La crisi cubana di Biden

Giulia Pompili

Una presunta base spia della Cina mostra la spaccatura tra i falchi repubblicani e la Casa Bianca. Il viaggio a Pechino di Blinken si farà (per ora)

Cuba sarebbe pronta a concedere alla Repubblica popolare cinese un’area sul suo territorio per installare un’infrastruttura di spionaggio a poco più di 160 chilometri dalla Florida. La notizia, rivelata l’altro ieri dal Wall Street Journal, si basa su delle fonti d’intelligence che hanno parlato di un “accordo di principio” tra Pechino e L’Avana.  I due paesi hanno smentito di voler costruire una “base di spionaggio” sull’isola protagonista, nel 1962, di uno degli episodi più critici della Guerra fredda, e ieri l’ambasciatore cinese a Cuba ha scritto su Twitter che l’America spia più della Cina e quindi non dovrebbe dar lezioni. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha risposto così  ieri a una domanda di un giornalista dell’Afp sul tema: “Non so di cosa parli”. Poi ha aggiunto che “l’America deve riflettere su se stessa e smettere di interferire negli affari interni di Cuba con il pretesto della libertà, della democrazia e dei diritti umani”. 


Il tweet dell’attivista cubano Manolo de los Santos “Trump ha inventato la ‘Sindrome dell’Avana’ come scusa per imporre 243 nuove sanzioni contro Cuba. Biden è più fantasioso e inventa una ‘Base di spionaggio’ cinese. Cosa verrà dopo?”, è stato il più rilanciato da tutti i funzionari pubblici cinesi sul social network da sempre censurato in Cina. Fin qui la solita dinamica di accuse e controaccuse e di whataboutism, espediente retorico tipico della propaganda (“E allora Guantanamo?!”). Solo che ieri pure John Kirby, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale americano, ha cercato di minimizzare le analisi dei media: “Ho letto i resoconti della stampa. Non sono accurati”, ha detto alla Msnbc. E la ragione di questa cautela va ricercata nell’atteso viaggio in Cina, previsto la prossima settimana, del segretario di stato Antony Blinken, e nell’azione diplomatica che sta tentando la Casa Bianca, dopo il viaggio a Pechino del capo della Cia William Burns e i colloqui tra il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan e il capo della diplomazia cinese Wang Yi a Vienna il mese scorso. Washington vuole trovare un modo per parlare con Pechino, ma l’opposizione interna al presidente Joe Biden chiede una linea durissima e oltranzista contro Pechino. Lo scorso febbraio, dopo l’incidente del pallone-spia cinese che sorvolava l’America, fu proprio per le pressioni dei repubblicani che Blinken decise di rimandare “a data da destinarsi” il suo previsto viaggio in Cina. La scorsa settimana, per esempio, Daniel Kritenbrink, assistente del segretario di stato per gli Affari dell’Asia orientale e del Pacifico, è andato a Pechino presumibilmente per preparare la visita di Blinken. Solo che è atterrato in Cina domenica scorsa, il 4 giugno, cioè il giorno più sensibile per la memoria dei cinesi, quello dell’anniversario della strage di piazza Tiananmen. Una bella vittoria per la propaganda di Pechino, e infatti il repubblicano Mike Gallagher, presidente della Commissione Cina del Congresso, ha detto che la decisione del dipartimento di stato di viaggiare in Cina quel giorno è “un oltraggio”. 


Che la notizia di una possibile base di spionaggio cinese a Cuba sia diventata oggetto di una partita politica interna, in America, lo dimostra anche il fatto che è vero, si tratterebbe di una base militare cinese incredibilmente vicina a territori sensibili americani, ma Pechino già da anni inaugura basi d’intelligence in territori “amici”,  specialmente in America del sud. Ci sono attualmente undici stazioni di terra cinesi in America del sud (sì trovano lì perché forniscono la copertura dei cieli sopra l’emisfero australe). Ufficialmente servono per controllare i satelliti in orbita, ma un recente studio del Csis rileva che “la loro vicinanza agli Stati Uniti ha aumentato i timori che possano essere utilizzati per spiare le risorse americane e intercettare informazioni sensibili”. Per l’America di Biden la crescente aggressività cinese è una priorità, ma il tentativo di riaprire il dialogo e non aumentare l’escalation, in questo momento, è evidente solo da parte della Casa Bianca. Anche a costo di far impazzire i repubblicani.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.