Foto LaPresse / Mstyslav Chernov 

pro e contro

I problemi e i rischi di una “no fly zone” in Ucraina

Mauro Gilli 

Impedire un blocco aereo sui cieli ucraini è un’opzione che non riuscirebbe a evitare l’uso dei missili russi. Attenzione alle gravi conseguenze politiche e militari

Negli ultimi giorni, più esponenti politici, incluso il presidente ucraino Zelensky, hanno invocato l’imposizione di una “no-fly zone” sull’Ucraina. Sia il presidente americano Biden che il segretario della Nato Stoltenberg si sono detti contrari. In questi articolo, cerco di spiegare perché una no-fly zone è una opzione problematica. Una no-fly zone è un’operazione militare che prevede l’imposizione coercitiva di un blocco aereo su un dato territorio. L’idea di fondo consiste nel negare all’aeronautica militare di un altro paese di operare nello spazio aereo sovrastante, impedendo quindi al paese ostile di utilizzare il proprio potere aereo per colpire obiettivi di terra civili o militari. In passato, le no-fly zone sono state imposte al nord e al sud dell’Iraq dopo la guerra del 1991, per proteggere  curdi e sciiti, in Bosnia nel 1993-95 e poi in Libia nel 2011, come anticipazione del conflitto che poi è stato lanciato contro le forze di Gheddafi. 

 

Nell’opinione pubblica, una no-fly zone ha un certo appeal, e forse questa è la ragione per cui il presidente ucraino la ha invocata. Apparentemente, è un’operazione difensiva che non contempla direttamente l’uso della forza. Soprattutto, essa permetterebbe di intervenire in un conflitto senza però dover ricorrere a un dispiegamento di terra – che richiederebbe un impegno che molti paesi non vogliono assumere. Molti, specie in passato, guardavano quindi a questo strumento come una sorta di peace-keeping aereo. Questa è la ragione per cui, per esempio, durante le fasi iniziali della guerra civile in Siria, più voci ne invocarono l’imposizione a tutela delle popolazioni martoriate dal regime di Assad.


Nei fatti, una no-fly zone è però un’opzione molto più rischiosa, e molti la considerano poco adatta al caso ucraino. In primo luogo, finora la guerra lanciata dalla Russia  è stata caratterizzata dall’utilizzo di missili a medio-lungo raggio e operazioni di terra. Mentre nel caso iracheno del 1991, si voleva evitare che Saddam Hussein usasse nuovamente l’aeronautica — o addirittura le armi chimiche — contro il nord e sud del paese, una no-fly zone non riuscirebbe a impedire l’uso dei missili russi. Inoltre, alla luce dell’attuale evoluzione del conflitto, una no-fly zone obbligherebbe la Russia, al massimo, a una campagna di natura esclusivamente terrestre. Ma la campagna russa è già stata, nei fatti, dominata dall’uso delle forze di terra. In altri termini, o la no-fly zone si trasforma in un’operazione che mira anche a distruggere le forze di terra russe (come successe  in Libia) oppure sarebbe  di poco aiuto: prolungherebbe e complicherebbe il conflitto, ma non sarebbe in grado di alternarne l’esito

 

Purtroppo, nel caso ucraino, una no-fly zone avrebbe anche delle conseguenze politiche e militari che, al momento, gli attori sembrano voler evitare. Avere aerei Nato che sorvolano i cieli dell’Ucraina significa esporli alla contraerea russa. Ciò pone una molteplicità di problemi. In primo luogo,  avvicinerebbe un conflitto tra Russia e Nato. La Russia verosimilmente cercherebbe di ostacolare con la forza queste operazioni, per alzare il livello della tensione, e obbligare così la Nato o a un ritiro o a un impiego  massiccio. Per semplificare, si darebbe a Putin un’ottima arma per forzare un’escalation senza avere i mezzi per controllarla (o dover accettare un’umiliazione).


In secondo luogo, le forze aeree Nato sarebbero obbligate a evitare la contraerea russa. Ciò renderebbe estremamente difficile imporre la no-fly zone, a meno che non si voglia optare per la distruzione della contraerea russa  – un’opzione, a oggi, inverosimile. Operare in un contesto rischioso, dunque, richiederebbe uno sforzo significativo in termini tattici, operativi, organizzativi e infrastrutturali – primo fra tutti, il supporto di strumenti di “guerra elettronica” per minimizzare il rischio degli aerei Nato di essere tracciati da radar nemici.


In passato, le no-fly zone, come il peace-keeping, erano operazioni militari adatte a un mondo unipolare e multilaterale, nel quale le grandi potenze cooperavano (su spinta statunitense), o per lo meno non erano in competizione, per mantenere una sorta di ordine e legittimità internazionale. Rispetto agli anni ’90, il mondo è cambiato: il sistema internazionale è diventato più competitivo, e fare “crisis management” è diventato molto più difficile. Dunque, non è più possibile affidarsi a soluzioni intermedie. Questo è il dilemma che stanno affrontando la Nato e l’Ue: intervenire direttamente significa andare allo scontro con una potenza nucleare che ha già minacciato il ricorso a ordigni atomici; non intervenire, significa accettare ciò che riteniamo inaccettabile, la distruzione dell’Ucraina.

 

Mauro Gilli 
senior Researcher in Tecnologia Military e Sicurezza Internazionale al Politecnico di Zurigo

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