Rishi Sunak e Liz Truss (Ansa)

Quel che non capiamo

L'economia britannica sta meglio se cresce poco (e i tassi sono bassi)

Giorgio Arfaras

La manovra Truss è stata bocciata, ora Sunak si appresta a tornare a una formula più tradizionale. Funzionerà? Il “segreto” delle rendite, che vale un po’ anche per l’Italia

Nel Regno Unito una manovra economica varata poco tempo fa dal governo appena insediato di Liz Truss è stata bocciata con virulenza dai mercati finanziari. Ed è stata bocciata a tal punto che il governo si è dovuto dimettere dopo pochi e turbolenti giorni di crisi finanziaria. Si ha così il nuovo governo di Rishi Sunak. Un governo che nasce come conseguenza di quanto accaduto, che, proprio per questo, dovrebbe varare una manovra economica tradizionale. Manovra che è già stata accettata dai mercati finanziari, come si evince dal rendimento delle obbligazioni a lungo termine del Tesoro che sono tornate al livello antecedente la manovra bocciata. 

Che cosa aveva mai di così devastante la manovra della Truss? La manovra intendeva rilanciare l’economia britannica che, ormai da molti anni, cresce poco o niente. Il rilancio economico e il consenso politico si sarebbero materializzati con una riduzione delle imposte, quindi con minori entrate statali, e con una maggiore spesa, quindi con maggiori uscite statali, queste ultime volte a coprire i maggiori costi energetici. Assente una crescita immediata, come frutto di un rilancio congegnato in questo modo (ossia, i privati che investono subito grazie all’incentivo delle minori tasse, e i consumi dei meno abbienti che si mantengono invariati grazie all’intervento statale sulle bollette energetiche), il risultato non poteva che essere quello di una crescita notevole del debito pubblico. 

 

Una debito di nuova emissione, se offerto in misura cospicua, richiede dei tassi di interesse maggiori. Ma le obbligazioni già emesse per pagare questi maggiori interessi devono, poiché la cedola è fissa, scendere di prezzo. Ed è ciò che è accaduto. I fondi pensione che posseggono molto debito pubblico sono andati in crisi perché hanno temuto, osservando la caduta dei prezzi dei loro titoli obbligazionari, di non poter onorare gli impegni. Hanno venduto, così come hanno fatto anche gli altri investitori. La Banca centrale è dovuta intervenire, comprando obbligazioni del Tesoro, per fermare la caduta dei prezzi. Le correnti di vendita si sono manifestate anche sul mercato dei cambi, con la vendita di sterline contro dollari, come effetto dell’uscita di molti dal mercato finanziario britannico.

Questa è, per così dire, la fenomenologia della crisi ultima: un piano di rilancio dell’economia che si è rivelato subito sbagliato. Il nuovo piano di rilancio, che dovrebbe avere delle caratteristiche tradizionali, ossia una modesta espansione della spesa pubblica senza un taglio significativo delle imposte potrebbe, invece, funzionare? Può essere interessante, per capire quali piani di rilancio possano mai funzionare e quali no, la ricerca delle caratteristiche strutturali dell’economia britannica. Quelle caratteristiche che ne impediscono la crescita ormai da molti anni.

 

In breve, la tesi esposta sostiene che la caratteristica maggiore dell’economia britannica è la presenza pervasiva di rendite. Con le rendite che hanno come miglior terreno di coltura un’economia che cresce poco. Se, infatti, si analizza l’economia britannica, emerge una grande concentrazione in pochi settori – finanza, materie prime, proprietà intellettuale, infrastrutture, possesso della terra edificabile. Si ha un’economia dove prevale l’“avere” sul “fare”. O, se si preferisce, un’economia volta a mantenere le attività redditizie, piuttosto che volta a innovare per averne di nuove. Un aspetto che accomuna Gran Bretagna e Italia: una bassa crescita perché prevale l’“esistente” sul “nuovo”. 

Nel caso delle società quotate alla Borsa di Londra, quasi tutte le prime trenta sono legate a una rendita. Le forze legate alla rendita non hanno un grande interesse per una crescita economica robusta. Infatti, la crescita economica tradizionale, quella “fordista”, ossia le grandi concentrazioni di fabbrica con consumi di massa, se robusta, spinge l’inflazione come i tassi di interesse relativamente in alto. Ora, la ricchezza delle maggiori forze industriali e finanziarie britanniche dipende dal controllo delle attività che danno luogo alle rendite. Per esempio, il settore edilizio cresce se i mutui ipotecari sono attraenti. E questi ultimi lo sono, se il tasso di interesse è basso. Segue che un tasso di interesse basso, ossia un fattore di sconto basso, accresce il valore attuale delle rendite immobiliari di alcuni più di quanto non faccia una crescita economica robusta con tassi di interesse alti.

 

In conclusione, vera l’analisi, esiste nel Regno Unito un interesse robusto a favore di una crescita economica modesta, che lascia perplessi quelli che vorrebbero un’economia dinamica. Quelli che non vogliono un’economia dinamica si trovano a dovere far fronte ai problemi che sorgono con quelli che non sono favoriti dalla persistenza delle rendite. E da qui i conflitti e i capovolgimenti di strategia.
Questa prevalenza delle rendite ha una lunga storia. La Gran Bretagna non è mai stata, nonostante abbia inventato l’industria moderna, un paese a larga prevalenza industriale. Ai tempi della rivoluzione industriale le imprese britanniche, a differenza di quelle tedesche sorte successivamente, erano piccole, e la concentrazione della ricchezza era quasi tutta nella grande proprietà terriera nobiliare. Poi con il tempo è cresciuto enormemente il peso della ricchezza finanziaria, con al centro la City.

 

L’Europa continentale doveva nei secoli scorsi avere gli eserciti sempre pronti per fronteggiare il nemico limitrofo. La Manica, invece, esentava la Gran Bretagna da questa incombenza. In caso di guerra, il Regno Unito, dove si aveva “un re che regnava ma non governava”, poteva finanziarsi con costi contenuti, in ogni caso minori di quello delle autocrazie limitrofe. In Gran Bretagna era il Parlamento che controllava l’emissione del debito, e il parlamento era controllato da chi lo avrebbe sottoscritto, ossia i ricchi. Questo fenomeno dei ricchi che controllano l’emissione delle obbligazioni e che poi proprio per questa ragione le comprano è un fenomeno nato nelle città italiane qualche secolo prima. Un autocrate continentale, invece, sempre pressato dai nemici limitrofi, avrebbe potuto per finanziare la guerra spogliare i sudditi che sottoscrivevano il debito ripudiandolo in un periodo successivo, oppure avrebbe potuto alzare subito la pressione fiscale. L’autocrate continentale finiva per pagare molto il debito, perché doveva coprire il rischio – con degli alti tassi di interesse – che correvano i privati. 

 

La Manica e il Parlamento sono stati così il “segreto” della forza britannica nei secoli scorsi. Ed ecco che, libera dal Continente e quindi libera di muoversi nei mari, arriva ai tempi della Prima Elisabetta il “grande balzo in avanti”: la Gran Bretagna diventa la regina degli oceani, dei grandi mari aperti, e ispira la prima globalizzazione moderna. Gran Bretagna che era poi governata da un’élite di gentiluomini, che formavano il gentlemanly order. La Gran Bretagna, guidata dai gentiluomini, finanziava gli altri paesi ricevendo in cambio le cedole e i dividendi generati dai propri investimenti esteri. Gli altri paesi dovevano pagare le cedole e i dividendi, e ciò avveniva esportando le proprie merci in Gran Bretagna. L’equilibrio si aveva perché il Regno Unito aveva una bilancia commerciale in deficit e una bilancia finanziaria in surplus. Il tutto era regolato dalla City. La sterlina – all’epoca fissata all’oro – era la moneta di tutti.

Oltre alla Manica e al Parlamento si deve perciò aggiungere la Finanza per carpire meglio il “segreto” della forza britannica nei secoli scorsi. 

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