Visto da Bruxelles

La Brexit serve a regolare i conti dentro ai Tory, ed è un guaio per l'Ue

David Carretta

L’Unione europea spera in un premier che renda la l'uscita dall'Europa del Regno unito più concertata, ma basta guardare l’elenco dei pretendenti al posto di Johnson per capire che la nuova generazione Tory è permeata dall’ideologia Brexit

 La partenza di Boris Johnson apre una nuova pagina nelle relazioni con il Regno Unito”, ha detto Michel Barnier, facendo eco alle speranze dell’Unione europea. Barnier è l’ex caponegoziatore dell’Ue sulla Brexit. Nessuno meglio di lui conosce l’effetto dirompente di Johnson sulle relazioni tra le due sponde della Manica. La sua scelta nel 2016 di schierarsi a favore della Brexit è stata decisiva per un referendum in cui il "leave" è passato con appena il 51,9 per cento. Johnson ha poi convinto l’allora premier Theresa May a imboccare anche l’uscita dal mercato interno e dall’unione doganale. Sempre lui ha sabotato l’accordo Brexit firmato da May per poterne prendere il posto a Downing Street. Ed è lui che ha chiesto, negoziato, firmato e rinnegato il Protocollo irlandese che ancora oggi è al centro di uno scontro tra Londra e Bruxelles. Per oltre sei anni l’Ue ha vissuto la relazione con il Regno Unito dovendo inseguire gli umori, le ambizioni e le manovre di Johnson. La tentazione è di credere che le dimissioni di un uomo segnino un nuovo inizio. I rapporti “possono essere più costruttivi, più rispettosi degli impegni presi (...) e più amichevoli con i partner nell’Ue”, ha detto Barnier. Il pericolo è che l’Ue sottovaluti la trasformazione strutturale che è stata la Brexit per i Tory e, più in generale, per il Regno Unito. 

 

A Bruxelles nessuno crede che la partenza di Johnson possa portare a una marcia indietro sull’uscita dall’Ue o sul tipo di “hard Brexit” che lui ha imposto. Ma la Commissione e gli stati membri sperano in un rapporto pragmatico e stabile, che permetta di evitare inutili conflitti per concentrarsi sugli interessi e le sfide condivisi, dall’economia all’Ucraina. L’approccio dell’Ue alla Brexit è sempre stato quello di minimizzare i danni per sé stessa, il che significa anche per il Regno Unito. Quello di Johnson è sempre stato di massimizzare i vantaggi personali a costo di fare enormi danni. L’Ue ha evitato le rotture definitive – il “no deal” o una guerra commerciale – convinta che prima o poi il Regno Unito sarebbe tornato alla sua tradizionale razionalità. Ma basta guardare l’elenco dei pretendenti al posto di Johnson per capire che la nuova generazione Tory è permeata dell’ideologia Brexit.

L’ex cancelliere, Rishi Sunak, è un leaver della prima ora come Suella Braverman e Penny Mordaunt. L’ex ministro della Sanità, Sajid Javid, lo è diventato dopo il referendum. Steve Baker era stato presidente dell’eurofobo European research group (Erg). Il ministro degli Esteri, Liz Truss, ha messo la sua firma sul progetto di legge per cancellare unilateralmente il Protocollo irlandese. Solo gli ex remainer Jeremy Hunt e Ben Wallace hanno adottato posizioni più moderate sull’Ue. Ma tutti sanno che, per diventare leader dei Tory e dunque premier, hanno bisogno del sostegno dell’Erg e delle centinaia di deputati che Johnson ha fatto eleggere nel 2019. I rapporti con l’Ue sono diventati una variabile di aggiustamento interno ai Tory, uno strumento da usare per le lotte intestine e i regolamenti dei conti. Il Labour ha semplicemente cancellato l’Ue dal suo orizzonte: il suo leader Keir Starmer ha rinunciato a dire che la Brexit è stata un errore e a rimettere in discussione le scelte “hard” sul mercato interno o la libera circolazione dei lavoratori, senza articolare alcuna proposta sulle relazioni con Bruxelles. 

L’uscita di Johnson almeno consentirà all’Ue di rinviare la resa dei conti sull’Irlanda del nord. Ma a settembre, quando i Tory avranno scelto un nuovo premier e il progetto di legge sul Protocollo tornerà ai Comuni per l’adozione finale, l’Ue potrebbe scoprire che la guerra post Brexit è inevitabile.

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