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Di nuovo

L'America del proibizionismo. Quando sotto processo c'era l'alcol

Siegmund Ginzberg

La sentenza sull'aborto è un ricorso storico di altri periodi di limitazioni dannose. Tutte le conseguenze di una politica della repressione.

Prima di proibire l’aborto (per essere precisi di dare la possibilità agli stati conservatori di abolirlo) avevano proibito l’alcol. Molto prima, più di un secolo prima. E non gli era andata bene. Come per l’aborto, il conatus prohibendum nasceva da un imperativo morale, categorico, religioso, sostenuto con convinzione, anzi fanatismo.

 

Non è più in vigore da quasi un secolo, ma ne restano tracce visibili. Una tradizionale ipocrisia: gli alcolici, anche la birra, vanno bevuti di nascosto

 

Come per l’aborto, il proibizionismo veniva dopo anni, decenni di violente battaglie giuridiche. Anche allora il diritto costituzionale dei singoli stati cozzava con i diritti costituzionali federali. Come per l’aborto, aveva spaccato in due il paese. Come per l’aborto, la proibizione dell’alcol nasceva dalle migliori intenzioni, prometteva di salvare la salute e l’anima dei cittadini, nonché i loro portafogli. Come per tutte le regole imposte troppo fanaticamente, ebbe effetti opposti a quelli desiderati e auspicati. Non è più in vigore da quasi un secolo, se non in forma fossile, in una manciata di contee ultrà. Ma ne restano tracce visibili. La prima volta che mi lasciarono entrare negli Stati Uniti, mezzo secolo fa, mi aveva colpito vedere bere da bottiglie celate in sacchetti di carta. Finché mi resi conto che era un residuo del proibizionismo e di un’altrettanto tradizionale ipocrisia: gli alcolici, anche la birra, vanno bevuti di nascosto. E’ ancora così.

 

Il proibizionismo era entrato in vigore il 16 gennaio 1920, un anno dopo la ratifica del diciottesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti da parte di 36 dei 48 stati. Proibiva “la fabbricazione, la vendita e il trasporto, l’importazione e l’esportazione di bevande inebrianti”. Non funzionò. O per essere più esatti si accompagnò a tanti e tali danni che lo abolirono solo 13 anni dopo. Con un nuovo emendamento alla Costituzione, il ventunesimo, ratificato il 5 dicembre 1933. L’unico caso di revoca di un emendamento in tutta la storia costituzionale americana. E tanto bruciò quella sconfitta, che si guardarono bene dal riproporre la proibizione.

 

Anche i non pochi fautori si attennero al principio che “le battaglie perse non vanno combattute di nuovo”. In pochi anni era passata molto acqua sotto i ponti. Anziché smettere di bere alcolici gli americani ne bevevano la stessa quantità, pagandoli di più. Siccome era illegale, si arricchivano distillerie clandestine, contrabbandieri e gangster. Ne uscì distrutta un’intera industria, diminuivano le entrate fiscali. Finché cambiarono gli umori del paese. 
All’ondata puritana e ai venti conservatori che soffiavano dalle campagne si era contrapposta una brezza rinfrescante dalle città in fermento.

 

Ai vecchi saloon del West rurale, tradizionale ricettacolo di aborriti ubriaconi, di gioco d’azzardo e di prostituzione, luogo di risse e violenze, subentravano i locali cittadini dove era nato il jazz, gli speakeasy (le bettole clandestine il cui nome stesso “due chiacchiere in tranquillità” era un programma). Il movimento proibizionista, di matrice religiosa, prendeva di mira il degrado morale, la crisi della famiglia, il diminuito rendimento in fabbrica dei lavoratori maschi, frequentatori delle taverne. Uno dei paradossi del proibizionismo fu che mentre prima a sfidare i benpensanti, a bere ostentatamente in pubblico, erano gli uomini, ora bevevano (e fumavano) ostentatamente, senza più vergogna, in pubblico (nei locali clandestini, sì, ma non di nascosto dagli occhi degli altri) anche le donne.

 

La proibizione paradossalmente aveva creato nuove liberazioni. Era andata a finire che ora bevevano, e soprattutto rivendicavano la libertà di bere alcolici gli studenti, le donne, e persino le casalinghe. A confermarlo, oltre alla nascita di movimenti antiabolizionisti femminili, c’è persino uno studio sulle ricette di cucina di quegli anni, che vedono l’introduzione di ingredienti alcolici. Bandito nei luoghi pubblici, l’alcol rientrava nel privato, nei locali dove si ballava e si faceva musica, e anche in casa, dalla porta della cucina. E, come avviene spesso, più che i furori ideologici aveva fatto l’economia.

 

L’argomento decisivo che, per modo di dire, tagliò la testa al collo della bottiglia nel giudizio degli elettori americani non fu la disputa sui principi morali, ma la necessità di dare respiro alla ripresa, mobilitare risorse finanziarie mediante la tassazione degli alcolici. C’erano stati di mezzo il crollo di Wall Street e la Grande depressione. La propaganda dei proibizionisti prometteva prosperità senza alcol. Gli si era ritorta contro, indipendentemente dal se la proibizione dell’alcol avesse a che vedere o meno con la depressione. Dopo due presidenti di destra e proibizionisti, Coolidge e Hoover, gli Americani avevano eletto un presidente “di sinistra”, progressista e antiproibizionista, Franklin Delano Roosevelt.

 

Chi gliel’aveva fatto fare? Il parere degli storici non è unanime. C’è chi sostiene che il proibizionismo avesse anche una componente progressista

 

Chi gliel’aveva fatto fare di proibire, nell’America degli anni 20, il consumo di bevande alcoliche? Ancora se ne discute. Il parere degli storici non è unanime. La religione innanzitutto. C’era stato un secolo di predicazione, agitazione, mobilitazione da parte della destra religiosa. Non allo stesso modo da parte di tutti i cristiani però, e nemmeno da parte di tutti i protestanti. Quattro su cinque dei cinquecento più importanti leader del movimento proibizionista erano evangelici. Il loro era un modo per riaffermare l’egemonia della loro denominazione rispetto ai concorrenti episcopali e luterani, considerati “lassisti”, e ovviamente dei cattolici romani, quelli a cui si riferivano spregiativamente come “papisti”, poco meno che strumenti del Demonio. Lottavano attivamente contro la “corruzione nel mondo”, si ponevano l’obiettivo non solo di convertire alla fede in Cristo, ma anche di imporre la “cristianizzazione” per legge. C’è chi sostiene che il movimento avesse anche una componente progressista.

 

E persino una componente femminile, rappresentata nella combattiva Women’s Christian Temperance Union (Unione delle donne cristiane per l’astinenza dall’alcol) e nell’Anti-Saloon League, il movimento per sottrarre i loro uomini al luogo di perdizione per antonomasia, il luogo del commercio in bevande alcoliche e in piaceri della carne, nonché della corruzione politica. Il saloon veniva denunciato come il luogo in cui onesti lavoratori e padri di famiglia si abbrutivano, spendevano il guadagnato, per poi tornare a casa ubriachi a picchiare le mogli e i figli. O addirittura come il luogo di cultura del femminicidio, per cui – tuonava uno dei predicatori – 3.000 donne venivano uccise ogni anno “dalla crudeltà di mariti ubriachi”.  Per altri studiosi, come Richard Hosftadter, “il virus rurale-evangelico” rappresentava l’ostilità dell’America profonda, delle campagne, “alle masse degli immigrati, che bevevano, ai piaceri e alle amenità della vita di città, alle classi benestanti e istruite”.

 

Se fate fatica a immaginare i predicatori che tuonano dai pulpiti di ogni comunità evangelica, di ogni piccola chiesetta che sorge in mezzo al nulla in quell’immensa campagna inframezzata di piccole cittadine rurali che è l’America, dovreste andare a cercare e guardare un western che mi è capitato di vedere in tv giusto mentre scrivevo questo pezzo. Si intitola Brimstone (zolfo). E’ un film del 2016 scritto e diretto dall’olandese Martin Kolhoven. Era stato presentato in anteprima a Venezia suscitando un’ondata di indignazione e disgusto per la durezza di molte scene. C’è chi l’ha definito “epicamente lungo, lurido e violento”, pur attribuendogli una vena “tarantiniana” che “non annoia mai”. Non ve lo raccomando per una serata distensiva, così come non raccomanderei il Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini. Ma può forse dare un’idea della foga con cui una parte dell’America si scagliava contro il peccato e contro i peccatori. 

 

Il consumo di alcol, che era già notevolmente in calo sin dal 1910, precipitò nel primo anno, ma poi risalì e superò quello degli anni precedenti

 

Si capisce che uno dei predicatori più facondi, il reverendo Billy Sunday, festeggiasse l’inizio del proibizionismo come la sconfitta del demone dell’alcol e come inizio di una nuova èra. “E’ finito il Regno delle lacrime. Gli Slum della povertà saranno presto solo una memoria del passato. Trasformeremo le nostre prigioni in fabbriche e le nostre carceri in depositi e granai. Da ora in avanti gli uomini cammineranno a testa alta, le donne potranno sorridere e i bambini ridere. L’Inferno sarà abolito per sempre”. Non vi fa venire in mente qualcuno che ai nostri giorni aveva proclamato l’abolizione della povertà? 
Naturalmente non andò così. Il consumo di alcol, che era già notevolmente in calo sin dal 1910 (così come, per combinazione, il numero degli aborti è stato notevolmente in calo in questo ultimi anni, non solo in Italia e nel resto del mondo, ma anche negli Stati Uniti), precipitò nel primo anno, ma poi risalì e superò quello degli anni precedenti il proibizionismo.

 

I crimini più gravi, che erano stati in calo sul finire dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, raddoppiarono, gli omicidi conobbero un incremento di ben il 78 per cento negli anni 20. Il numero dei condannati per reati federali subì un incremento del 561 per cento. Salirono alle stelle le spese per il mantenimento dell’ordine e la lotta alla criminalità organizzata. Il sogno dei proibizionisti era che, anziché spendere in alcool, la gente avrebbe speso in latte, in beni di consumo moderni, in assicurazioni sulla vita, per garantire un futuro alla propria famiglia, in scuola e istruzione. E invece la gente spese di più per l’alcol, che costava molto di più, per lo stesso motivo per cui oggigiorno costa di più il petrolio e il gas: la ferrea legge della domanda rispetto a una offerta minore o più difficile da procurarsi.

 

Senza contare che anziché birra (messa al bando come prodotto “tedesco”, invenzione dei nemici nell’ultima guerra) si beveva whisky, e fu proprio negli anni del proibizionismo che si diffuse il ricorso a “sostituti” come i narcotici. Dio solo non voglia che l’effetto delle restrizioni sull’aborto, e le pillole “del giorno dopo” (a quando quelle sugli anticoncezionali?) non conduca ad un incremento degli aborti.
Non capisco la sorpresa e la meraviglia per le decisioni della Corte suprema Usa in merito all’aborto. Basta guardare una cartina a colori, mettiamo dei risultati elettorali, per rendersi conto, a colpo d’occhio, che gli Stati Uniti sono una serie di isole blu (le grandi città, il cui voto va ai liberal e ai democratici) in un grande mare rosso, che è l’immensa prateria dell’America diffusa, che aveva votato e potrebbe votare di nuovo per Trump, che ce l’ha con i neri, gli immigrati, gli omosessuali, e le donne che non vogliono stare al loro posto. Metà America è da sempre profondamente, beceramente conservatrice. L’altra metà no.

 

Non è da oggi che gli imperi tendono ad essere conservatori. Putin poggia il suo potere e la sua aggressività su un’opinione pubblica russa che come lui sospetta e odia il resto del mondo, non si fida degli intellettuali, odia le donne e odia gli omosessuali. C’è una sola cosa che nemmeno lui potrebbe permettersi di toccargli: la vodka. Idem per la Turchia di Erdogan, l’Iran degli ayatollah, per l’India nazional-induista di Modi, o per la Cina di Xi Jinping, che è l’impero più antico e sofisticato di tutti. Erano rimasti profondamente conservatori, nel midollo, anche quando facevano finta di rivoluzionare tutto. Figurarsi ora che pensano di avere davvero i numeri per essere il centro del mondo.

 

L’anima conservatrice di ogni impero. I cinesi hanno accettato per decenni che in nome del Bene comune gli proibissero quasi tutto

 

I cinesi hanno accettato per decenni (più esatto sarebbe dire per millenni) che in nome del Bene comune (che è poi il bene della dinastia al potere) gli proibissero quasi tutto. Escono da decenni di politica del figlio unico, di aborti forzati, che, a pensarci bene, sono poi l’altra faccia dell’aborto proibito, della scelta negata. E se la demografia cinese va così a picco come dice l’ultimo censimento, la pagheranno carissima, più cara ancora di quanto la stanno pagando, ormai da decenni, in diminuzione delle nascite, e stagnazione della crescita, il Giappone, la Russia, l’intera Europa e l’Italia.

 

Gli Stati Uniti non sono meno impero e meno conservatori di altri. Con una differenza però: che le spinte conservatrici, prepotenti, a volte maggioritarie, apparentemente imbattibili, vengono controbilanciate da altrettanto forti e travolgenti spinte in senso opposto, libertarie, progressiste. Si vota. L’esito non è scontato. Né la direzione. Cicli della storia e della politica americana li definiva Arthur Schlesinger, un grande storico che avevo avuto la fortuna di incontrare e intervistare quando facevo il corrispondente in America. Ci sono checks and balances, correttivi anche di quella che Alexis de Tocqueville temeva come “dittatura della maggioranza”. Finora ha funzionato. Eccezioni come l’assalto al Congresso del gennaio 2021 sembrano confermare la regola. Anche le onde lunghe, come quelle prodotte da una Corte suprema di nominati a vita dai presidenti (è capitato che ben tre giudici su nove siano stati nominati da Trump) si infrangono e poi finiscono per tornare nella direzione opposta.

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