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L'America spezzata da Donald Trump. Un libro

Giulio Silvano

Una conversazione con Peter Baker sul suo saggio “The Divider” e su quel che c’è da aspettarsi dall’ex presidente 

Leggendo “The Divider”, il nuovo libro di Peter Baker e Susan Glasser, si capisce finalmente perché Donald Trump indossa quelle lunghissime cravatte rosse, un po’ ridicole, che scendono ben oltre la cintura: pensa di sembrare più magro. Baker è il corrispondente del New York Times alla Casa Bianca; Glasser, che è sua moglie, scrive sul New Yorker di politica – ha una rubrica fissa chiamata “Lettere dalla Washington di Biden”.

Insieme hanno pubblicato già due libri, tra cui uno su Vladimir Putin, mentre erano insieme corrispondenti a Mosca. Per “The Divider”, uscito da poco per Doubleday, hanno fatto oltre trecento interviste, componendo un documento che storicizzi, a pochi anni di distanza, il tempo passato da Donald Trump a Pennsylvania Avenue. Si vede molto bene l’atteggiamento di Trump verso le mansioni presidenziali  – occuparsi del paese come se fosse una sua azienda –  oltre il fatto, poco pubblicizzato, che in molte occasioni persone a lui vicine, compresi militari e familiari, hanno cercato di creare una resistenza interna, perché non facesse guai, tipo bombardare paesi a caso.  Il titolo dice molto su quello che Baker e Glasser hanno capito del 45esimo presidente degli Stati Uniti in quest’inchiesta. “Pensavamo che fosse importante capire cosa distingue Trump da altri presidenti. Non è stato lui a creare le divisioni nazionali, c’erano prima che lui arrivasse, ma ha usato ampiamente questa polarizzazione”, dice Baker al Foglio.

“La sua strategia, e il segreto del suo successo politico, è stato quella di sfruttare queste divisioni, accelerandole. L’ha fatto in modo magistrale. Tutti i politici, in una certa misura, si scontrano con l’altra parte e devono dire agli elettori ‘la mia posizione è migliore di quella dell’avversario’. Ma ogni presidente che ho conosciuto sapeva anche che esser presidente voleva dire unire il paese. Essere il presidente di tutti”. Trump invece non l’ha fatto. “Non aveva intenzione di farlo, non gli interessava. Non pensava fosse il suo lavoro. Steve Bannon ha detto, dopo che hanno vinto le elezioni: ‘Non abbiamo vinto queste elezioni per unire il paese’. Insomma, non è mai stato il loro obiettivo”. Baker cita George Bush, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, di cui ha scritto ampiamente per il Washington Post e poi per il New York Times. Tutti loro in un modo o nell’altro hanno dichiarato, anche se non ce l’hanno sempre fatta, che avrebbero cercato di unire la nazione. “Nessun presidente nell’era moderna è mai stato così vigoroso nel suo desiderio di usare divisioni razziali, geografiche, di genere e ideologiche per spingere la sua carriera”.

Baker ha anche scritto nel 2014 un libro su George W. Bush e il suo vicepresidente, Dick Cheney. Secondo lui la differenza maggiore tra i due presidenti la troviamo nel modo in cui sono arrivati alla Casa Bianca, cioè con una visione del mondo precisa. Trump non aveva mai avuto prima un incarico pubblico, non era mai stato nemmeno un militare. “Non aveva alcuna ideologia particolarmente precisa”, ha spesso cambiato idea, su aborto, tasse, controllo delle armi, eccetera. “Non è arrivato alla presidenza con una visione del mondo, se non l’idea che l’America venisse fregata dai suoi alleati e dai suoi partner commerciali”. Bush e Cheney volevano attuare delle politiche precise, piuttosto classiche, repubblicane, e, “soprattutto dopo l’11 settembre, hanno sviluppato quella che credevano fosse la loro missione: rendere il paese più sicuro e dare la caccia ai terroristi. Per Trump invece è sempre stato tutto una questione di autogratificazione, l’obiettivo era stabilire che lui era il migliore, il più grande, il più forte. Le politiche non erano il punto, ma solamente essere sempre il vincitore e mai il perdente”. Per questo ha vissuto così male la fine della presidenza. “Non è riuscito a gestire l’idea di aver perso, che è quello che è successo”. 

Trump ha appoggiato oltre duecento candidati alle primarie repubblicane e molti di questi, cospirazionisti e populisti, hanno vinto e l’8 novembre si scontreranno con i democratici. “Questo sarà un test sul futuro del trumpismo, se non su Trump stesso”, dice Baker. “Non sappiamo cosa succederà, ma potrebbe essere una lotta molto competitiva. Se i repubblicani vanno bene, Trump si prenderà il merito e la vedrà come un’approvazione, e probabilmente un incoraggiamento per candidarsi di nuovo. Se alcuni candidati su cui ha puntato perdono in scontri elettorali di alto profilo, e si pensa che è perché lui ha incoraggiato dei personaggi più estremisti contro dei repubblicani mainstream che avrebbero potuto vincere, allora potrebbero esserci dei contraccolpi”. Baker però non pensa che ci sarà un momento in cui il Partito repubblicano dirà “basta con Trump”, perché se così fosse, sarebbe già accaduto dopo gli attacchi al Congresso del 6 gennaio: ieri il già citato Bannon è stato condannato a quattro mesi di prigione e a una multa di 6.500 dollari perché si è rifiutato di testimoniare proprio sui fatti del 6 gennaio. “Uscirà dalle elezioni di midterm con un certo potere. La domanda è: Trump è pronto per candidarsi di nuovo? E in questo momento probabilmente sì”. Secondo Baker il presidente, Joe Biden, sarebbe motivato a ricandidarsi se anche Trump decide di farlo. “Biden è un tipo competitivo, e pensa di essere la persona che ha più possibilità di tenere Trump fuori dallo studio ovale. Ripete che è l’unico ad averlo battuto. E all’orizzonte non c’è nessun democratico che secondo lui ha le capacità al momento di sconfiggere Trump nel 2024”. Ma come sempre, quando si parla delle prossime presidenziali, esce fuori l’età di Biden, che avrà 86 anni alla fine del secondo mandato. Baker sottolinea come fino all’ultimo giorno un presidente debba essere lucido, “a volte anche alla fine bisogna prendere delle decisioni immediate che hanno conseguenze gigantesche”. Nessuno ha il potere per dire a Trump di farsi da parte, e non succede che un presidente in carica non si ricandidi, se non per sua scelta. “L’unico che potrebbe chiederglielo è sua moglie, Jill Biden”, dice Baker. 

Tornando al libro, ciò che viene fuori è la visione quasi da cartone animato, fortemente influenzata dal cinema, che ha Trump dei ruoli politici e soprattutto militari. Voleva, per esempio, che i suoi generali fossero più come George C. Scott nel film “Patton, generale d’acciaio”. “La sua visione dei generali è stata formata da vecchi film, molto diversa da quella dei militari contemporanei”. A un certo punto, a quanto pare, Trump ha detto al generale John F. Kelly: “Perché voi generali del cazzo non potete essere più come i generali tedeschi?”, e lui ha risposto: “Intendi quelli di Hitler?”. “Sì”. L’ignoranza storica, e non solo, di Trump viene fuori spesso nel libro. “Con l’età che ha, dovrebbe aver vissuto parte della storia del secolo”, dice Baker, “ma non sembra averla assorbita. Non sapeva la differenza tra i Paesi baltici e i Balcani”. Non sapeva quando è iniziata la Prima guerra mondiale. “Ma è vero che per essere presidente non è che devi sapere tutto. La domanda è: vuoi imparare qualcosa? Sei intenzionato a farlo? Lui non ha mai dimostrato alcun interesse a imparare qualcosa. Solo cose che potevano portargli qualche vantaggio personale”. Trump ha passato però molto tempo a curare la sua immagine. “E’ il primo presidente dei reality”, continua Baker. “Ha creato in televisione la sua mitologia, ha creato una realtà di cui è il protagonista, e il protagonista è sempre perfetto, ai suoi occhi”. A un certo punto nel libro si racconta di un assistente che dice a un altro: “Il presidente sembra stanco oggi”. “No”, risponde l’altro, “il presidente non è mai stanco. Non bisogna mai dirlo”. Risulta ossessionato dall’illuminazione, dalle angolazioni delle telecamere, dal modo in cui appare sotto diverse luci, ed è per questo che faceva sempre le conferenze stampa all’aperto, nel giardino della Casa Bianca, perché pensava di avere un aspetto migliore con la luce naturale. E per le sue forme, oltre il trucco della cravatta lunga, Trump indossava sempre la giacca anche sotto il sole cocente della Florida, e detestava esser fotografato mentre giocava a golf, perché con la polo poteva risultare più grasso. 

L’ambizione dittatoria viene fuori in molte pagine di “The Divider”, anche nel modo in cui affronta gli avversari. “Non è sufficiente vincere, vuole distruggere, soprattutto quelli che vede come traditori, in particolare nel suo partito. E se parli con lui ti rendi conto di chi sono le persone che ammira: Vladimir Putin, Xi Jinping, Duterte, Kim Jong-un, Erdogan. Vuole avere il loro tipo di autorità per fare quello che vuole senza quei check & balances del nostro sistema”. Anche con l’invasione dell’Ucraina Trump non ha smesso del tutto di ammiccare a Putin. “Putin è un genio”, ha detto poco prima della guerra. Le specifiche della loro relazione però, secondo Baker, verranno forse rivelate solo col tempo. “Qual è il suo rapporto con Putin, visto da molti americani come un dittatore e un aggressore? Alcune delle persone vicine a Trump con cui abbiamo parlato dicono semplicemente che è attratto dalla sua figura, dall’uomo forte. Altri, come il suo ex avvocato Michael Cohen, dicono che è una questione di soldi”. 

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