L'esplosione a Saki, vista dalla spiaggia (LaPresse)

Reportage da Mykolaiv

Altro che Golia, la Russia di Putin somiglia più a Polifemo. Il colpo in Crimea e il Ciclope ubriaco

Adriano Sofri

Per le azioni come quella di Saki, segnate dall’audacia e dal piccolo numero, si evoca spesso Davide contro Golia. Ma per definire quello che è oggi il Cremlino vale meglio la storia narrata dell'Odissea. Il racconto di un laureando e le direttive di un boss delle forze di occupazione russe

Mykolaiv, dal nostro inviato. Adesso c’è ancora da riflettere sull’avvenimento della Crimea. Ieri il New York Times citava un consigliere del ministero dell’Interno ucraino, Anton Gerashchenko, secondo il quale nelle esplosioni della base aerea di Saki ci sono stati circa 60 morti fra piloti e tecnici e un centinaio di feriti: un bilancio pesantissimo. Gli aerei distrutti a terra sono almeno otto. E i depositi di munizioni, e gli edifici evacuati: un colpo enorme. E spettacolare, perché a riprenderlo c’erano una moltitudine di bagnanti russi sbigottiti, che da lì a poco hanno preso armi e bagagli, o almeno i bagagli, e hanno intasato le vie del mogio ritorno. 

Declassata a guerra di posizione, la guerra d’Ucraina vive anche lei, come gli agonismi sportivi, di “episodi”. A volte solo spettacolari, come la fuga dall’Isola dei Serpenti, a volte micidialmente efficaci, come l’affondamento della nave ammiraglia, la Moskva. Il primo “episodio fu la madornale colonna di tank alla volta di Kyiv, quel “62 km di carri armati” ripetuto per giorni, parcheggiati solo per procurarsi una precipitosa disfatta di mezzi, uomini e reputazione. Ci si chiede perché l’armata russa si esponga così ripetutamente a un simile smacco. 

 

Torniamo in Crimea. Sono proposte diverse ipotesi. Quella ufficiale russa è la più derisoria: un incidente. (Anche la Moskva era affondata per incidente: però i militari russi, quando dichiarano un incidente, si premurano di compiere rappresaglie, una modalità singolare di assicurazione contro gli incidenti). Gli ucraini non hanno rilasciato alcuna rivendicazione ufficiale, e qualche loro fonte l’ha negata: una scelta che lascia libertà di manovra diplomatica e di immaginazione. Le valutazioni dei tecnici ritengono del tutto improbabile che a colpire sia stato un missile di fattura ucraina, come il Neptune dell’incrociatore, o altra, non tanto per la distanza – più di 200 km da qualunque punto del fronte – quanto per il punto circoscritto dell’esplosione iniziale. L’ipotesi ritenuta più probabile è che abbia agito un gruppo, anche di pochissimi, sabotatori “partigiani”, passati oltre le maglie russe. (L’esperto militare Orio Giorgio Stirpe propende per un’azione di forze speciali, che forse è una variante più complessa, per il problema di riportarle a casa). Sta di fatto che chiunque abbia informazioni, com’è qui frequente, dalla Crimea, riferisce che là ci sono pochi dubbi. Del resto i villeggianti in fuga, attori loro malgrado di video esilaranti, hanno per così dire votato con i piedi la loro interpretazione, ben diversamente che nello pseudo referendum unanime del 2014. 

 

Un successo così sensazionale è insieme difficile e facile da spiegare. Mostra una presenza “partigiana” ben oltre il territorio di confine, dove già Kherson ne aveva date numerose dimostrazioni. E insieme mostra un’ottusità dei capi russi illesa dai disastrosi precedenti. Quando si tratti di azioni segnate dall’audacia, dal piccolo numero e da un legame col luogo e con la gente (rileggere Guerra e pace, altro che metterlo al bando) si evoca il Davide contro il Golia. La Russia putiniana lo merita – non è grande, è solo smisurata. Vale meglio, a definirla, il cugino monocolo di Golia, Polifemo. Anche lui ubriaco, prima ancora che Ulisse gli versi da bere, dalla propria forza bruta, innocentemente pronto a fare altrettanti bocconi dei suoi prigionieri, e a spingere la sua indulgenza col più mellifluo di loro, quello che si chiama Nessuno, solo concedendo che lo mangerà per ultimo. E’ il tipo di negoziato che Putin deve aver immaginato la sera del 23 febbraio.

 

La Grande Potenza è una garanzia di ottusità, che purtroppo non risparmia nessuno. La differenza fra i combattenti motivati, come sono per eccellenza i resistenti e i difensori della propria terra, e a loro modo anche i fanatici del proprio dio, è anche in questo: che sanno immaginare ciò che l’onnipotenza dei nemici rende loro inimmaginabile. Come si può, senza questa cecità, piantare gli uni accosto agli altri mucchi di armi e munizioni esplosive, caccia bombardieri, serbatoi di benzina, acquartieramenti di piloti e famiglie? Come si poté far incrociare, di fronte a Odessa, la nave ammiraglia quasi per un’esibizione di gala? Come si poterono mandare reparti successivi di marinai sullo scoglio dei Serpenti per farli decimare ogni volta dal tiro costiero, prima di ordinare la ritirata? A Saki, agosto balneare, qualche sergente avrà chiesto: “Lasciamo qualcuno di guardia qui?” e qualche tenente avrà fischiettato: “Ma no, chi vuoi che venga fin qua”, e sono andati a dormire. 

 

Le autorità ucraine non hanno rivendicato. A domanda rispondono: Nessuno. E’ stato Nessuno. Non cedano alla tentazione di rivendicare. Ulisse, che era Ulisse (Odessa prende il nome da lui, al femminile, grazie a una acuta ostinazione di Caterina) fu così vanesio da gridare, quando si sentì in salvo sulla nave, che non era stato Nessuno, ma era stato lui, Odisseo, e allora i massi scagliati dal Ciclope furioso sommersero la nave e travolsero i suoi compagni. A Kyiv vorranno rileggere la storia intera. A Mosca, stanno già sollevando alla cieca i massi da scagliare. 

 

Il racconto di un laureando

Nikita ha 22 anni. E’ di un paese al confine con l’oblast’ di Kherson, l’unico dell’oblast’ di Mykolaiv occupato dai russi. Stava per discutere la tesi alla sua università, a Wroclaw, Polonia, “in E-commerce”. Quando Putin annunciò di riconoscere le repubbliche separate del Donbas fece il suo zaino e tornò a casa. Da lui i russi arrivarono a metà marzo quasi senza colpo ferire, sull’abbrivio dell’occupazione di Kherson. Invasero le case, più per svaligiare che per cercare nemici. Se qualcuno avesse obiettato agli svaligiamenti, era lui il nemico. Nikita e pochi suoi compagni di altri villaggi avevano lasciato le case senza dire neanche alle famiglie dove sarebbero andati, si erano armati alla meglio come se dovessero andare a caccia di quaglie. Il suo racconto iniziale è piuttosto una serie di didascalie ai video e le fotografie che fa scorrere sul telefono. Sono una conferma del complesso di Polifemo, solo che qui il Ciclope ubriaco ha spedito i suoi soldatini allo sbaraglio. Ce n’è un’intera fila disarmata e arrestata dai ragazzi: avanzavano senza avere idea di dove e perché. Interrogati, rispondono con stupore più che con paura: vengono da Stavropol, nel Caucaso del Nord, due sono ceceni di quelli raccogliticci.

 

Finora non avevano ancora sentito sparare un colpo dall’altra parte. Poi sfilano le immagini di carri armati con la zeta e altri mezzi blindati abbandonati alla rinfusa: gli equipaggi si sono consegnati o sono fuggiti, lasciando le loro cose. Immagini viste tante volte, ma qui c’è un vero arsenale di veicoli trainati al riparo. Sui tank dei capicolonna le mappe segnano la strada da seguire, alcune sono del 1982, il territorio che indicano è quello dell’Urss. Nikita non sa capacitarsi. Il mio capitano, dice, non smette mai di ammonirci che le nostre vite sono preziose. Poi però, racconta, questi soldatini desiderosi solo di tornare a casa entrano nelle nostre case, distruggono per il piacere di distruggere tutto quello che ai loro occhi non ha valore – poco, dunque, sradicano le porte e le finestre – e fanno incetta del resto. Non riuscivano a rubare l’auto di mio padre perché non trovavano le chiavi, hanno tolto batteria e altri pezzi e sparato sul resto, bene, ha detto lui, non avrà la vostra targa. Hanno uno sgabuzzino per torturare, mio padre l’hanno tenuto una settimana, lui, bastonato, l’hanno messo fuori vivo. Nikita ha la ragazza che lavora in Italia, sa da dove ricomincerà. Era, “perché adesso c’è altro da fare”, un campione di karate, e non ha nemmeno un tatuaggio.

 

Quando sei cintura nera ne puoi fare uno, piccolo, sul cuore, io non l’ho fatto, tu ne hai? – chiede. No, dico, per la mia generazione erano riservati a marittimi e carcerati... Io sono favorevole alle cose reversibili. Qui siamo a Mykolaiv, il fronte è quello di Kherson. Nel paese di Nikita, Snihurivka, sono rimaste 4-5 mila persone, un terzo della popolazione, soprattutto gli anziani – e i testardi. Si paga solo in rubli, si telefona solo con la linea russa, sono stati distribuiti i passaporti russi – quelli che li hanno accettati si contano sulle dita. Lui calcola che solo a Snihurivka gli ucraini uccisi siano almeno un centinaio. Il paese ha una posizione rilevante, allo snodo fra Kherson (e Mykolaiv) e Kryvy Rig: verso ovest e verso nord est. La questione, dice, qui e altrove, non è di attaccare e riprenderlo, ma evitare la risposta russa che sarebbe il bombardamento indiscriminato sugli abitanti. 

 

Le letture preferite di Nikita riguardano la storia, e le biografie. Ne ha lette di Stalin e di Hitler, anche una di Mussolini: spero senza approvazione, dico, o te la dovrai vedere a karate con me. No no, mi rassicura. Lui, che è un tipo notevole di giovane ironico e brillante, mi colpisce perché, forse anche per l’età – era quattordicenne al tempo di Euromaidan – ha ancora una franca meraviglia per quello che è successo, e un’offesa tanto più bruciante. Ha sempre parlato russo, basta andare un po’ più indietro sul suo telefono e ci sono le foto della gita alla Piazza Rossa – anche il Mausoleo di Lenin!, ride – leggevo Tolstoj, ascoltavo Vysotskij, festeggiavo il 9 maggio con la mia scuola... Ero ucraino, normalmente, avevo sentito di Malinovskij e di Rokossovskij. E ora i russi venivano con le armi puntate a cercarmi a casa mia per uccidermi! La cosa gli sembra ancora talmente grossa che è tentato di riderne. 

 

L’ispettore generale

 Il racconto sulla renitenza di Snihurivka sembrerebbe ottimistico se non fosse arrivato assieme a una formidabile registrazione, quasi un’ora, dell’adunata di direttrice e insegnanti di una scuola di Kherson occupata per ascoltare le direttive di un boss delle forze di occupazione russe: uomo di partito o dei servizi, a giudicare dalla sicurezza di sé che ostenta. E che, dal tono conversevole iniziale, passa via via al ricatto sentimentale – “non si tratta di voi, ma dei vostri bambini” – e infine alla minaccia brutale. Qualcuna o qualcuno dei partecipanti ha registrato la riunione, che avveniva lo scorso 25 luglio, e l’ha portata o spedita di qua dal confine, dov’è stata tradotta da un prezioso giornalista locale per l’inviato dell’Avvenire, ero là e l’ho parassitata. E’ un documento doppiamente eloquente, perché mostra il programma di governo dell’Ucraina russificata, e l’atteggiamento ammirevolmente coraggioso dei russificandi. La riunione è convocata per nominare una nuova direzione della scuola, che conta ufficialmente 138 alunni, e per misurare la disposizione degli insegnanti al nuovo corso. Il 1° settembre la scuola deve assolutamente riaprire, e col nuovo programma. Il nuovo programma si impernia soprattutto su due materie: la lingua d’obbligo, russa naturalmente, e la storia. Su questo l’ispettore generale, chiamiamolo così, insiste indefessamente.

 

Non possiamo più pensare di vivere in un mondo in cui gli scolari non imparino i nomi di Malinovskij e Rokossovskij (loro, appunto, Zhukov no, non lo cita). Vi siete fatti abbindolare dalla favola che l’Ucraina sia una nazione e uno stato differente dalla Russia. Le presenti, e i presenti, si sbrigano a dire di no, che la scuola non è pronta a riaprire, che i genitori non intendono mandare i loro figli, che rischia di esserci solo un paio di scolari. Io non potrei dirigere la scuola secondo la vostra riforma, dice un’insegnante. Io ho cinquant’anni, è tardi perché possa cambiare quello che ho imparato e che so insegnare, dice un altro. Un’altra riluttante viene interrotta dalla domanda: “Tu che cosa insegni?” “Scienze naturali”. “E allora che problema hai? Il problema è solo la lingua e la storia”. 

 

“I vostri figli, volete che affrontino la vita ignoranti e sprovveduti. I miei figli sono intelligenti, preparati, vanno a scuola diligentemente, possono studiare una lingua straniera, l’inglese per esempio...”. Il ricatto sui figli non fa presa, e allora si passa alle carriere. La prima alternativa è andare a farsi rieducare, riabilitare ai nuovi programmi, in Crimea (col senno di poi, l’eventualità suona ancora più minacciosa). “Abbiamo calcolato che saranno aggiornati ai nuovi programmi in Crimea 30 mila insegnanti”. L’uomo arringa, interlocuzioni comprese, già da più di mezz’ora, e il suo tono sale di un’ottava, quando una giovane (dalla voce) docente gli dice: “Dunque quello che non ti va di me è una questione ideologica?”. C’è, se intendo bene, una o due voci allineate, poi si passa agli ultimatum. Tutti i convocati devono rispondere entro due giorni, 48 ore: o si allineano, o lasciano la città per destinazioni da decidere. Per essere arruolati, e combattere nelle file russe, per esempio. 

 

“Oppure potete rifiutarvi, e andrete a fare i manovali a Mariupol, dove c’è bisogno di ricostruire”. “Io ho una zia a Mariupol”, dice un’altra voce femminile. “Ecco – approfitta lui – chiamala, parlale!” “Me l’avete uccisa!”.

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