Keir Starmer, leader del Partito Laburista (Lapresse)

L'intervista

Alex Niven ci spiega come il Labour vuole far fruttare il disastro dei Tory

Luciana Grosso

Con il nuovo libro in uscita oggi, "The North Will Rise Again", lo scrittore ripercorre la recente storia politica inglese. Un piccolo manuale per la riconquista delle ex roccaforti rosse che "rischiano di essere dimenticate"

“Per capire i problemi delle zone più povere e neglette del Regno Unito, occorre partire dal suo opposto, dalla zona più moderna e ricca, da Londra. Se si guarda alla capitale, alla sua ricchezza e al modo in cui attira e drena tutte le risorse del paese, si capisce perché il resto del Regno Unito è in affanno. Gli altri paesi, con l’eccezione forse della Francia, hanno più centri direzionali, più città importanti: Berlino e Francoforte; Roma e Milano; Madrid e Barcellona. Nel Regno Unito, invece no. Nel Regno Unito c’è solo una grandissima città e poi niente. Così tutto quello che c’è di buono si concentra su Londra e per chi non vive e lavora lì, ci sono solo scarti”. A parlare così è Alex Niven, docente di Letteratura inglese all’università di NewCastle, giornalista e analista politico, nonché dichiarato sostenitore del Labour (declinazione Corbyn). Oggi esce il suo nuovo libro, “The North Will Rise Again”, dedicato al nord del Regno, zona povera, che per decenni è stata abitata per lo più da minatori e operai e che, sempre per decenni, ha votato laburista, tanto da essere soprannominata red wall, il muro rosso, la roccaforte della sinistra inglese. Poi le cose sono cambiate. I minatori e gli operai si sono trasformati in disoccupati e i voti per il Labour si sono trasformati, nella notte delle elezioni del 2019, in voti per i Tory. E così il muro è venuto giù. 

 

“La storia della zona settentrionale dell’Inghilterra è simile a quello che è successo in molte altre zone operaie che si sono ritrovate superate dai modelli produttivi contemporanei: con la chiusura delle fabbriche e delle miniere, che sono state delocalizzate o che semplicemente non servivano più, i vecchi operai e i vecchi minatori sono diventati o pensionati o disoccupati. Chi ha potuto o dovuto se n’è andato, innescando un progressivo spopolamento che ha fatto sì che, in quell’area, rimanessero solo le persone più anziane, agricoltori o persone molto deluse e arrabbiate: fasce di popolazione che, per indole e cultura, tendono a votare a destra. I più giovani, più impegnati, e anche i più progressisti, invece, se ne sono andati, portando con sé anche i loro voti. Così si è creata una specie di apertura a forbice: i più giovani e progressisti se ne sono andati, quelli che sono rimasti hanno votato Tory, o per convinzione o per delusione”. 

 

Eppure lo spopolamento e la scollatura tra operai e sinistra, oltre che l’eterno dilemma della rappresentanza, spiegano solo in parte la fine del controllo del Labour sulla zona che più gli era stata fedele. Per esempio: perché un’area così “rossa” ha votato compatta per Tony Blair, e non per Jeremy Corbyn?  “Per varie ragioni: la prima è che ai tempi del New Labour non si era ancora del tutto compiuto il cambiamento demografico di cui dicevamo: le persone erano meno anziane e meno impoverite; la seconda è che ai tempi di Blair, che pure non era esattamente il leader che sognavano da quelle parti, l’ipotesi di votare qualsiasi cosa non fosse Labour era un tabù assoluto, semplicemente inconcepibile; la terza è che, per quanto fosse evidente che Blair puntasse ad accreditarsi più con la City che con i minatori e gli operai, ebbe però cura di non trascurare quelle zone; la quarta ragione è che Jeremy Corbyn, a differenza di Blair, non ha mai vinto le elezioni, dunque non ha mai potuto fare davvero niente di concreto; la quinta poi, ovviamente, è sempre la solita: la Brexit”. Alla fine, stringi stringi, è su quel leave che le crepe nel muro si sono allargate. “Nel 2016, da queste parti, il leave ha stravinto, con percentuali attorno al 70 per cento. Ed era piaciuto poco il fatto che, nonostante le mille perplessità di Corbyn, il Labour fosse sostanzialmente per il remain. Ancor meno è piaciuto il fatto che, nella campagna elettorale del 2019, il Labour proponesse esplicitamente, nel suo programma, un second vote, una specie di referendum confermativo. Quella proposta fu percepita per quello che era in realtà: un disperato tentativo dei remainers sconfitti di inventarsi una di rivincita. Ma le regole, e lo penso anche io che pure ho votato remain, alle elezioni, non sono queste. Quando perdi hai perso. Fine”. 

 

Dunque fine della rappresentanza e fine della fiducia. Ma non fine del Labour che, a dispetto del crollo del red wall, nei sondaggi gode di ottima salute e, anzi, veleggia dalle parti del 50 per cento. “Sir Keir Starmer ha il vento dalla sua: gode i frutti della completa impopolarità dei Tory, incluso il premier Rishi Sunak, e ha capito che il capitolo Brexit non va più riaperto. Inoltre ha un profilo che lo rende gradito ai conservatori moderati, cosa che gli sta permettendo di erodere il consenso dei conservatori. Ma da questo a che divenga davvero premier c’è molto da fare”. E anche molto da aspettare, visto che le elezioni sono previste per la fine del 2024. “Quando la campagna elettorale inizierà davvero capiremo cosa può fare Starmer. Allora si parlerà di programmi e proposte e Starmer dovrà scegliere, lui come tutti, quale elettorato inseguire. Se prometterà riforme radicali potrebbe riconquistare il nord, ma perdere il voto moderato”. Così, dunque, si compie il destino delle ex roccaforti, che dopo anni di fedeltà assoluta, pretendono di essere corteggiate di nuovo ma rischiano di essere abbandonate del tutto.

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