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24 febbraio 2022-24 febbraio 2023

Quella in Ucraina è anche la guerra delle Chiese

Matteo Matzuzzi

Il lato religioso del conflitto fra gli ortodossi fedeli a Mosca e quelli che sostengono Kyiv. Spie nei monasteri, preti doppiogiochisti e vescovi collusi con il nemico. Tutto in nome di Dio

Perfino le suore possono essere spie di Mosca, mandate in Ucraina dal Patriarcato con l’incarico di controllare l’attività di preti e vescovi. Tra una preghiera e l’altra, tengono il registro di chi entra e di chi esce dai palazzi episcopali e dalle canoniche, guardano l’agenda del proprio superiore, scattano qualche foto se necessario e riferiscono tutto all’amministrazione guidata da Kirill, qualche centinaio di migliaio di chilometri più a nord. Pare un romanzo ottocentesco, un feuilleton dostoevskijano, dove tra pope chiacchieroni e starets enigmatici, il mistero dominava incontrastato. O anche un capitolo della vita della Chiesa oltrecortina, quando il Partito controllava tutto e poi interveniva, raramente con tatto e prudenza.

 

Questa però è cronaca reale. Lo dimostra la retata dello scorso dicembre, quando dieci fra sacerdoti e vescovi – tutti facenti capo al Patriarcato moscovita – sono finiti sul banco degli imputati con l’accusa di collaborazionismo con il nemico, promozione di narrazione filorussa e giustificazione dell’aggressione militare. Le prove erano schiaccianti, i servizi segreti ucraini hanno trovato di tutto, nelle residenze e nelle povere celle di questi membri del clero: passaporti russi, materiale di propaganda anti ucraina, libri che negano perfino l’esistenza del popolo ucraino, icone rubate durante le ispezioni condotte in tredici fra chiese e monasteri affiliati al Patriarcato di Mosca. Perfino video con preti che inneggiano a santa madre Russia. Immancabili i saggi che dipingono Vladimir Putin come un novello Cristo tornato fra noi. Il capo della Chiesa ortodossa di Lysychansk è stato condannato a dodici anni di carcere perché ha passato informazioni ai russi sugli spostamenti delle truppe di Kyiv nella regione di Luhansk. Nella lista dei traditori è finito pure Petro Dmytrovych Lebid, vicario della Santa Dormizione nel monastero delle Grotte, il santuario considerato la culla del monachesimo ortodosso. Il 2 dicembre, Volodymyr Zelensky aveva firmato un decreto che metteva al bando i gruppi religiosi legati a Mosca, con relative sanzioni comminate a diversi vescovi del Patriarcato. E’ un primo passo, perché l’obiettivo dichiarato è di rendere di fatto impossibile alle organizzazioni religiose legate a centri di influenza in Russia di operare in Ucraina. Se necessario, ed è ciò cui punta una larga parte dello schieramento politico di Kyiv, si arriverà a rendere illegale l’azione della Chiesa ortodossa ucraina dipendente dal Patriarcato.

 

Questione, questa, più che mai delicata, perché mal si concilierebbe con il principio della libertà religiosa che diversi osservatori stranieri hanno da settimane messo in evidenza. Al momento, come ha detto Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc e capo e padre della Chiesa greco-cattolica ucraina, sono stati presentati nove progetti di legge che puntano a rendere difficoltosa (o illegale) l’attività della Chiesa dipendente da Kirill. E’ probabile che prima o poi, perdurante la situazione di guerra, almeno una di queste proposte sarà approvata. Anche perché – sottolineava Shevchuk in una conversazione cui ha partecipato il Foglio – non c’è al momento alcuna prova che la Chiesa ortodossa ucraina abbia tagliato i legami con Mosca. Sì, formalmente il metropolita Onufri ha condannato l’azione di Putin, implorando Kirill di intervenire per porre fine “immediatamente allo spargimento di sangue fratricida”, ma sul campo la storia è diversa, ed è quella di preti obbedienti a Mosca che si rifiutano perfino di celebrare i funerali degli ucraini che hanno scelto di aderire alla Chiesa autocefala ucraina, quella benedetta dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e fieramente ostile a Kirill. Mettere al bando la Chiesa con più parrocchie in terra ucraina avrebbe effetti che subito travalicherebbero sul piano politico, perché è indubbio che il Cremlino non accetterebbe mai di togliere al fedele Patriarca una larga parte del suo “gregge”. E’ anche una questione di prestigio, dopotutto, e Putin non vuole farsi umiliare ulteriormente. Si tratterebbe però di una misura estremamente popolare: secondo il New York Times, il 51 per cento degli ucraini auspicava già poche settimane dopo lo scoppio delle ostilità che la Chiesa ortodossa fedele a Mosca fosse messa fuori legge, percentuale cresciuta mese dopo mese, man mano che il fuoco russo radeva al suolo città e villaggi, non risparmiando neppure chiese e altri luoghi di culto. “Bisogna decidere davvero da che parte stare”, ha detto il teologo Nicholas Denysenko, sintetizzando come meglio non si potrebbe la situazione sul campo. A Kyiv si cercherà di rendere insostenibile la pressione su Onufri, sperando che dichiari la propria indipendenza da Mosca. Il punto è che un tale atto porterebbe la Chiesa ortodossa ucraina a doversi unificare con quella fedele a Costantinopoli. Chiesa che, per Kirill, non esiste. Onufri non ha intenzione di farlo, almeno per ora. Significherebbe infilarsi in un tunnel senza sapere come uscirne, stretto fra la fedeltà a Mosca e l’ala patriottica che vuole dare il proprio sangue per l’Ucraina libera. I numeri – ancora – sono dalla sua parte, la Chiesa da lui guidata è maggioranza fra i fedeli, benché lungo il fronte, proprio nei territori dove più preponderante la presenza russa, in tanti abbiano scelto di voltargli le spalle, scegliendo la Chiesa autocefala. E’ una situazione che se non gestita con prudenza e saggezza potrebbe portare a innervare di elementi religiosi e trascendentali la guerra in corso.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.