoffie, precedenti storici e protocolli, affidandosi al proprio istinto e alla presunzione di saper riconoscere e quindi governare gli istinti degli altri. E’ diventato amico di Vladimir Putin, di Recep Tayyip Erdogan, di Muammar Gheddafi soprattutto, rispondendo a ogni critica: io so come fare, facendo coesistere l’allineamento ai valori occidentali con quello ai regimi, polarizzato presso se stesso.

 

E’ più amico dei dittatori che degli europei, hanno spesso sottolineato i commentatori internazionali, ricordando il “kapò” detto all’europarlamentare tedesco Martin Schulz come il sintomo della predisposizione berlusconiana ad attaccare gli alleati e ad assecondare i non alleati. Riaccadde durante le primavere arabe, quando ad andare a cercare “casa per casa” per ammazzare i propri cittadini in rivolta fu il regime libico dell’amico Gheddafi: l’America di Obama aveva introdotto il suo “leading from behind”, cioè aveva detto agli europei di occuparsi loro di quel pezzo di mondo in cui avevano così tanti interessi, e i francesi avevano colto l’occasione per guidare la missione contro Tripoli: Berlusconi si mise di traverso, accusando il pur contiguo Sarkozy di essere un colonialista assetato di petrolio. Nella continua sovrapposizione tra interesse privato e interesse pubblico  – senza mai cedere  all’interesse nazionale “first” che ha oggi deformato le destre occidentali – Berlusconi non pensava di prendere certe decisioni per i soldi, ma con i soldi: al netto delle corna nelle foto, delle pacche sulle spalle, dell’approccio personalistico agli affari del mondo, il berlusconismo è l’essenza del mercatismo che ha governato le relazioni internazionali dalla caduta del Muro di Berlino in poi. Tutti i leader occidentali erano convinti che il mercato e gli scambi fossero la garanzia per la pace: alcuni insistevano di più sui princìpi umanitari, altri di diritti non hanno mai parlato, ma il grande traino dell’occidente era il benessere. Con l’invasione dell’Ucraina già nel 2014 Putin dimostrò che il paradigma non valeva più, nel 2022 questo è risultato lampante – a Berlusconi, ormai attardatosi nella sua visione del mondo, no. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi