La Brexit non piace più e la colpa è dei Tory. La grande occasione del Labour

Paola Peduzzi

Il divorzio dall’Ue, che per molto tempo è stata una questione trasversale, ora è diventata una questione di parte, della destra. Dopo tre anni i dati mostrano che il malcontento è ormai molto diffuso in tutto il paese

Il 31 gennaio del 2020, il Regno Unito organizzò la festa del suo divorzio dall’Unione europea: dopo quasi quattro anni dal referendum sulla Brexit e un faticosissimo negoziato che ha scompigliato in modo irreversibile il Partito conservatore al governo, l’accordo con Bruxelles era stato trovato, la bandiera britannica era stata tolta dai palazzi europei, il Regno Unito era finalmente libero, ci fu il conto alla rovescia, i palazzi si colorarono della bandiera britannica, fu introdotta la moneta celebrativa da 50 pence. Tre anni dopo, il bilancio di quella libertà voluta con una tigna ostile e minacciosa è piuttosto misero: i tanti studi che sono stati fatti per quantificare l’effetto Brexit non riescono a isolare del tutto il divorzio inglese dalle altre catastrofi accadute nel frattempo – la pandemia e la guerra in Europa soprattutto – ma nessuno indica qualche vantaggio chiaro, certo non l’affermarsi della Global Britain su cui si è fantasticato lungamente.

 

Che la Brexit funziona non lo dicono più quasi nemmeno i brexiteers che al limite trovano alibi esogeni per un fallimento su tutti i fronti, che Tom McTague, un giornalista britannico che ha sempre cercato di collocare la Brexit dentro a una logica per spiegarla in modo atipico rispetto al mainstream, sintetizza così: “Il Regno Unito ha costruito una frontiera commerciale all’interno del proprio paese senza preoccuparsi di far rispettare i propri confini. Ha firmato accordi commerciali che rendono più difficile per i produttori britannici le esportazioni senza rendere più difficile per i concorrenti stranieri le importazioni dentro al Regno Unito. Ha permesso che l’immigrazione aumentasse, perché non è riuscito a fermare gli attraversamenti. Ha lasciato che il servizio sanitario crollasse e ha iniziato un nuovo ciclo di austerità”. C’è chi dice che bisogna dare tempo a un progetto del genere per ottimizzarsi e che sono stati anni funesti per tutti, figurarsi per un paese che decide, per la prima volta nella storia, di uscire dall’Ue, ma è anche vero che il Partito conservatore, che ha voluto, gestito e condizionato il divorzio, non avrebbe potuto creare dei risultati tanto divergenti dagli obiettivi fissati dal leave nemmeno se ci si fosse impegnato. 

 

Il sito UnHerd, di cui McTague è diventato da poco il capo del settore politico dopo aver lasciato l’Atlantic, ha pubblicato ieri una grande indagine sugli inglesi, circoscrizione per circoscrizione, per capire che cosa pensano delle principali questioni politiche.  Sulla Brexit il dato è, come mostrano anche molte altre rilevazioni, contrario rispetto al 2016: il malcontento è ormai molto diffuso in tutto il paese. Quel che emerge da questo studio però fa un passo ulteriore nell’analisi del rimorso: al referendum votarono a favore della Brexit, con grande sconvolgimento, molte zone laburiste, tanto che nel 2019, alle elezioni, i Tory con lo slogan “Brexit done” vinsero una maggioranza stratosferica, spazzando via buona parte delle roccaforti del Labour che ottenne il risultato peggiore in decenni. Da questa mappa politica emerge che quella che per molto tempo è stata una questione trasversale – al punto che il Labour ha smesso di fare troppa opposizione al divorzio – ora è diventata una questione di parte, della parte destra. Non è che gli inglesi siano diventati europeisti, insomma, ma ce l’hanno con il partito che non è riuscito a far funzionare la Brexit, cioè il Partito conservatore, che oggi e alle prossime elezioni pagherà per questa sua malagestione.

 

Il Partito conservatore si è lasciato consumare dalla Brexit: prima si è spaccato sul sì-no, poi si è spaccato su quanto duro dovesse essere l’abbandono, poi sulla gestione del confine nordirlandese e infine ha dato prova del suo istinto cannibale mangiandosi i propri leader: Boris Johnson e Liz Truss, per ragioni (e con competenze) molto diverse, sono caduti per manovre interne al loro partito. L’attuale premier, Rishi Sunak, che di tutti questi leader è un brexiteer genuino (lavorava per l’allora premier David Cameron e gli disse subito, quando ci si preparava al referendum, che lui era, al contrario del suo capo, a favore della Brexit), cerca di rimettere in sesto un paese che si impoverisce in modo costante da un decennio e che si è autoinflitto anche l’uscita dall’Ue. Cerca anche, Sunak, di mettere ordine (a ritmi lenti) nel partito, come dimostra il licenziamento dell’ex cancelliere dello Scacchiere Nadhim Zahawi invischiato in uno scandalo di tasse evase, ma è anche lui consapevole del fatto che i Tory sono destinati a pagare non tanto per aver voluto la Brexit quanto per la sua gestione fantasiosa e ostile all’Europa. Il Labour, oggi guidato da Keir Starmer, non ha mai avuto prima d’ora un’occasione così grande per tornare al potere: è anche l’occasione per far funzionare la Brexit, o forse per cancellarla come un sogno impossibile.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi