Indagine

La guerra mondiale dell'aborto

Maurizio Crippa

La più cruciale e simbolica culture war della nostra epoca si è riaccesa, già da prima della sentenza della Corte suprema americana. Le ambivalenze degli Stati Uniti. La religione come campo di battaglia e i “partiti” nella chiesa. L’Italia e i compromessi possibili

"Roe overturned”. Il mattino dopo è il titolo secco sulla prima pagina del New York Times. In Italia per Repubblica è “Shock in America, l’aborto non è più un diritto”, che nella gothic novel della Stampa diventa “L’America che odia le donne. Aborto, medioevo Usa”. Sabato scorso, i titoli sono stati più misurati (“Biden, sotto crescente pressione, firma un ordine esecutivo sull’aborto” Nyt) per segnalare l’iniziativa del presidente per garantire alcune immediate tutele del diritto all’interruzione di gravidanza anche negli stati che d’ora in poi la vieteranno. Per i critici di sinistra di Biden, che sono molti, una mossa debole; in ogni caso, si tratta di un ordine presidenziale in opposizione a una sentenza della Corte suprema definita “terribile e totalmente sbagliata”, e dimostra quanto il potere supremo dei giudici possa rivelarsi non così supremo. La più cruciale e simbolica culture war della nostra epoca si è riaccesa, e non da un paio di settimane. La sentenza della Corte sul caso Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization era attesa, e data la sua attuale composizione, era previsto che avrebbe cancellato la Roe vs Wade del 1973 che aveva reso costituzionale il diritto della donna di interrompere la gravidanza, dunque inattaccabile dalle decisioni degli stati. Difficile prevedere le ricadute politiche: come verrà gestita dai pro life una vittoria che rischia di essere di Pirro? E quanto costerà ai democratici di Joe Biden (l’impacciato cattolico abortista) l’accusa di non essersi impegnati, fin dai tempi delle solide maggioranze di Obama, per mettere in sicurezza con una legge federale l’aborto? L’ordine esecutivo di Biden incontrerà molti ostacoli prima di avere efficacia, in ogni caso mostra che l’America non ha introdotto un divieto assoluto di aborto: lo scontro è innanzitutto politico. Sarà però ancora più interessante cogliere le ricadute culturali e sociali: perché dall’America si alza sempre il vento che investe l’occidente.


Washington e il Mississippi sono il focolaio di una nuova fase della “guerra dei valori”, ma negli ultimi anni lo scontro si è acceso anche in molti altri paesi (in Italia è più una guerra a bassa intensità, mai risolta). Fino a qualche anno fa l’aborto – per i favorevoli la più grande conquista civile delle donne, per qualche minoritario oppositore “il più grande scandalo etico del nostro tempo” – sembrava entrato in una fase di sonno o narcosi, non interessava più: con tutto il suo portato di lotte femministe, di dilemma morale, di scomuniche religiose semplicemente non era più argomento di polemica. Sembrava ormai accettato in un sostanziale indifferentismo etico, mentre si apriva la prospettiva dell’interruzione di gravidanza farmacologica, sottratta al controllo del sistema medico e dunque sociale. Un diritto individuale come altri. Quando nel 2008 il Foglio propose una moratoria internazionale contro l’aborto, suscitò inizialmente più sorpresa che nemmeno avversione (quella venne poi). Sembrava la riproposizione maleducata, signora mia, di un tema di cui in società non c’era più voglia di discutere. Fuori tempo, nell’edonismo indifferente degli anni Zero non ancora travolti dall’isteria della futura guerra dei generi. Da qualche tempo però, in luoghi diversi, “l’interruzione volontaria della gravidanza”, come la chiama la legge italiana, o il “right of privacy”, della donna di “whether or not to terminate a pregnancy”, come da sentenza del 1973, sono tornati temi contesi, se non contendibili. Una guerra mondiale a pezzi, un segno che lo scandalo non era smaltito.

 


La prima linea del fronte
La prima linea del fronte parla dello scontro tra pro choice che denunciano una (più o meno estesa) “erosione del diritto” all’aborto e pro life che al contrario stigmatizzano una sua estensione incontrollata, dalle tempistiche dilatate alla minore età per l’accesso. Contraddizioni coesistenti. L’aspetto comune è la sempre minore capacità di elaborare compromessi accettabili (da questo punto di vista, la 194 italiana  resta un esempio virtuoso).

 

Prima della sentenza Alito gli stati americani in cui l’aborto era protetto erano otto: California, Connecticut, Hawaii, New Jersey, New York, Oregon, Vermont e Washington. In  quattordici era protetto ma con limitazioni; ora in alcuni stati repubblicani  sono entrate subito in vigore leggi che lo vietano, come in Alabama, Arkansas, Kentucky, Louisiana, Missouri, South Dakota, Utah, Wisconsin e Oklahoma. L’assestamento politico e legale del post Roe sarà lungo, pieno di litigation e di trappole.Ma non ci sono solo gli Stati Uniti. Alcuni paesi stanno abolendo o restringendo le leggi sull’aborto, sulla scorta di opinioni pubbliche fortemente contrarie e a volte con azioni politiche al limite della correttezza. Il caso più eclatante è la Polonia, che ha visto nei mesi scorsi la protesta delle donne contro il governo di destra, che ha ottenuto dalla Corte costituzionale di sua nomina il varo di norme più restrittive di quelle già in vigore, che oggi vietano l’aborto in quasi tutti i casi. Nella stessa direzione si è mosso il Brasile di Bolsonaro, spinto dalla sua base evangelica, dove oggi l’aborto è legale solo in caso di stupro. Diverso il caso della (ex) cattolica Irlanda, dove la legge che consente l’aborto c’è, ma sono forti le proteste e le polemiche contro i tentativi del governo conservatore di rallentarne l’applicazione. Ma non tutto va nel segno dell’“erosione”. L’Argentina ha introdotto l’aborto nel 2020 e la Colombia nel 2022, con una legge che lo consente fino a 24 settimane e come “diritto alla salute e all’autodeterminazione della donna”. Nel 2021 Benin, Messico, Laos, Gabon e persino San Marino si sono aggiunti. In molti paesi come l’Italia, il ricorso alla pillola dei 5 giorni è regolarizzato. In altre nazioni le legislazioni si sono estese: la Spagna sta togliendo l’obbligo di consenso dei genitori per le minorenni; la Francia lo ha già fatto. In quasi tutti gli stati  americani abortisti i limiti sono ben più permissivi di quelli europei, e in questi casi sono i pro life ad alzare la voce. Una sorta di guerra di posizione in cui, paradossalmente, all’erosione del diritto si contrappone una sua estensione pratica e un numero sempre elevato dei casi. Secondo il sito specializzato worldometer.info gli aborti nel mondo nel 2021 sono stati 42,6 milioni, in linea con i 43,8 certificati da Oms e Guttmacher Institute nel 2008.
Ma la sentenza Dobbs ha fatto deflagrare gli altri pezzi di un conflitto che è politico, culturale, simbolico.

 

 

C’è democrazia e democrazia
La sentenza Dobbs – con l’abolizione di un diritto in precedenza acquisito – implica una questione più generale per la democrazia. Ed è il cuore del dilemma americano, per le conseguenze che potrebbe avere. Ritornare alla regola “ogni stato decide” è più democratico? O è invece il contrario? Nella disputa tra l’overrulling, la sentenza che ribalta il contenuto di sentenze precedenti, la living Constitution, la visione progressive per cui la Costituzione deve evolvere con la società, accompagnata dai dieci giudici, e l’originalismo, il rispetto alla lettera della volontà dei Padri tanto caro ai conservatori, c’è in gioco l’idea stessa di democrazia americana. E’ in corso una rivoluzione iniziata in realtà molto prima di Trump, quando George W. Bush nominò due giudici della Corte suprema apertamente conservatori, mettendo le basi della maggioranza di oggi. Molti sostengono che gli overrullnig (ne verranno altri) della maggioranza conservatrice della Corte siano antistorici e anti pluralisti. Ma come ha argomentato Giuliano Amato, provando a rendere meno incomprensibile un dibattito per noi estraneo: “L’overulling non è così infrequente, ha diverse centinaia di precedenti nella storia della Corte. Molti dei quali celebrati dai progressisti, perché i cambiamenti di opinione della Corte negli Stati uniti hanno seguito il filo dell’irrobustimento dei poteri del Congresso federale”, ha detto il presidente della Corte costituzionale al Manifesto. Un argomento di cui tenere conto, e vale per ogni democrazia: i mutamenti nella cultura sociale di un paese possono invertire i trend storici. Perché non dovrebbe accadere? Il problema, in America, è capire fin dove può spingersi la politica nel modificare la Costituzione. Dick Cheney – repubblicano senza se e senza ma la cui figlia è oggi una “stronger” pro life e “stronger” anti Trump – era un pro life pragmatico e concordava con Bill Clinton sulla necessità di diminuire gli aborti. Ma i repubblicani sono cambiati, sulla spinta di agguerriti pro life che hanno creato le condizioni per l’attacco politico-legale alla Roe vs Wade, trasformata nel simbolo da abbattere di tutti i mali del progressismo (ne ha scritto Marco Bardazzi sul Foglio di sabato 2 luglio).


Il punto – a questo livello del discorso – non è se i pro life siano regrediti su posizioni apertamente reazionarie. Il punto è prendere atto che in vent’anni una parte di America è cambiata. Molto, dai tempi in cui il principe dei (tele) predicatori battisti, Billy Graham, amico dei Bush, predicava che “l’aborto è un dramma che va affrontato con la preghiera e con la discussione civile”. Anche a livello politico il tema è sempre stato ambivalente. Reagan, antiabortista, firmò la legge californiana sull’aborto; ma da presidente nel 1985 varò la Mexico City Policy, che chiudeva i finanziamenti alle organizzazioni che sostengono l’aborto fuori dagli Stati Uniti. Da allora, ogni amministrazione democratica (Biden compreso) ha rimosso il divieto, e ogni presidente repubblicano lo ha reintrodotto. Gli elettorati americani sono cambiati, di certo estremizzati.  I sondaggi Gallup raccontano che a metà degli anni 90 il vantaggio dei pro choice sui pro life era 55 a 40. Ma dopo il 2010 le parti si erano quasi invertite. A ridosso della sentenza Alito un sondaggio del Washington Post indicava al 54 per cento i sostenitori del mantenimento della Roe vs Wade, anche se istituti d’area pro life segnalano forbici più strette. Gli Stati Uniti non prevedono referendum italian style, e nell’incertezza ci sono solo le regole su cui si basa l’America: che può anche cambiare idea, senza che questo significhi la fine della sua democrazia. La settimana scorsa il Parlamento europeo ha votato a maggioranza (324 voti sì, 155 no e 38 astenuti) una risoluzione – non legislativa – che chiede di inserire il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, modificando l’art. 7. Tra le motivazioni degli oppositori, a parte essere contrari all’aborto, come può accadere in democrazia, la notazione che una simile modifica rischierebbe di far apparire prevalente il diritto comunitario rispetto a legislazioni che sono di pertinenza degli stati. Una situazione teorica ribaltata, rispetto a quella degli Stati Uniti. Ma qui, secondo i fautori della risoluzione, a mettere a rischio la democrazia sarebbe la minoranza. Punti di vista, se non implicassero ogni volta rischi di forzature. La  rivista cattolica liberal Commonweal ha scritto che in una democrazia pluralistica “le convinzioni di una minoranza non possono essere trasformate in legge sulla volontà della maggioranza”. Ma oltre a dover stabilire dove sia di volta in volta la maggioranza, ci sono le argomentazioni di personalità come Giovanni Paolo II, cattolico pure lui, secondo cui nessuna “legge stabilita dall’uomo, dai parlamenti, e da ogni altra istanza legislativa umana” può essere imposta nemmeno dalla maggioranza, se ritenuta moralmente illecita. Ma decidono le maggioranze. La prima vittima di questa guerra sulla pursuit of happiness rischia di essere l’idea della democrazia.
Vittima forse inutile: una sentenza può eliminare una pratica che da tempo ha trovato modo di privatizzarsi e sfuggire le imposizioni? Qualcuno, dopo lo choc, inizia a chiederselo. Simona Siri, giornalista per la Stampa da New York, è stata tra le prime a reagire con una storia su Instagram: “Qui a NY l’aborto è legale per qualsiasi motivo fino alla 24esima settimana. Molte delle leggi restrittive che hanno applicato gli stati americani in realtà per i canoni europei non sarebbero restrittive”. Ma soprattutto: “Negli ultimi anni la metà degli aborti in Usa è stato non chirurgico, ma farmaceutico. L’aborto farmaceutico è consentito fino alla decima settimana: si possono ordinare le pastiglie online e ti vengono spedite a casa in forma anonima”. E “un conto è chiudere fisicamente le cliniche che praticano aborti, ma è molto più difficile tracciare una spedizione anonima via posta”. Anche perché “per ottenerla basta fare un consulto online con un medico di uno stato in cui l’aborto è legale”. L’ordine esecutivo di Biden, che oltre a tutelare la privacy online permetterebbe ad esempio alle donne la possibilità di recarsi in stati dove l’interruzione di gravidanza è ammessa, indica la stessa direzione.
La democrazia è salva oppure no, dipende dai punti di vista, ma l’aborto forse sì. Di cosa si discute, allora? Il fronte più infiammato della guerra è altrove, nel territorio dei simboli e della cultura.

 


La verità di Ritanna
Ritanna Armeni ha scritto lo scorso anno per il Foglio un magnifico e rivelatore long form. Il tema non era l’aborto, ma “I figli che non vogliamo”. Un dialogo ravvicinato con le (“cattive”) ragazze di oggi. Raccontava: “‘Figli? Non ho alcuna intenzione di farne’ e, poi, perché non ci siano equivoci, la precisazione: ‘Non sono nei miei programmi, in futuro, forse’”. Annotava: “Le donne non vogliono diventare madri proprio perché sono più libere e non soggette all’autorità maschile. Dovremmo cominciare a dirlo con maggiore chiarezza. Non è individualismo, non egoismo”. L’aborto non c’entra e c’entra. “Alcuni decenni fa in tante abbiamo lottato per ottenere una legge sull’aborto che non punisse le donne”. Ma, e suona come una rivelazione solo per i distratti, “anche allora non accettavamo l’obbligo alla maternità, non volevamo che la biologia interferisse con la libertà, che per noi donne ci fosse un destino segnato. Era una scelta che somiglia molto a quella delle mie ‘cattive ragazze’. Ma noi, pur di vincere, facemmo un compromesso con l’immaginario femminile prevalente nella società. Parlammo di donne povere e disperate che di figli ne avevano già tanti e non potevano permettersene un altro, di pericoli per la vita della madre, di giovani spezzate da un avvenimento non previsto e che erano costrette a privarsi del loro bambino, di aborto come dramma. Vero? Solo in parte”. Il cuore del problema, che ora può essere detto: “Evitammo di dire che la nostra era una ribellione contro la biologia, l’affermazione di una libertà”. Non ci sono giudizi storici o etici da dare o raddrizzare, la riflessione di Ritanna Armeni è semplicemente non reticente e più acuta di tante altre e aiuta a capire come oggi l’aborto sia una scelta di vita che con il “nascituro” ha poco a che spartire.
 L’anno scorso Venezia ha premiato il film La scelta di Anne, tratto dal romanzo autobiografico di Annie Ernaux: un racconto di aborto negli anni 60, una scelta di ribellione radicale; ma francamente distante dalla situazione della Francia di oggi. Eppure il film di Audrey Diwan è stato acclamato come se denunciasse un’urgenza attuale. Qualche anno fa di aborto ha parlato un film rumeno, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Christian Mongiu vinse a Cannes, raccontando un paese in cui l’aborto era stato prima ferocemente proibito e poi grossolanamente amministrato. Difficile negarlo: lo scontro/scandalo tra “chi valesse di più tra le madri incinte e la vita di chi non sarebbe mai nato”, come lo formularono nel 1973 i giudici americani contrari alla Roe vs Wade, è destinato a vivere anche se cambiano le condizioni politiche e sociali. Forse non è solo una fissazione religiosa.
L’altro campo di battaglia è ovviamente la religione, ed è anche quello che avrebbe più urgenza di essere sminato. O almeno di fare ordine fra truppe regolari e bande armate. Gli Usa e il Brasile sono gli unici paesi occidentali con una spinta pro life così aggressiva, che deriva soprattutto dalla componente evangelica (le denominazioni storiche, come in Europa, sono completamente assimilate) a cui il cattolicesimo americano si è uniformato, o timidamente accodato. In altri paesi cattolici, a parte la Polonia, gli attivisti pro life sono più che altro nicchie minoritarie (ma paradossalmente sempre meno tollerate: vedi l’obiezione di coscienza in Italia, problema che andrebbe casomai affrontato con l’assunzione di medici non obiettori, e non con l’abolizione di un diritto tutelato in Costituzione, che sembra però essere il vero obiettivo). Ma nell’evoluzione dei pro life americani, dal quasi-quietismo di un Billy Graham all’uso esasperato delle battaglie legali e delle campagne mediatiche, è cresciuta una ideologia puramente punitiva, con legislazioni che rifiutano spesso anche la valutazione sanitaria. Se si leggono i siti pro life più agguerriti, colpisce come la condanna biblica e il tema del castigo pesino di più che nemmeno la difesa della sacralità vita. In questo la chiesa cattolica americana segue a ruota, e la stessa campagna dei vescovi per negare la Comunione all’abortista Biden ha mostrato, più che una capacità di pressione etica, una ottusa volontà vendicativa. Va tutto bene, in casa cattolica?

 

 

“…Ma non gettano i neonati” (Lettera a Diogneto)
C’è un magnifico testo apologetico dei primi secoli noto come la lettera A Diogneto. E’ una difesa dei cristiani indirizzata a un interlocutore pagano, la spiegazione di chi siano. Al capitolo V c’è una breve frase illuminante: “Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati”. Un dettaglio, si direbbe superfluo. A meno che l’autore volesse suscitare nel suo lettore lo stupore per qualcosa di inaudito. Nel mondo pagano in cui l’aborto era in larga misura pratica indifferente, questa novità di uomini e donne che si comportano in modo diverso era dunque degna di nota, se non di ammirazione. L’opposizione del cristianesimo all’aborto, molto prima di derivare dalla “legge naturale”, sta in questa sorprendente accettazione – che si deve immaginare lieta, se le comunità cristiane si diffusero così rapidamente innervando una nuova considerazione della vita nascente. “Non gettano i neonati”. La grande differenza tra il cristianesimo e altre religioni è in quell’indicazione che un anonimo scrittore di quasi duemila anni fa mette lì, in un “elenco delle cose notevoli” dei cristiani da spiegare a Diogneto.
 Nelle altre religioni lo “scandalo dell’aborto” non c’è o è meno avvertito. Nell’ebraismo è condannato. La versione – molto di moda anche tra gli attivisti cattolici impegnati a overturn la visione sessuale della chiesa verso una dottrina compatibile con la dogmatica Lgbtq+ – secondo cui la Bibbia non condannerebbe l’aborto, è falsa. Nell’Esodo la morte procurata di un feto è addirittura contabilizzata (a favore del padre) come oggetto di risarcimento pecuniario. Per l’islam, che pure non ha una grande concezione della libertà delle donne, l’anima viene insufflata da Allah dopo 120 giorni e in molti paesi islamici oggi la vera questione è la pianificazione demografica. Per induismo e buddismo l’aborto è un tabù, ma assai aggirabile: basta pensare all’aborto selettivo delle bambine in Asia. E’ dunque una battaglia soltanto del cristianesimo? No. Basterebbe lo scandalo suscitato qualche anno fa da un’inchiesta dell’Economist sui cento milioni di bambine che mancano nel mondo o le riflessioni dei demografi. Basterebbe qualche voce laica che ogni tanto si alza a ricordare il valore relazionale della vita generata da un uomo assieme a una donna. Il cristianesimo è la religione della facoltà di dare inizio, si fonda su una nascita, su una maternità accolta (e una paternità responsabile). Ma la chiesa cattolica ha una visione diversa dal protestantesimo evangelico. O almeno dovrebbe averla. Perché il rischio di scivolare nel fondamentalismo è reale. Non solo in America. La chiesa di Roma sembra aver smarrito da tempo le mappe su cui orientarsi per indicare al mondo la via che le sarebbe propria.
La chiesa americana negli anni si è adeguata – in una convergenza apodittica tra evangelismo e tradizionalismo romano – all’idea molto poco cattolica di rappresentare una controparte valoriale (“deep America”) in lotta con un potere illegittimo. La manfrina senza costrutto su Biden e l’esultanza tutta politica per la sentenza della Corte suprema, senza sapere ancora che direzione prenderanno le cose, sono chiari segnali. Il citato Commonweal dice che i vescovi “nella loro precipitosa ricerca di bandire l’aborto con ogni mezzo necessario, hanno legato la chiesa istituzionale a un partito politico ostile alle stesse politiche che avrebbero aiutato le donne e le famiglie”. Ci si occupa di simboli, si cerca di colpire i simboli del nemico. Significativa la dichiarazione del presidente della Conferenza episcopale americana José H. Gomez e del presidente della Commissione episcopale per la vita William F. Lori: “La sentenza è anche il frutto delle preghiere, dei sacrifici e della testimonianza pubblica di innumerevoli americani di ogni ceto sociale”. Spiegano: “In questi lunghi anni, milioni di nostri concittadini hanno lavorato insieme pacificamente per educare e persuadere i loro vicini sull’ingiustizia dell’aborto, per offrire assistenza e consulenza alle donne e per lavorare per alternative all’aborto, compresa l’adozione, l’affidamento e l’assistenza pubblica e politiche a sostegno delle famiglie”. E’ vero solo parzialmente. Il punto debole dei pro-life americani in questi anni è nelle proposte legislative che si limitano al “divieto”, mentre poco investimento ha il pensiero “della vita”, come tutelarla davvero. L’annuale Marcia per la vita di Washington è un avvenimento grandioso e significativo, c’è l’invito ai fedeli di fare apostolato, ma poche politiche attive. L’investimento, e non si tratta solo di economia, della Conferenza episcopale per sostenere campagne abolizioniste è maggiore di tutto il resto. Vale anche per altri episcopati.

 

 

La debolezza ideologica della chiesa
La  verità è che la chiesa cattolica è divisa in tre partiti non proprio affratellati. Quello del grande diniego, la convenienza ipocrita di non affrontare questo o altri temi eticamente e socialmente divisivi. Quello del silenzio progressista, che data dai tempi dell’Humanae vitae e che ha sempre ovattato un sottile ma esplicito dissenso dottrinale (“La prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana”, diceva il card. Martini). E un partito, a lungo quello di governo, che ha fatto dell’aborto, e del resto delle questioni bioetiche, una questione esclusivamente dottrinale.
Ma se prendiamo il caso dell’Italia, con il suo eccezionalismo dovuto non solo alla presenza del Vaticano ma alla sua storia, l’impegno concreto della chiesa è sempre stato debole: il risultato, o combinato disposto, dei tre partiti di cui sopra. Ogni anno in occasione della  Marcia della vita si ripetono sterili polemiche, con i militanti anti aborto ad accusare la Cei di avere abdicato alla lotta. E’ significativo che nemmeno la Cei abbia mai avuto interesse a far funzionare la 194, quella legge che i pro life duri e puri italiani hanno sempre rifiutato, ma che paradossalmente si dimostra una delle più equilibrate al mondo. Sulla carta, il titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, difende la maternità: e l’ipocrisia non è sempre da disprezzare. Ma la chiesa italiana, cui non manca la potenza di fuoco sociale, ha sempre fatto pochino in termini di investimento sui consultori, di sostegno alle madri, di aiuti per la famiglia. Il Movimento per la Vita è stato sempre marginalizzato, tranne quando poteva essere utilizzato per qualche scaramuccia parlamentare; i Centri di aiuto alla vita lasciati all’iniziativa volontaria. Meglio non creare tensioni. Paola Bonzi ha fatto “nascere migliaia di mamme”, come amava dire, dentro un consultorio in un ospedale pubblico, ma è stata guardata a lungo quasi con sospetto. Se si facesse un raffronto tra le energie spese in “battaglie sui valori” e le politiche concrete, ne uscirebbe un quadro sconcertante.
“Non gettano i neonati”, dovrebbe essere invece il primo riferimento. Ma a parte il quietismo impaurito da un lato e il progressismo tattico dall’altro – lo stesso progressismo che oggi ritiene impossibile sanare gli scandali sacerdotali, e vorrebbe sic et simpliciter dichiarare nulla la dottrina – è pesata una latente dogmatizzazione del tema. Il “grave problema di dare la vita” affrontato profeticamente da Paolo VI nel 1968 – e mai preso sul serio dal mondo cattolico, mentre il mondo laico scopriva la rivoluzione sessuale e riproduttiva – si è trasformato in una difesa concettuale tessuta di rigidità dottrinali. Al vento di battaglie vitali portato da Giovanni Paolo II, alle sue interrogazioni impetuose sulla sessualità umana culminate nell’Evangelium Vitae, “l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano”, ha fatto seguito un arrocco dottrinale, spesso incapace di farsi intendere ad intra prima anche ad extra, che di capacità profetica e attrattiva non ne ha mai mostrata. E’ significativo che Francesco abbia modificato e ridotto il ruolo dell’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, per tre decenni bastione difensivo dottrinale di una chiesa sempre meno capace di dare contenuto alle sue ragioni. Anche la scelta di Bergoglio fa parte di una guerra per simboli, ovviamente. Francesco non ha dubbi sull’aborto, e la decisione di permettere l’assoluzione delle donne anche al normale clero ha un grande significato. Ma le sue definizioni sommarie, “affittare un killer”, non hanno molto giovato a spingere la dottrina a rinnovarsi a trovare argomenti. D’altra parte, se il rinnovamento pastorale, come vorrebbero certe correnti minoritarie ma rumorose, consiste nelle riscritture piuttosto avventate secondo cui l’aborto nella chiesa sarebbe vietato solo da un paio di secoli, confondendo codificazione moderna e tradizione documentata lunga duemila anni, le chance della dottrina non sembrano troppe.
Se a pensare male ogni tanto ci si azzecca, il sospetto è che l’aborto alla gerarchia cattolica interessi molto meno di quanto venga affermato. E’ servito tutt’al più, in lunghi decenni, per un tentativo di rafforzare la dottrina su famiglia, sessualità e vita umana in contrasto con le derive nichiliste della modernità. Per il resto è una spigolosità da evitare. Il risultato è stato quello di lasciare il lavoro pratico alle derive dell’evangelismo americano, o ridurlo a una guerra di posizione. Un esempio, senza polemica. Intervistato dalla Verità sul caso americano, il vescovo di Ventimiglia e San Remo, Antonio Suetta, un outspoken conservatore, ha detto: “Auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194”. Addirittura, gli chiedono. “Certamente. E’ una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie”. Perché velleitarie, chiedono? “Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita”. A parte i dubbi sulla possibilità di cancellare la 194, Suetta dovrebbe chiedersi, e chiedere all’assemblea di pastori cui partecipa, perché il poco o tanto spazio che la legge lascia a interventi in favore della vita nascente non sia mai stato utilizzato.

 

 

Affetti speciali
L’ultimo fronte della nuova guerra mondiale a pezzi sull’aborto è il più paradossale, ma attuale, di tutti: da un lato si rischia una guerra di religione per la sacralità della vita; dall’altro i diritti riproduttivi non sono più il centro. Al centro c’è la sparizione della maternità (e anche della paternità) come alcuni millenni di culture umane l’hanno intesa, pur nelle varianti che lasceremo ai pedanti.
Come sanno le ragazze di Ritanna Armeni, come sanno le donne che difendono non più un principio di salute collettiva, ma di libertà individuale, oggi l’assoluto diritto privato di aborto – magari con qualche eccesso, una mezza dozzina di chiese è stata assaltata in America dopo la sentenza Dobbs – significa soprattutto affermare una separazione non indifferente tra condizione e corpo femminili (genere femminile?) e maternità. O tra corpo e procreazione, concetti che si escludono o eventualmente si incontreranno altrove. Il Manifesto qualche giorno fa ha intervistato il filosofo queer spagnolo Paul B. Preciado. Nelle sue risposte il diritto alla salute della donna semplicemente non c’è, invece “c’è una guerra mondiale per la sovranità dei corpi e sui corpi”. Gli chiedono quale sia la linea di frattura. Risposta: “E’ tra un fronte fascista di riforma patriarco-coloniale e un insieme di corpi che lottano per la definizione di una nuova sovranità oltre la tassonomia… Non mi interessa definire questa battaglia secondo la logica dell’identità, opponendo uomini e donne, femminismo e antifemminismo. Mi sembra più interessante guardarla come una guerra per la definizione della sovranità dei corpi”. Non è obbligatorio essere d’accordo con le teorie di Preciado. E’ interessante che il punto concettuale sia oggi questo, e il rifiuto teoretico della maternità e della sessualità riproduttiva ne sono solo una parte. Su Twitter una giovane donna partecipando a una discussione, ha scritto: “E’ colpa di voi maschietti, che da quando c’è il mondo prevaricate il corpo delle donne”. Non è obbligatorio prendere per buona l’idea per cui da che mondo è mondo ogni rapporto sessuale tra maschio e femmina sia stato uno stupro in concetto. Il punto è notare che le giovani donne dei prossimi decenni – non per forza “cattive ragazze” – la penseranno come lei e non secondo un “pensiero di natura” che ancora sembrava auto evidente a qualche Papa fa. Ha senso essere “contro” l’aborto, nel Mondo Nuovo, addirittura farne una questione di sacralità della vita, se la sfida attuale è negare la stessa idea di generarla, la vita? (Ci saranno altre tecniche delegate alla procreazione, suggeriva Armeni, ma lei stessa ha avvertito il timore di addentrarvisi).
Nel 2018, ai tempi del sinodo sull’Amoris Laetitia, trovammo quasi per caso un bellissimo testo risalente agli anni 70, di un teologo domenicano svizzero stimato da Paolo VI, Charles Journet. Eruditissimo professore del Grande Seminario di Friburgo, quando Paolo VI lo creò cardinale chiese solo di poter continuare a portare la veste da prete e di continuare l’insegnamento. Negli anni in cui l’Italia capovolgeva le sue morali, Journet parlava dell’indissolubilità del matrimonio come qualcosa di inaudito, un miracolo sconosciuto persino alla gerarchia della chiesa – che riusciva al massimo a ridere a denti stretti con le profezie sulfuree di Fanfani: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!”. Il mite Journet diceva invece che il cristianesimo aveva portato sulla terra una cosa mai vista, impossibile a uomini e donne: “La chiesa annuncia un messaggio a lei superiore, un messaggio che può recare solo nell’umiltà… Quale paradosso la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio. Essa è entrata nel mondo con scandalo dei discepoli e del mondo; ma tanto a essi che al mondo è stato rivelato per suo mezzo qualcosa – irreversibile nel tempo? – che rende capaci di comprendere il sacro rispetto, inconcepibile finora, che si deve alla donna, alla dignità del focolare, alla dignità della prole. Potrebbe la chiesa rinunciarvi?”. No, diceva, perché la chiesa “porta un sole i cui raggi misteriosi si diffondono fin nelle profondità delle tenebre”.
La stessa cosa può valere per l’aborto (del resto la lettera a Diogneto, al versetto seguente, dice: “Mettono in comune la mensa, ma non il letto”, altra bella stranezza). Per il cristianesimo, fin dal suo inizio, il valore della vita generata non sta nella legge naturale, da far valere come legge divina magari a colpi di maggioranza, ma viene dallo stupore di un dono salvifico da accogliere. Nessun diritto laico, nessuna legge può rendere conveniente per la chiesa rinunciare a testimoniare quel che un anonimo cristiano cercò di far comprendere a Diogneto. Anche a costo di distinguere i propri destini da quelli dei pro life americani o di mezzo mondo. Impegnandosi a salvare invece la possibilità di un mondo in cui, un giorno a venire, qualcuno potrebbe tornare a stupirsi di quel fatto strano: “Non gettavano i neonati

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"