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Ironia della corte

Cosa c'è dietro le polemiche sulla Suprema istituzione giudiziaria dell'America.

Maurizio Stefanini

Dalla schiavitù all’aborto, passando per la sodomia: la storia delle trasformazioni delle sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti

Una contestata sentenza della Corte suprema dichiara incostituzionale una normativa di compromesso che su un tema particolarmente divisivo era già in vigore da quasi quarant’anni. Si crea così una mobilitazione popolare che determina il futuro del Partito repubblicano. E il clima è tale che una Guerra civile scoppia davvero, con un milione di morti. A fine conflitto tre emendamenti vengono votati, proprio per impedire che la Corte suprema possa di nuovo affermare che certi princìpi non stanno nella Costituzione.

 

Non è fantapolitica su un possibile imminente futuro, ma storia, di 165 anni fa. Non stiamo parlando infatti della Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization: la sentenza con cui il 24 giugno Scotus, la Supreme Court of the United States, ha ribaltato quell’altra sentenza Roe v. Wade con cui il 22 gennaio 1973 erano state giudicate incostituzionali le leggi del Texas che punivano l’aborto. Parliamo invece della Dred Scott v. Sandford: sentenza del 6 marzo del 1857 in base alla quale i neri non erano cittadini degli Stati Uniti, ed era incostituzionale quello stesso Compromesso del Missouri del 1820 in base al quale gli stati del nord potevano vietare la schiavitù. Un esito dell’ira popolare contro la sentenza è la ripresa di azioni armate e addirittura terroriste da parte di un’ala di antischiavisti estremisti il cui più noto esponente è John Brown, che il 2 dicembre 1859 viene impiccato in Virginia. Un altro esito è la crescita del Partito repubblicano, costituito il 20 marzo 1854 apposta per incanalare la protesta abolizionista.

 

Infatti, il 6 novembre 1860 è eletto presidente il repubblicano Abraham Lincoln, che si insedia il 4 marzo. Ma già il 20 dicembre la South Carolina ha dichiarato la secessione, seguita da altri stati. L’8 febbraio gli Stati confederati d’America adottano una costituzione provvisoria. E il 12 aprile inizia la guerra, che andrà avanti fino al 9 maggio 1865, e in cui uno dei più noti canti dell’esercito nordista sarà dedicato appunto a John Brown. 
Ironia della storia: su quello stesso Partito repubblicano che allora guidò la protesta contro una sentenza impopolare della Corte suprema, pesa ora l’accusa di aver portato la Corte suprema a prendere una decisione impopolare, per avere designato con i suoi presidenti ben sei dei nove membri attuali.

 

Corsi e ricorsi storici: di sette contro due fu il voto della Dred Scott v. Sandford; di sette contro due fu anche il voto della Roe v. Wade. Mentre Henry Menasco Wade era l’avvocato rappresentante del Texas, Jane Roe in realtà si chiamava Norma McCorvey. Nata in Louisiana nel 1947 da genitori cherokee e cajun; sposata a 16 anni a un uomo violento dopo una infanzia tormentata; incinta di due figlie; utilizzata come caso simbolo da un team di avvocate femministe mentre è incinta del terzo. Ma le diedero un nome fittizio in nome della privacy, e la privacy fu in effetti la chiave della sentenza.

 

“Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono. Nessuno stato farà o metterà in esecuzione una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; né potrà qualsiasi stato privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge; né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi”, dice infatti il Quattordicesimo emendamento, proposto il 13 giugno 1866 e ratificato il 9 luglio 1868. Scotus stabilì che in questa “clausola di giusto processo” sia incluso un fondamentale “diritto alla riservatezza”, e in questa privacy sarebbe compresa la libertà di una donna incinta di abortire.

 

Certo, specificava la Corte: una libertà bilanciata dall’interesse del governo a proteggere la salute delle donne e la vita prenatale del feto. Conseguenza della sentenza, comunque, era che l’aborto doveva essere consentito per qualsiasi ragione la donna lo voglia, fino al punto in cui il feto diventa in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno. 28 settimane.
Quando dunque nel 2018 il Mississippi ha adottato una legge che metteva al bando l’aborto dopo la 15esima settimana, le Corti federali di grado inferiore hanno subito sospeso la legge, provocando il ricorso alla Corte suprema.

 

Il passaggio logico dal diritto alla privacy al diritto all’aborto è stato ritenuto indebito. Ma così la Corte suprema ha smentito la Corte suprema

 

Ma adesso, con cinque voti contro quattro, la stessa Corte ha stabilito che  il diritto all’aborto non è protetto dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America. In pratica, il passaggio logico giusto processo = diritto alla privacy = diritto all’aborto è stato ritenuto una arrampicata sugli specchi indebita. Ma così la Corte suprema ha smentito la Corte suprema!
Non è la prima volta che accade.

 

Il ricorso dello schiavo Dred Scott: avendo soggiornato in territori dove la schiavitù è vietata, doveva essere liberato. La Corte suprema gli dà torto

 

Torniamo dunque a Dred Scott: uno schiavo classe 1799 con moglie e due figlie a loro volta schiave, “proprietà” di un medico militare che lo ha tenuto per una dozzina di anni in Illinois e Wisconsin. Come nel caso di Jane Roe-Norma McCorvey il suo caso viene sponsorizzato da una lobby che vuole creare un precedente. Quando la vedova dell’ufficiale rifiuta la sua offerta di affrancarsi con un pagamento in denaro, Dred fa ricorso in tribunale, spiegando che avendo soggiornato in territori dove la schiavitù è vietata dovrebbe essergli riconosciuta non solo la libertà per lui e la sua famiglia, ma anche un po’ di stipendi arretrati.

 

La cosa rimbalza di tribunale in tribunale per ben 11 anni, fino a quando non arriva alla Corte suprema. Il presidente James Buchanan chiede ai giudici di non emettere sentenze che possano innescare quella secessione che i sudisti estremisti evocano ormai da anni. La Corte lo asseconda, spiegando che Scott non ha neanche il diritto di ricorrere in tribunale. Ma va pure oltre, stabilendo che la schiavitù non può essere vietata in nessuno stato
Il bello è che nel frattempo l’irriducibile vedova si è risposata con un abolizionista, che sarebbe stato disposto ad affrancare la famiglia Scott, non fosse che il caso è andato ormai avanti da solo. 81 giorni dopo la “peggior sentenza della storia della Corte suprema” gli Scott diventano infatti liberi, il 26 maggio.

 

Dred trova anche un posto da facchino, ma purtroppo per lui muore di tbc in capo ad appena 16 mesi: il 17 settembre 1858. Esattamente come adesso alcune Corti locali stanno disobbedendo a Scotus col bloccare il bando alla interruzione di gravidanza, allora legislatori e Corti supreme degli stati del nord fecero come se la sentenza non fosse stata pronunciata. Si andò così alla guerra civile, e quando ancora non era finita il 31 gennaio 1865 fu approvato quel  Tredicesimo emendamento che entrò in vigore il 6 dicembre 1865, e che dichiarava la schiavitù abolita.

 

Tre anni dopo, come ricordato, si aggiunse quel Quattordicesimo emendamento cui si appellò anche la Roe v. Wade, e secondo cui tutti i nati e naturalizzati negli Stati Uniti sono cittadini. E il 3 febbraio del 1870 entrò in vigore quel Quindicesimo Emendamento in base al quale  “il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi stato in ragione della razza, del colore o della precedente condizione di schiavitù”. Insomma, Scotus aveva detto che “da nessuna parte della Costituzione c’è scritto che i neri sono cittadini”. E allora il Congresso ce lo scrisse tre volte. 
Qualcuno propone anche oggi di fare sull’aborto un emendamento. Non sarebbe del tutto corretto assimilare la attuale lobby abortista a erede della lobby abolizionista, perché in realtà anche molti antiabortisti si considerano eredi degli antischiavisti. A parte appunto per il precedente di una decisione contestata, il parallelo vale però per la constatazione che la Corte suprema non è affatto un organismo che “dice l’ultima parola”, ma può cambiare posizione.

 

Per esempio, a proposito di razza, dopo aver affermato nel 1857 che i neri non potevano essere cittadini, nel 1880 stabilì, al contrario, che non potevano essere esclusi dalle giurie in quanto neri. Verissimo: nel frattempo c’erano stati i tre citati emendamenti.  Ma nel 1886, accogliendo il ricorso di un cinese cui a San Francisco avevano negato la licenza per una lavanderia, Scotus vi aggiunge che il principio di non discriminazione andava applicato anche ai non cittadini. Però nel 1896 al ricorso di Homer Plessy,  cacciato da un vagone di treno per soli bianchi per il motivo che uno dei suoi otto bisnonni era stato nero, fu risposto che la segregazione era legittima. “Separati ma eguali”: se ci sono posti in treno anche per neri, non si vìola nessun principio di uguaglianza! 
Però nel 1938 la Corte precisò che il “separati ma eguali” non poteva essere garantito se lo stato pagava per mandare i neri in istituzioni educative di altri stati. Doveva offrirne nel suo territorio, anche se segregate.

 

Nel 1944 ribadì che i neri avevano diritto di voto alle primarie, e impose pari diritti anche nelle rappresentanze sindacali. In compenso, lo stesso anno  un’altra sentenza giudica legittimo l’ordine di internamento per i cittadini di origine giapponese dopo Pearl Harbor. Ma nel 1946 la Corte cassa la  segregazione sui bus. Nel 1948 vieta clausole razziali nei contratti immobiliari. Nel 1950 vieta discriminazioni nelle ferrovie. Nel 1954 chiarisce che anche a ispanici e altre etnie si applicano disposizioni anti discriminazione originariamente pensate per i neri, e dichiara di nuovo incostituzionali le scuole segregate con due sentenze. 

 

Nel sud fanno resistenza, visto che la segregazione nei bus deve di nuovo essere dichiarata incostituzionale nel 1955, nel 1956 e nel 1960. Bisogna che il governo federale mandi le truppe per garantire il superamento della segregazione nel sud, e bisogna aspettare il 1967 e l’uscita del film “Indovina chi viene a cena?” perché la Loving v. Virginia dichiari incostituzionali le leggi che proibiscono i matrimoni interrazziali.

 

Clamoroso è il ribaltamento della sentenza che stabiliva costituzionale una legge anti sodomia della Georgia. Sempre per il diritto alla privacy

 

E’ due anni dopo una sentenza che dichiara incostituzionale il divieto di contraccettivi, ma ci vorranno altri cinque anni perché si aggiunga che non si possono vietare i contraccettivi a coppie non sposate. Pure là, viene tirata in ballo la privacy. Clamoroso è il ribaltamento tra quella Bowers v. Hardwick in cui nel 1986 cinque giudici contro quattro stabilirono che una legge anti sodomia della Georgia è costituzionale, e quella Lawrence v. Texas del 2003 in cui si dice il contrario. Sempre per il diritto alla privacy. E nel 2013 viene dichiarata incostituzionale la discriminazione verso i matrimoni omosessuali, dopo il ricorso di una donna residente a New York che dopo aver sposato la sua compagna in Canada era rimasta vedova, e si era vista rifiutare l’esenzione dalla tassa di successione prevista dalla legge federale a favore del coniuge superstite. Nel 2015 la Obergefell v. Hodges dichiara  incostituzionale la non previsione di matrimoni omosessuali, e nel 2020 la Bostock v. Clayton County estende ai gay la protezione contro la discriminazione sul lavoro.

 

Insomma, la stessa Corte oggi tacciata di essere reazionaria per la sentenza sull’aborto è invece progressista in materia Lgbt. Ma sulle armi, quella New York State Rifle & Pistol Association Inc. v. Bruen che il 23 giugno ha cassato la legge restrittiva sulle armi dello Stato di New York segna un netto capovolgimento rispetto a quella sentenza del 1876 secondo cui,  siccome lo scopo del Secondo emendamento è quello di limitare il governo federale, non ne deriva affatto un diritto di portare armi incondizionato. Sulla stessa linea, nel 1886 è giudicata costituzionale una legge dell’Illinois che vieta ai privati di creare milizie, e nel 1939 il governo federale è autorizzato a limitare l’accesso alle armi che non hanno “alcuna ragionevole relazione con la preservazione o efficienza di una ben regolata milizia”. Cioè, automatiche e pesanti.

 

Non è forse proprio questa capacità camaleontica il segreto della durata di un’istituzione creata nel 1789? Tutte le corti costituzionali vengono da lì

 

Solo nel 2008 il District of Columbia v. Heller ha garantito il diritto a possedere armi anche non collegato al servizio in una milizia autorizzata, e nel 2010 la McDonald v. City of Chicago ha attaccato addirittura questo diritto alla stessa tutela della privacy tirata in ballo per aborto e gay.  Ancora, nel 1927 è autorizzata una sterilizzazione obbligatoria dei disabili poi vietata da una legge del 1990. La stessa pena di morte è sospesa nel 1972 e di nuovo autorizzata nel 1976.  
Alla fine, però, non è forse proprio questa capacità camaleontica il segreto della durata di una istituzione creata nel 1789? Con vari adattamenti, tutte le corti costituzionali oggi esistenti al mondo vengono da lì.

 

Eppure, quando fu istituita non era del tutto chiaro a cosa dovesse servire. Primo Chief Justice, John Marshall era esponente dello stesso Partito federalista che governò per i primi tre mandati. Nel 1801 però, quando Adams è sconfitto dal democratico Thomas Jefferson, prima di sloggiare dalla Casa Bianca fa una raffica di nomine tra cui quella a giudice federale di William Marbury. Jefferson ordina al segretario di stato James Madison di non consegnargliela. Marbury si rivolge a Marshall, suo compagno di partito. Marshall capisce che se dà l’ordine e Madison non obbedisce per la Corte è la fine. Rigira allora la frittata, in modo magistrale. Da una parte, infatti, dice che c’è un contrasto tra la legge secondo cui la Corte dovrebbe decidere in primo grado e la Costituzione. Dunque, la Corte non può decidere. Però stabilisce così che questa ha il diritto di stabilire la costituzionalità delle leggi. Il Judicial Review.

 

E’ la stessa capacità di adattarsi che torna al momento del duro scontro tra la Corte e Franklin Delano Roosevelt, che in risposta a varie dichiarazioni di incostituzionalità di provvedimenti del New Deal minaccia una riforma per poter nominare un nuovo giudice ogni volta che uno dei vecchi arriva a 70 anni. Il suo stesso partito si spacca, ma a quel punto anche la maggioranza repubblicana della Corte capisce che deve fare concessioni. Non solo dunque alcuni giudici si dimettono, ma i conservatori rimasti si ammorbidiscono. Epocale è soprattutto l’improvviso cambio di linea sul salario minimo di Owen Roberts nel 1937, su cui un umorista conia una battuta in rima passata alla Storia: “the switch in time that saved nine”. Il cambio in tempo che salvò i nove. 

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