Foto di Denis Closon, via Ansa  

Editoriali

In Belgio l'eutanasia è diventata cura al mal di vivere. Il caso Lhermitte

Redazione

La legge è finita in un piano inclinatissimo e distopico. Applicata anche ai detenuti appare, per molti versi, simile a una pena di morte 

Shanti De Corte era sopravvissuta agli attentati di Bruxelles. Ha presentato una richiesta di eutanasia per “sofferenze psichiche” ed è stata accolta. Due gemelli di Anversa, sul punto di diventare ciechi, sono stati soppressi insieme. Come Nathan Verhelst, transgender, dopo un intervento chirurgico fallito. E Frank Van Den Bleeken, incarcerato per omicidio. E Tine Nys, cui era stato diagnosticato l’autismo. Adesso è la volta di Genevieve Lhermitte, che nel 2007 aveva ucciso a coltellate i cinque figli ed era stata condannata all’ergastolo. Nei giorni scorsi è morta dopo aver chiesto e ottenuto l’eutanasia “per sofferenza psicologica irreversibile”. Nei giorni precedenti c’era stato il caso di Nathalie Huigens, vittima di stupro, anche lei ha avuto accesso al programma eutanasia. 

 

Lo stato belga ha autorizzato l’uccisione di un prigioniero 105 anni dopo la sua ultima esecuzione in tempo di pace. Il caso Lhermitte mina una delle affermazioni centrali degli attivisti del suicidio assistito: che l’eutanasia è un atto di “autonomia e scelta”. Ma come può un detenuto – o una persona che si trova  in una struttura psichiatrica – prendere una decisione libera? 

 

L’eutanasia per i detenuti sembra, per molti versi, una nuova pena di morte. L’anno scorso, il Belgio ha giustamente annunciato che “la lotta alla pena di morte è una priorità della politica belga in materia di diritti umani”, definendo la pena di morte una “grave violazione della… dignità umana”. Ma la morte di Lhermitte ci mostra che una pena di morte de facto – purché il detenuto lo “desideri” – è ora operativa in Belgio per la prima volta dal 1950. E dovrebbe farci riflettere sul piano inclinato cui porta l’eutanasia legale e on demand.

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