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Dal Washington Post

Le stragi negli Usa e le parole dell'impotenza

Greg Jaffe e Jenna Johnson

Cosa disse Obama dopo la strage di Sandy Hook, cosa disse Trump dopo la strage di Parkland e cosa si dice oggi dopo la strage di Uvalde. Le leggi non cambiano, la frustrazione aumenta, le vittime pure

Obama ha lasciato in eredità al suo successore Donald Trump una risposta quasi rituale alle tragedie causate dalle armi da fuoco, a cominciare dall’attacco del 2011 contro Gabrielle Giffords fino a quello di Dallas del 2016, che provocò la morte di cinque poliziotti. Si sono tenuti quindici discorsi alla Casa Bianca, innumerevoli preghiere per i morti e più di una dozzina di visite sulle diverse scene del crimine. Durante il suo mandato, Obama ha fatto un percorso passando dall’empatia e dalle promesse di azioni concrete alla rabbia e, infine, alla sconfitta. “Non sono ingenuo”, ha detto Obama a Dallas. “Ho visto quanto sono state inadeguate le mie parole”. Trump, al suo secondo anno di presidenza iniziato con la terza sparatoria di massa, ha avuto un problema diverso. Ha avuto difficoltà a entrare in contatto con un pubblico in lutto per ragioni sia personali che politiche. Mentre Obama aveva semplicemente esaurito le cose da dire sulla serie infinita di tragedie con armi da fuoco, Trump – che spesso si sforza di esprimere empatia – ha lottato per trovare qualcosa da dire.


In una dichiarazione della Casa Bianca sulla sparatoria mortale in una scuola a Parkland, in Florida, Trump aveva promesso di voler lavorare con i leader locali per “affrontare il difficile problema della salute mentale”. Ma il suo discorso, durato circa sei minuti, era così generico che avrebbe potuto riferirsi a qualsiasi catastrofe. “A ogni genitore, insegnante e bambino che sta soffrendo così tanto, diciamo: siamo qui per te, per qualunque cosa voi abbiate bisogno e per qualunque cosa possa alleviare il vostro dolore”, ha detto, leggendo un copione come fosse un esercizio monotono. “Siamo tutti uniti, come un’unica famiglia americana, e la vostra sofferenza è anche il nostro fardello”. Quelle parole erano speculari a ciò che aveva detto a settembre dopo la devastazione causata dall’uragano Harvey in Texas e Louisiana. “Quando un americano soffre – e lo dico un po’, soprattutto ultimamente, quando vediamo quello che sta succedendo – soffriamo tutti”, ha detto Trump all’indomani della tempesta. “Siamo come una famiglia americana che si unisce ancora di più nei momenti difficili grazie ai legami indissolubili di amore e lealtà che abbiamo l’uno per l’altro”.


L’appello di Trump a “rispondere all’odio con amore” e alla “crudeltà con la gentilezza” era però in contraddizione con la sua presidenza: arrivava da un presidente che replicava alle critiche rispondendo “10 volte più duramente”, come disse una volta sua moglie. Un presidente orgoglioso di umiliare i rivali con soprannomi offensivi. L’emozione più genuina di Trump – quella che ha attirato legioni di seguaci nella sua campagna presidenziale – è la sua rabbia, dicevano i suoi assistenti. “Siamo stati eletti con ‘Drain the Swamp’, ‘Lock Her Up’, ‘Build a Wall’ (slogan della campagna elettorale trumpiana, ndr), disse in un’intervista Stephen K. Bannon, l’ex stratega di Trump. “La rabbia e la paura sono ciò che spinge le persone alle urne”. Ma la rabbia è sembrata off-limits per Trump quando si è trattato di affrontare le cause delle sparatorie di massa ed è mancata la volontà di agire a Washington. Nonostante i sondaggi indicassero un ampio sostegno alla legislazione sul controllo delle armi, Trump è rimasto fedele ai sostenitori che credevano che Obama stesse cercando di togliergliele. Invece, ha ripetutamente indicato la malattia mentale come causa degli omicidi di massa, compreso quello in Florida, nonostante la sua Amministrazione si fosse mossa per tagliare la spesa a questo tipo di cure. Per i presidenti, le ore e i giorni successivi alle sparatorie di massa possono essere chiarificatori, tirando fuori i loro punti di forza e le loro debolezze come leader. Alcuni dei momenti più memorabili, commoventi ed eloquenti di Obama sono arrivati sulla scia di tali tragedie.

“Non possiamo più tollerarlo”, ha detto Obama a una veglia di preghiera serale dopo l’uccisione di 20 bambini e sei adulti alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, nel Connecticut. “Queste tragedie devono finire”. Dopo il massacro di nove parrocchiani alla chiesa Emanuel A.M.E di Charleston, in Carolina del sud, Obama aveva guidato un’arena piena di persone in lutto sulle note di “Amazing Grace”. Ma non è mai stato in grado di mobilitare il Congresso o il paese all’azione, nonostante l’ampio sostegno pubblico per la legislazione sul controllo delle armi. “Ogni volta che penso a quei bambini, mi arrabbio”, ha detto Obama nel 2016 alla Casa Bianca, con le lacrime che gli scendevano sul viso, ricordando il massacro di Newtown circondato dalle vittime delle sparatorie di massa. In campagna elettorale, Trump ha avuto una capacità unica di entrare in contatto con gli elettori, presentandosi come qualcuno che capiva i loro problemi e si batteva per loro. Da presidente è stato più difficile creare questi legami, soprattutto su questioni come il controllo delle armi, su cui non è mai stato in sintonia con la maggior parte del paese. 


Piuttosto che offrire soluzioni politiche, Trump si è limitato a generiche espressioni di tristezza a seguito delle sparatorie di massa. Si è limitato a promettere di visitare Parkland per “incontrare le famiglie e i funzionari locali e continuare a coordinare la risposta federale”.  “Non è sufficiente intraprendere azioni che ci facciano sentire come se stessimo facendo la differenza”, ha detto Trump. “Dobbiamo fare davvero la differenza”. Trump ha poi seguito una routine quasi identica dopo la più grande sparatoria di massa nella storia moderna degli Stati Uniti, che ha provocato di 50 morti in un festival di musica country all’aperto a Las Vegas. Dopo quella tragedia, il Congresso chiese di mettere fuori legge i “bump stock”, un dispositivo utilizzato dall’attentatore di Las Vegas per trasformare un fucile d’assalto in una mitragliatrice a fuoco rapido. Ma Trump scelse di non prendere posizione sulla questione. “Il presidente è un forte sostenitore del Secondo emendamento”, dichiarò l’addetta stampa della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders. “Questo non è cambiato”. A distanza di un mese, dopo che un uomo armato ha aperto il fuoco in una chiesa rurale del Texas, uccidendo 26 persone, Trump rilasciò una breve dichiarazione in cui esortava gli americani a “unirsi… unire le mani… stringersi… essere forti”.  


In sette anni, Obama ha partecipato alle commemorazioni di Tucson; Newtown; Aurora, Colorado; Washington Navy Yard; Charleston e Dallas. All’epoca dell’ultima visita, Obama aveva iniziato a chiedersi se i discorsi, gli appelli all’azione e le espressioni di dolore avessero cambiato il modo in cui si guardava al problema. All’indomani della sparatoria di Parkland, Obama – privo del pulpito presidenziale – ha comunicato su Twitter: “Siamo in lutto con Parkland”. “Ma non siamo impotenti”. Trump sembrava ben consapevole della storia di Obama e non ha mostrato quasi alcun interesse a promuovere nuove politiche su questioni come le armi e la salute mentale. Nelle prime ore dopo la sparatoria nella scuola in Florida, i funzionari della Casa Bianca si sono dati da fare per ottenere maggiori informazioni e capire come rispondere.


A lungo termine, Donald Trump  sembrava fare un calcolo diverso. Nel suo discorso ha parlato della necessità che gli americani “lavorino insieme per creare nel nostro paese una cultura che abbracci la dignità della vita, che crei legami umani profondi e significativi e che trasformi compagni di classe e colleghi in amici e vicini”. Non fissando alcun obiettivo concreto, Trump sembrava scommettere di poter evitare un fallimento legislativo come quello di Obama. Alla fine, sembrava scommettere, gli americani passeranno ad altre questioni. Alla fine, dimenticheranno.


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