Un uomo usa del nastro adesivo per fissare gli occhiali a una testa di cartapesta di Rupert Murdoch a Londra (Rob Pinney/Getty Images) 

Pence, DeSantis e Murdoch. Le scosse d'assestamento del mondo post trumpiano

Giulio Silvano

Dopo anni di sostegno, sul New York Post è uscito un editoriale dove Trump viene definito “indegno” di ricoprire la carica di presidente. Intanto l'ex vicepresidente Pence e il governatore della Florida stanno sondando il terreno per sostituirlo

C’è una scena in “Succession” in cui i membri della famiglia Roy si riuniscono in salotto per scegliere il futuro presidente degli Stati Uniti. E’ un’esagerazione, ma gioca con l’influenza che possono avere i miliardari, i tycoon delle news, sulla politica; e se il patriarca Logan Roy è ispirato a Rupert Murdoch, questo ci dice come potrebbero andare le cose nel 2024. Perché Murdoch, dopo anni di sostegno a mezzo stampa, ha scaricato Donald Trump. Nel fine settimana sul New York Post, di proprietà di Murdoch dagli anni Settanta, è uscito un editoriale dove Trump viene definito “indegno” di ricoprire la carica di presidente, dopo quello che è successo durante l’attacco al Campidoglio di cui, secondo il Wall Street Journal (sempre di Murdoch) Trump viene definito il principale responsabile. Il Journal ha esortato a guardarsi intorno nel vasto campo di validi conservatori pronti a candidarsi. L’invito è: “Let’s make America sane again”. I commentatori americani hanno sottolineato la presa di distanza di Murdoch e, dopo la presentazione di alcuni sondaggi che lo danno in difficoltà, Trump ha attaccato Fox News, l’ammiraglia di Murdoch nonché, fino ad ora, il principale megafono del trumpismo. Il programma “Fox & Friends è passato al lato oscuro”, ha scritto lunedì l’ex presidente su Truth Social, la sua versione ego-populista di Twitter. 

    
I vari programmi di Fox News, se si posizionassero su altre personalità, potrebbero orientare decisamente l’elettorato. Anche per questo molti politici conservatori americani si stanno già guardando intorno per capire le loro possibilità in vista del 2024. Tra questi c’è Mike Pence, l’ex vicepresidente di Trump, che i vichinghi rivoltosi invitavano il 6 gennaio a impiccare, considerandolo il responsabile del riconoscimento – a loro dire illegittimo – della vittoria elettorale di Joe Biden. “Mike Pence ha avuto la possibilità di essere un grande”, ha detto poi Donald Trump, “lo dico con tristezza perché mi piace Mike, ma non ha avuto il coraggio di agire”. Da quota conservatrice old style del Midwest durante la campagna 2016, Pence si trova oggi in una posizione interessante: da una parte viene visto come un paladino dei valori costituzionali, quasi un eroe in un momento in cui la democrazia sembrava in pericolo – “ho fatto il mio dovere”, ha detto  – dall’altra, per i populisti più fedeli a Trump, è un traditore. 

        
Nel grande show politico del 2022, le udienze della commissione d’inchiesta, si sta decidendo se Trump è ancora il benvenuto tra le fila del Partito repubblicano o se verrà spedito al dipartimento di Giustizia come pericoloso eversivo. Nel frattempo Pence sta sondando il terreno, girando per il paese, per capire se ha la possibilità di candidarsi a diventare il prossimo presidente. In Arizona ha preso le distanze dalla candidata governatrice trumpiana, Kari Lake, ex giornalista televisiva no mask ancora convinta che Biden abbia rubato le elezioni. Insieme con altri del partito, Pence ha appoggiato invece l’altra candidata, Karrin Taylor Robson, una rispettata imprenditrice sposata con un miliardario, scelta più in linea con il Gop da cui proviene. Le due rappresentano perfettamente la frattura interna al partito, trumpiani vs conservatori tradizionali, esperienza televisiva vs. giro di perle, crypto vs. pozzi di petrolio: un contrasto fortissimo negli stati rossi, dove le offerte politiche dei programmi sono  piuttosto simili, cambia solo l’atteggiamento e il riconoscimento della legittimità dell’attuale Amministrazione. Pence evita sempre il discorso: “Come dice la Bibbia, ‘Dimentichiamoci di quello che abbiamo alle spalle, protendiamo verso il futuro’”. 

  
A quanto pare i due ex uomini più potenti d’America non si parlano da più di un anno e sono sempre riusciti a evitare di incontrarsi, anche l’altro giorno in Arizona, dove Trump si è vantato di quanti voti ha preso nel 2020 e poi ha ripetuto: “Le elezioni sono state truccate, rubate, e adesso per questo motivo il nostro paese sta venendo sistematicamente distrutto”. A poco più di un’ora di distanza Mike Pence era sul palco con la moglie e con Karrin Taylor Robson, dove ha detto: “C’è chi vuole ridurre quest’elezione a qualcosa che è successo nel passato”. Negli ultimi mesi l’ex vicepresidente ha partecipato a decine di eventi elettorali per i candidati al Congresso, in vista di novembre, dove non parla mai direttamente di Trump, e cerca di vendere un’immagine del partito pre 2016 affidandosi ai valori conservatori della sua fondazione, Advancing American Freedom, anti abortista, evangelica e reaganiana. Lo slogan è: “Libertà. Prosperità. Forza & Sicurezza”. 

    
Nel caso in cui Trump non dovesse farcela a emergere dalle udienze di Liz Cheney, ci sono dei suoi apostoli pronti a prenderne l’eredità. Come il governatore della Florida Ron DeSantis, che nel suo unico mandato ha fatto di tutto per evitare che i cittadini del suo stato si vaccinassero o portassero le mascherine. Di recente DeSantis ha invitato un po’ di colleghi governatori e alcune personalità conservatrici a un evento a base di cocktail e sigari a Fort Lauderdale, voci dicono per tastare gli umori per il 2024. Secondo un sondaggio, in un’ipotetica primaria di partito, DeSantis ruberebbe un discreto numero di voti a Trump, più di Pence e di Ted Cruz. Sono soprattutto i giovani e i laureati a voler prendere le distanze da The Donald. DeSantis, nonostante le proposte politiche siano le stesse, appare più misurato, meno violento, vendicativo ed egocentrico; per l’elettorato più scolarizzato, millennial e Gen Z, non sembra una minaccia per la democrazia. 43 anni, venti meno di Pence, il governatore sarebbe un buon compromesso tra trumpiani e repubblicani tradizionali. I numeri dicono che più o meno la metà della base repubblicana vorrebbe un’alternativa e che il 16 per cento dei repubblicani voterebbe un altro partito nel caso in cui l’ex presidente dovesse arrivare a scontrarsi con il candidato democratico. Insomma, per loro va bene chiunque, ma non Trump.