Foto di Nove onlus 

l'ong che resta

Lavorare in Afghanistan nonostante l'editto dei talebani. Il racconto di Nove onlus

Antonia Ferri

Le mansioni delle donne sono sospese, ma l'organizzazione non lascerà il paese. Nelle direttive sono comprese le operatrici sanitarie? Come reagiranno le zone meno integraliste? "Del lavoro delle ong vivono anche i funzionari del regime" 

Nove onlus ha deciso che resterà in Afghanistan perché “andarsene potrebbe significare non riuscire a tornare”, spiega la presidente Susanna Fioretti. L’ong italiana è una delle poche che continuerà le sue attività dopo che l’ultimo editto dei talebani ha vietato alle donne di lavorare per organizzazioni straniere. “È ancora da chiarire se e quali professioni femminili siano esonerate dall’editto: ci servono dettagli”, dice al Foglio Flavia Mariani dall’associazione. L’emirato islamico non ha fatto sapere nulla, quindi per ora “le donne, come da ordinamento, non sono operative”. Ma le trattative sono in atto. 

 

Acbar (Agency Coordinating Body for Afghan Relief & Development), organismo che comprende 183 ong nazionali e internazionali, da giorni tenta di convincere i ministri talebani perché l’editto venga al più presto ritirato e si “dia inizio a un dialogo costruttivo”. “Quello che possiamo immaginare è che le trattative andranno avanti ancora per diverso tempo”, dice Mariani. “E ogni giorno che passa sono vite che vanno perse”. Come precisano da Nove onlus, escludere le donne dal lavoro per le ong significa condannare a morte la popolazione civile. Ci sono due ordini di problemi: il primo è raggiungere le donne. Un caso è quello delle donne capo-famiglia, che vivono da sole e che non possono essere assistite, se non da altre donne. “Con il progetto Dignity andiamo nelle loro case per portare soldi, alimenti, cure, materiale scolastico. Aiutiamo le donne prive di occupazione e le professioniste a iniziare attività che non siano a contatto con il pubblico. Prima erano giudici, professoresse, lavoravano nella finanza e non solo”, afferma Mariani. “Una di loro è riuscita ad avviare un’attività insieme ad altre dieci dipendenti che lavorano per lei nel ricamo. Sono nati anche mercati di donne per donne”.

 

Dall’emissione dei nuovi editti, Nove onlus ha sospeso alcune attività, come la preparazione al Kankor, utile per l’ammissione all’università. “E se la restrizione valesse anche per le operatrici sanitarie? In un paese in cui il 97 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e in cui la maggior parte dei medici e delle infermiere sono donne, sarebbe la fine”. Mariani prosegue e chiarisce il secondo ordine di problemi: “L’Afghanistan si sostenta con il lavoro delle ong: tutti ricevono assistenza dalle organizzazioni umanitarie. Non è un problema solo per le donne”. È vero che per direttiva degli stessi talebani le donne possono essere visitate solo da altre donne, ma è altrettanto vero che i lavori ospedalieri sono in gran parte ricoperti da donne, e ne beneficiano anche i talebani. “Non sono tutti contenti [nel regime, ndr.]. In un paese come l’Afghanistan, fatto di province, le amministrazioni sono diverse e così è il pensiero: ci sono quelle più o meno integraliste”. Non è escluso che trattamenti diversi siano adottati nelle diverse regioni del paese, proprio perché del lavoro delle donne afgane vivono anche gli uomini e i talebani. Intanto, le donne confinate in casa e quelle espatriate “sono sulla soglia della disperazione. Ma sanno reagire in modo lucido”.

 

Finora sette ong hanno deciso di lasciare il paese o ridurre al minimo le loro attività. Medici senza frontiere – che ha più del 51 per cento dello staff medico composto da donne – giovedì scorso ha condannato la decisione dell’Emirato islamico e ha fatto sapere che continuerà a operare senza restrizioni del personale. Nove onlus, invece, coopera con la rete Acbar che continua a negoziare.

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