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the joe rogan experience

Un freddo, robotico e persino stressato Zuckerberg in televisione

Pietro MInto

Nel salotto tv il fondatore di Facebook concede un assist ai trumpiani: dai colloqui con l'Fbi alla limitatissima distribuzione dell'articolo che avrebbe messo in difficoltà i democratici 

Vedere Mark Zuckerberg ospite di “The Joe Rogan Experience” è una notizia di per sé. Non succede tutti i giorni che il fondatore di Facebook  si faccia intervistare dal commentatore sportivo e comico statunitense, noto per aver ospitato attori, cantanti, ma anche Alex Jones (tra i più folli agitatori della destra americana) ed Elon Musk, che su quella seggiola fumò un enorme spinello. Il cuore dell’intervista ha riguardato la moderazione dei contenuti sulle piattaforme, tema delicatissimo per Zuckerberg e molto caro a Rogan, specie in vista delle elezioni di metà mandato. Zuckerberg ha precisato che “è meglio non dare tutto questo potere a una sola persona”, motivo per cui Facebook ha creato la Oversight Board, un gruppo di esperti esterni “che poi prende la decisione finale” su certi argomenti.

 

Fin qui nulla di nuovo. A turbare qualche ascoltatore è stato il punto in cui Rogan e Zuckerberg hanno parlato della decisione presa da Twitter nel 2020 di bloccare la condivisione di un articolo del New York Post in cui si parlava di “una prova definitiva” dei rapporti tra l’Ucraina e Hunter Biden, figlio dell’attuale Presidente degli Stati Uniti. La censura di Twitter fece molto discutere i repubblicani (e non solo), che stavano usando la carta Hunter contro il candidato Biden, ma sarà poi dichiarata legittima dalla Federal Election Commission. L’approccio di Facebook a quel caso è stato diverso, ha spiegato Zuckerberg, che ha raccontato che l’azienda era stata contattata dall’Fbi nei giorni precedenti all’uscita del pezzo sul New York Post.

 

Invece di bloccare del tutto la condivisione dello scoop, però, Facebook ha optato per limitare la distribuzione dell’articolo sulla piattaforma, “anche se lo si poteva comunque condividere”. Insomma, andava bene pubblicare il pezzo, solo che pochi l’avrebbero visto. Rogan pressa, chiede di quanto sia stata diminuita la diffusione della notizia ma Zuckerberg si blocca: “Non lo so ma è era una percentuale notevole”. Manna dal cielo per gli ascoltatori più cospirazionisti di Rogan, che possono gridare allo scandalo dell’Fbi – agenzia oggi odiata dai supporter di Trump per via della perquisizione alla residenza di Mar-a-Lago delle ultime settimane – che manipolerebbe le principali piattaforme per censurare uno scandalo in grado di nuocere ai democratici.

 

Pochi secondi dopo, quando Rogan domanda se l’Fbi abbia “specificamente chiesto di stare in allerta per quella storia”, Zuckerberg dice di non ricordare. È più probabile immaginare che Facebook fosse stata avvisata del potenziale che la storia del Post poteva avere per la macchina della propaganda e della disinformazione che si basa anche su Facebook per funzionare, e che l’Fbi abbia quindi avvisato il social di prepararsi al peggio visti i precedenti del 2016.

 

Rogan è un personaggio difficile da inquadrare politicamente: pur avendo dato spazio a volti della destra radicale (Jones, Candace Owens, Jordan Peterson), ha recentemente attaccato Trump (“Non ne sono in alcun modo un sostenitore”) e discusso con il whistleblower Edward Snowden. Potremmo definirlo uno scettico della versione ufficiale, che spesso invita pseudostorici e pseudoscienziati che parlano di antichi alieni e teorie assurde sul Covid-19, tra una lamentela sul politicamente corretto e l’altra.

 

Nemmeno l’operazione “Rogan”, comunque, sembra aver reso Zuckerberg più simpatico – o umano. Il fondatore rimane robotico, freddo e forse, per la prima volta, persino stressato, come se fosse lì per sfogarsi un po’. Fare il ceo di Meta non è per niente facile, è lui stesso a dirlo: “Quasi ogni giorno mi sveglio ed è come essere preso a pugni nello stomaco”.

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